EUGENIO MIRONE | Se è vero che ogni vita è un racconto e che ognuno di noi è potenzialmente un narratore, è anche vero che esistono luoghi che più di altri devono il loro valore alle storie e alle esperienze che ospitano. La sala di un processo giudiziario, l’aula di un colloquio tra i genitori di un alunno e un professore, il parlatorio di un carcere sono tutti «involucri di storie, scenari inconsapevoli e costanti di relazioni umane». Così li ha definiti Stefano Massini il quale, affascinato in particolare dall’ambiente del parlatorio delle carceri, scelse di ambientarvi la trama de La gabbia (figlia di notaio), la prima delle tre opere, insieme a Zone d’ombra e Versione dei fatti, che condividono questo scenario. La raccolta dei tre testi, dal titolo Trittico delle Gabbie, venne pubblicata nel 2009 per Ubulibri, la casa editoriale diretta da Franco Quadri che, per primo, decise di scommettere sul giovane scrittore fiorentino impegnandosi a pubblicare anche i suoi lavori successivi. Inutile star qui a chiedersi se Quadri ci avesse visto lungo.
Nella versione del testo di Renato Sarti, leggermente modificata da piccoli inserti drammaturgici in accordo con l’autore, all’apertura del sipario due figure, madre e figlia, sono ferme in piedi, l’una davanti all’altra, separate solo da una panca metallica posta al centro della scena. La prima (Federica Fabiani) è una donna d’alta borghesia, scrittrice di successo che parla tramite i suoi romanzi. Indossa un vestito scuro e porta al braccio una borsetta.
La figlia (Vincenza Pastore), ex brigatista in carcere da undici anni, le volge le spalle. Ha i capelli raccolti da una bandana ed è in divisa carceraria: maglietta nera e pantaloni cargo scuri. Il parlatorio del penitenziario, all’interno del quale si trovano le due donne, è uno spazio asettico, chiuso ai lati da due pareti grigie e sul fondo da una fila di sbarre d’acciaio. L’unica fonte di illuminazione è un lampada al neon, sospesa esattamente sopra la panca, che irradia la sala di luce fredda e spettrale.
La tensione è, fin dai primi istanti, molto alta. È la prima volta che le due donne si incontrano da quando la figlia, appena ventenne e insofferente del mondo conformista in cui si sentiva rinchiusa, decise di scappare per unirsi alle brigate rosse. Ben presto il parlatorio si trasforma in un vero e proprio ring, dove può attuarsi lo scontro verbale tra i due personaggi. La regola è solo una: la prima che uscirà dalla stanza perderà la sfida. A nulla servono le frasi di circostanza della madre sul caldo e sul lungo viaggio. «Perché sei qui?»: questa è la domanda rivolta immediatamente dalla figlia; su questo interrogativo viene costruito l’intero dialogo.
Primo round, prima risposta: tentativo di persuasione. Se la figlia venisse riconosciuta come estranea alle operazioni (e uccisioni) della banda di cui faceva parte, potrebbe ottenere uno sconto di pena. La richiesta equivale ad accendere la miccia di un ordigno: la risposta è chiara: «La pistola era impastata con la mia persona e la mia ideologia». É un improvviso punto di svolta in cui, dalla ferrea decisione iniziale di non comunicare, la figlia decide di rivelare alcuni fatti della sua esperienza in un monologo recitato intensamente da Vincenza Pastore a fronte palco.
«Nel nostro agire c’era una pulsione di morte, ma costruttiva»: il livello di consapevolezza sul modo di intendere, a posteriori, la lotta armata è disarmante. Questa brutale lucidità d’analisi viene confermata nel seguente passaggio in cui la figlia s’interroga sulla purezza d’animo di chi, osservando dall’esterno, gioiva delle “imprese” compiute dalle brigate rosse a quei tempi. Le idee sono nette, il carattere deciso; si può ben comprendere che non si trattò di un’adesione superficiale alla causa. Posto sotto questa luce il confronto acquista un sapore diverso.
Secondo round, nuova risposta: pura curiosità. Ora la figlia è sdraiata sulla panca mentre la madre racconta la storia del suo nuovo romanzo; in seguito, una sigaretta diviene argomento di discussione. L’aria si scalda, dopo il tentativo fallimentare della figlia di uscire dalla stanza, il dialogo giunge a un apice di tensione. La madre di Federica Fabiani, fino a questo momento dimostratasi moderata e distaccata (d’altra parte si trova in carcere a rivedere la figlia terrorista per la prima volta dopo undici anni), portatasi di fronte alla figlia seduta sulla panca, spezza la compostezza colpendola con uno schiaffo.
Terzo round, ultima risposta: “Diario di una prigioniera politica”. È il titolo del manoscritto scritto dalla figlia in cella e poi lasciato incompleto. La madre ne è entrata in possesso ed è venuta per parlargliene: questo è il vero motivo della visita. Prima di andarsene invita la figlia a proseguire il racconto, da lei lasciato incompiuto, perché grazie alla scrittura sembra aver cominciato a ritrovare sé stessa.
Un atto d’amore inaspettato, simbolo di un affetto materno schiacciato da un rapporto ormai logoro, ma non ancora inesistente.
La produzione firmata Teatro della Cooperativa è attenta nel rispettare un testo come La gabbia (figlia di notaio) incentrato saldamente sul dialogo e sulle relazioni tra personaggi, in cui ogni elemento esterno alla parola, se rimarcato eccessivamente, rischia di distrarre lo spettatore dal fulcro dell’azione.
Regia e scenografia sono curate entrambe da Renato Sarti. La prima, pulita e basata su pochi movimenti di scena ben definiti, permette di concentrarsi a pieno sulla vicenda; la seconda, solida e geometrica, esalta il luogo di confronto/scontro tra gli attori. Luca Grimaldi e Marco Mosca hanno progettato un disegno luci efficace che, in piena sintonia con le musiche di Carlo Boccadoro, contribuisce a trasmettere il senso di freddezza espresso dalla scenografia metallica che avvolge l’intera scena.
Sobria e misurata è anche la prova di Federica Fabiani e di Vincenza Pastore. Nei primi istanti si percepisce una leggera fatica nel mantenere alta la tensione, complice qualche impastamento nella pronuncia di troppo; tuttavia, una volta entrate nel flusso dell’azione, le due attrici danno prova di saper reggere saldamente il peso del dialogo di Massini.
L’anima letteraria del drammaturgo è già ben presente in questo suo testo giovanile, nel quale l’autore, oltre a focalizzare l’attenzione sull’immagine della gabbia (declinata in tutte le sue forme all’interno della pièce), vuole proporre una riflessione metaletteraria sul tema della scrittura. Vissuto come una gabbia/rifugio dalla madre, scrivere diviene per la figlia il mezzo attraverso il quale trovare sé stessa. È uno dei numerosi strumenti di cui ognuno di noi può e deve usufruire, prima di ritrovarsi con una pistola in mano in nome di un’ideologia. Non c’è giudizio; ma viene naturale porsi una domanda: fin dove bisogna spingersi prima di trovare il coraggio di guardarsi dentro e arrivare a conoscersi davvero?
LA GABBIA (figlia di notaio)
di Stefano Massini
con Federica Fabiani e Vincenza Pastore
inserti drammaturgici, regia e scenografia Renato Sarti
musiche Carlo Boccadoro
disegno luci Luca Grimaldi, Marco Mosca
produzione Teatro della Cooperativa
Teatro Filodrammatici, Milano
15 febbraio 2022