RENZO FRANCABANDERA | Non sono rare a teatro, specialmente di recente, fusioni a freddo fra compagnie e artisti. Non sempre i risultati sono all’altezza dei nomi che si sommano, più di frequente il totale dà esiti minori della somma degli addendi.
Qui invece raccontiamo un caso diverso, o almeno che tale pare a chi scrive: parliamo dell’incontro creativo fra Kronoteatro e Maniaci d’Amore, di cui si è avuta manifestazione con La fabbrica degli stronzi, una coproduzione di Kronoteatro e del Teatro Nazionale di Genova, realizzata con il sostegno del PimOff di Milano, che ha debuttato nel settembre 2021 a Prato, al Festival Contemporanea.

Storie diverse. Percorsi diversi: Kronoteatro, compagnia teatrale nata alcuni anni fa dall’incontro fra Maurizio Sguotti e un gruppo di giovanissimi attori che si sono uniti dopo l’esperienza di un laboratorio teatrale per le scuole, ha lavorato in questi anni ad Albenga ma con un riverbero di carattere nazionale sia per l’estetica particolare – che ha portato il loro lavoro fino alla Biennale di Venezia nel 2018 – sia per l’impegno di oltre un decennio nell’organizzazione dell’originale e tenace festival Terreni Creativi, una rassegna estiva che si svolge nelle serre e nelle aziende agricole della cittadina ligure. Un must del tour estivo tra i festival di teatro.
Maniaci d’Amore è la compagnia nata dall’incontro nelle aule del Master in Tecniche della Narrazione della Scuola Holden fra Francesco d’Amore (editor coach, nato a Bari) e Luciana Maniaci (psicologa e psicoterapeuta, Messina). Dal 2009 si uniscono in una compagnia dal nome originale, che debutta l’anno successivo con Il nostro amore schifo, spettacolo che ha avuto un felice riscontro di pubblico e critica. Negli anni successivi fra premi, riconoscimenti e collaborazioni interessanti con artisti importanti del teatro italiano, hanno partecipato con le loro creazioni ai maggiori Festival; fra queste Morsi a vuoto, diretto da Filippo Renda, fino a un radiodramma per Radio3 Rai nel 2015, La casa non vuole, e poi prima della pandemia Il desiderio segreto dei fossili che aveva vinto il premio di Teatri del Sacro, e da cui nel 2019 era nato Petronia.
​Si arriva quindi al 2020, anno in cui nasce Siede la terra, spettacolo sui meccanismi sociali dei piccoli paesi, sul violento maschilismo e razzismo, sulla diceria del potere e sul potere della diceria, coprodotto da Kronoteatro e che segna di fatto l’avvicinamento fra queste due realtà, che pur nella diversità delle poetiche e dello stile dello stare in scena, hanno tuttavia un universo sensibile con significative contiguità.
I temi dell’identità, del rapporto fra individuo e società, la solitudine, il conflitto fra sistemi organizzati e minoranze, spesso riletti in microcosmi come quello familiare, sono diventati un terreno su cui si sono innestate le scelte drammaturgiche alla base de La fabbrica degli stronzi, la prima creazione comune.
Abbiamo visto lo spettacolo in una prima ripresa, il 16 febbraio, presso il Teatro Ferdinando Bibiena a Sant’Agata Bolognese, prima delle date che da metà a fine marzo lo vedranno in replica prima alla Sala Mercato del Teatro Archivolto a Genova e poi all’Elfo Puccini a Milano.
La drammaturgia, dei Maniaci, vede tre figli disvelare, fra memorie, ambizioni e frustrazioni, le rispettive identità davanti al feretro della madre, appena morta.
I tre, vagamente impegnati in una surreale composizione della salma, prendono il pretesto per tornare sulla vita comune, sul rapporto con le funzioni genitoriali: il rapporto fra la statuaria e sempre troppo presente, anche da morta, figura materna, e l’aeriforme presenza della figura paterna, evocata ma inconsistente.
E così mentre i figli, interpretati in modo grottesco e sincopato da Tommaso Bianco, Francesco d’Amore e Luciana Maniaci, si affannano con la grazia dei Fratelli Marx sul corpo semivivo e semimorto della genitrice, felicemente interpretata da un Maurizio Sguotti di cui nel recitato viene giustamente esaltata la mimica, parte un concatenarsi di eventi che arrivano a comporre una sciarada della frustrazione soggettiva sub vincolo familiare.
Da eventi sostanzialmente neutri e privi di alcuna reale consistenza traumatica, i tre figli riescono, ciascuno per sè ma anche verso l’universo circostante, a creare un sistema di alibi tali da consentire a ciascuno di ricamarsi un’esistenza di deresponsabilizzazione e nullafacenza.
Ovviamente la madre diventa incarnazione perfetta di questo meccanismo, grazie al quale si addossa all’altro la colpa dei propri irrisolti.
In riferimento ad alcune questioni ampiamente elaborate poi in Critica della vittima, uno dei testi a cui lo spettacolo si ispira nei suoi postulati concettuali, Daniele Giglioli ben descrive il proliferare ai giorni nostri di vittime presunte, potenziali, aspiranti, e talvolta biecamente false, come espressione del cortocircuito fra verità e potere. Perchè in fondo la vittima non deve dimostrare nulla a nessuno, le basta farsi carico ed esibire il fallimento di cui è cristallina esemplificazione ma rispetto al quale non ha colpe e responsabilità avendo subito un abuso, un trauma, un’ingiustizia.
E così (l’esemplificazione è nella retorica politica quasi quotidianamente) chi pretende di ammantare di verità un proprio discorso sarà sempre tentato dalla menzogna di spacciarsi per la vittima che non è.
La mancanza di una verità, cosí come di un bene, che possa essere indicato in positivo all’interlocutore, ma in fondo finanche a se stessi, porta a generare una prassi di adeguamento lamentoso, l’ostensione liturgica della sofferenza vissuta, che a un certo punto diventa soddisfazione, di chi dispera di vincere e nel destino fallimentare si crogiola.
Per dirla con l’autore e cercando in queste parole una sintesi concettuale della drammaturgia dai ritmi quasi beckettiani, il vittimismo «…perpetua il dolore. Coltiva il risentimento. Incorona l’immaginario. Alimenta identità rigide e spesso fittizie. Inchioda al passato e ipoteca il futuro. Scoraggia la trasformazione. Privatizza la storia. Confonde libertà e irresponsabilità. Inorgoglisce l’impotenza, o la ammanta di potenza usurpata. Se la intende con la morte mentre fa mostra di compiangere la vita».

Ed è appunto quanto avviene in questa mortifera rappresentazione di un non vissuto, in cui figli e genitore cadavere si rimpallano la responsabilità di essere stati causa di fallimenti incrociati, in modo però da lasciare sempre tutto inemendabile, paludoso e paludato.

La freschezza della parola abrasiva e disincantata ma studiata, dei Maniaci, unita al rigore del recitato incorniciato nel movimento di scena, da sempre cifra delle creazioni di Kronoteatro, licenzia qui un prodotto che vive in uno spaziotempo totalmente psichico, ambientato in un territorio volutamente reso neutro dalle scene e dai costumi di Francesca Marsella, che porta in un obitorio della coscienza, nel sottoscala della personalità.
Tingono di ulteriori atmosfere stranianti e mai realistiche le luci disegnate da Alex Nesti.
Dedicandosi goffamente a uno dei riti di cui la società si è liberata, ovvero la composizione della salma del defunto, appaltata ormai a mani esperte che lo fanno per professione, i tre figli, senza alcuna ostentazione né reale esperienza del dolore e del distacco, incarnano perfettamente i temi de La società senza dolore e de La scomparsa dei riti – Una topologia del presente di Byung-chul Han, altro filosofo cui gli artisti rendono credito di pensiero per la creazione.
Un credito la cui consistenza è tangibile nell’intreccio drammaturgico ma anche della concreta dinamica di relazione fra i personaggi, senza che mai questo rimando all’impostazione filosofica diventi esibizione di conoscenza. Anzi, il tono della parola resta sempre leggero, quasi pop. Icastiche le forme della recitazione.
Siamo di fronte a un’opera ben pensata, portata in scena in modo intelligente, senza effetti speciali di sorta e focalizzata sul fatto teatrale puro: un pensiero robusto di fondo, il testo, la recitazione. Stop.

 

LA FABBRICA DEGLI STRONZI

drammaturgia Maniaci d’Amore
con Tommaso Bianco, Francesco d’Amore, Luciana Maniaci e Maurizio Sguotti
regia Kronoteatro e Maniaci d’Amore
scene e costumi Francesca Marsella
disegno luci e responsabile tecnico Alex Nesti
produzione Kronoteatro
coproduzione Teatro Nazionale di Genova
con il sostegno di Residenze PimOff Milano