RENZO FRANCABANDERA | È un debutto non consuetudinario quello andato in scena al Teatro Sperimentale di Ancona sabato 26 e domenica 27 febbraio: alla sua prima collaborazione con Marche Teatro (che coproduce con CSS e Metastasio), Liv Ferracchiati, autore, regista teatrale e performer, diversamente da quanto fatto in passato con una serie di anteprime in piccoli teatri in cui misurare il respiro del pubblico, porta in mare il suo nuovo spettacolo, di cui è autore e regista, senza quel piccolo rodaggio iniziale, e misurandosi quindi direttamente con la platea cittadina.
E se dovessimo considerare quanto accaduto con il pubblico presente in sala il 27 Febbraio ad Ancona, Uno spettacolo di fantascienza_quante ne sanno i trichechi è una operazione riuscita.
Lo spettacolo vede in scena Ferracchiati stesso, Andrea Cosentino e Petra Valentini, e nasce dal progetto École des Maîtres, nell’edizione speciale 2020 e 2021 dedicata ai drammaturghi europei, condotto da Davide Carnevali, in cui Liv Ferracchiati è stato selezionato a partecipare come autore; tornerà poi a Udine in questo primo fine settimana di marzo, per riprendere la tournée nella prossima stagione teatrale.
L’innesco drammaturgico è totalmente pretestuoso: mentre in un interno borghese tradizionale una coppia pare attendere un figlio, su un altro asse narrativo una rompighiaccio è diretta al Polo Sud, ma i ghiacciai si sciolgono, i trichechi rotolano giù dalle rocce e l’asse del mondo si sposta, la Terra si crepa nel mezzo.
La scena si apre con Ferracchiati e Valentini a microfono, in una di quelle scene iconiche e un po’ cristallizzate da teatro contemporaneo di pronta beva, in cui i performer, scolpiti da luci algide e sotto una nevicatina leggera leggera che cade dall’alto, rendono alla platea profonde verità esistenziali attraverso una certa qual lagnanza autobiografica.
Ferracchiati, a cui non sfugge né il ritmo comico della scrittura né la capacità autoironica, interrompe la scena, mettendone in luce proprio le pretestuosità velleitarie di talune forme narrative della prosa teatrale, e inizia di lì a creare un continuo slittamento di piani fra una surreale vicenda a due, in cui lui e la Valentini hanno una relazione di coppia e aspettano un figlio, e un piano totalmente immaginario e proiettato, ambientato sulla rompighiaccio di cui si diceva, e sul ponte della quale si staglia, carismatica e vestita in eleganti abiti e impermeabile beige (scene e costumi sono di Lucia Menegazzo), la figura di Andrea Cosentino, che pare uscire da uno di quei kolossal letterario cinematografici.
La vicenda, non priva di consistenti oscillazioni comiche e tutta giocata su paradossi verbali e di azione scenica, passa da un polo narrativo all’altro, intarsiandosi di un continuo e postbrechtiano interrompersi di ogni sussulto emotivo, se non proprio arrivando – nel costante sbriciolarsi del narrato – a una ironia sferzante sia relativamente alla vicenda sia al meccanismo del teatro stesso.
Tanto si dà questo gioco, che a un certo punto il regista in scena, a suo modo kantoriano anche se dal sembiante volutamente dimesso, svagato e con meno physique du rôle, decreta la fine della prima parte drammatica per avviarne una post-drammatica, in cui gli attori in scena sono in pantaloni e maglietta, interpretano i personaggi chiamandosi con il loro nome, giocano alla via di mezzo fra persona e personaggio, in quello sguazzo non meno frequentato e ormai uso persino alla abbonata di Voghera. Su cui pure Ferracchiati non manca di scherzare.
Tanto è consistente l’abitudine all’estetica del post-drammatico che il pubblico non solo sghignazza esattamente come un qualsiasi addetto ai lavori di fronte alle battute del teatro sul teatro, ma anzi, totalmente disinibito dalla dinamica performativa del codice ferracchiatesco che lo chiama in causa e lo vuole in vita, partecipe, pulsante, a un certo punto si è messo – nella replica anconetana – a dialogare con gli artisti in scena: tale era l’euforia della partecipazione al divertissement che quasi si faticava dal palco a riportare il silenzio in sala tanto che il regista, in un superspazio di drammaturgia di scena che coinvolge palco e platea, invoca il coro, per sedare un pubblico totalmente immerso nel gioco d’improvvisazione che lo coinvolge.
Se dunque il metro del teatro vivo dovesse leggersi nella consistenza e vivacità della relazione palco-platea, sicuramente ci troveremmo di fronte a un caso felice e invero raro. Insomma sembra quasi di sentire il feretro del teatro, medium tante volte dato per spacciato, tornare in vita e farlo con tono irridente, come nella scena della tromba di Hollywood party, in cui anche quando tutti sparano addosso alla vedetta, quella resuscita, porta il corno alla bocca ed emette un suono non certo cristallino, ma che testimonia una certa affezione all’esistere.
Prima di tutto, quindi, lo spettacolo si costruisce intorno a un interessante, amorevole e riuscito gioco sul teatro, in cui si esaltano le doti interpretative tanto della Valentini (cui non mancano anche qualità canore), quanto di un notevolissimo Cosentino, particolarmente a suo agio in questo bordo fra recitato e non, che pratica con evidente naturalezza da decenni e che qui abbraccia in modo rotondo le sue doti di scena.
In secondo luogo, quanto al contenuto specifico, Ferracchiati ambisce a fare un ragionamento sul tema Cosa siamo profondamente; su quanto ciò che gli altri dicono diventi convenzione e spesso anche identità che abbracciamo senza chiederci se questa cosa ci appartenga o meno. Nelle note di regia si specifica proprio come per comunicare, noi stessi si sia spesso costretti a scegliere, più o meno consapevolmente, i segni che vanno a comporre le nostre caratteristiche, cioè finiamo per aderire non solo interiormente ma addirittura esteriormente. Per tutto lo spettacolo quindi si ragiona sullo spiazzamento, sul cambiamento di prospettiva nel punto di vista, della ridenominazione dell’ovvio, ma anche della ridefinizione di quello che siamo, che va oltre quanto ci viene appiccicato addosso dal mondo circostante.
Ne viene fuori una pièce della durata di poco più di un’ora, gradevole e intrigante, ben interpretata e capace di dialogare non solo esplicitamente per gioco ma anche implicitamente e in modo sostanziale con il pubblico su una serie di questioni diverse, agite in scena con consapevolezza e intensità dai tre interpreti, coadiuvati da un ricco e interessante disegno luci di Lucio Diana.
Diversi sono gli inserti musicali, che spaziano da Murcof ai Ricchi e Poveri, quasi a raccontare l’intervallo concettuale, l’interstizio fra serio e faceto, fra lirico e profano in cui lo spettacolo, per dire le sue cose, felicemente si intrufola.
UNO SPETTACOLO DI FANTASCIENZA
Quante ne sanno i trichechi
di Liv Ferracchiati
con Andrea Cosentino, Liv Ferracchiati, Petra Valentini
aiuto regia Anna Zanetti
dramaturg di scena Giulio Sonno
scene e costumi Lucia Menegazzo
disegno luci Lucio Diana
suono Giacomo Agnifili
lettore collaboratore Emilia Soldati
prodotto da Marche Teatro, Teatro di Rilevante Interesse Culturale, CSS Teatro stabile d’innovazione del FVG, Teatro Metastasio di Prato.