RENZO FRANCABANDERA | Se un dio esiste nell’immaginario di Marta Cuscunà, sicuramente deve avere qualità da ingegnere meccanico appassionato di teatro di figura.
La ricerca dell’artista originaria di Monfalcone, in questi anni, infatti, si è spinta verso una declinazione del teatro di figura che comprende la presenza in scena di oggetti manovrati manualmente, complessa e originale, che sicuramente in Italia non ha termini di paragone, per il sofisticato livello raggiunto.
Ne è testimonianza anche l’ultima sua creazione, Earthbound ovvero le storie delle Camille, una coproduzione ERT / Teatro Nazionale, CSS Teatro stabile di innovazione del FVG e Etnorama che sta girando in Italia con successo di pubblico.
Earthbound è a tutti gli effetti un monologo di fantascienza per attrice e creature animatroniche – ovvero progettate per essere attivate dal movimento umano. Avevamo assistito nell’estate 2020 all’interno di B.Motion a Bassano del Grappa a una presentazione teorico-filosofica del lavoro, cui si abbinava anche una piccola dimostrazione sulla parte meccanica sottostante la creazione di scena.
Si tratta davvero di una componente sostanziale dei recenti allestimenti, compreso quest’ultimo ispirato nelle forme esteriori alle creazioni transumane della scultrice Patricia Piccinini. Queste presenze sceniche, nella meccanica del movimento, grazie alla progettazione di Paola Villani, vengono governate da poche semplici manopole che richiamano nella forma i manubri di bicicletta, mossi come joystick da Cuscunà a una consolle.
Si tratta di una frontiera dell’utilizzo della macchina in scena che, scarnificata dell’involucro esterno del burattino, e dunque ridotta alla semplice meccanica scheletrica, era stata già nel 2018 alla base de Il canto della caduta, altro spettacolo della artista friulana, di recente riproposto anche al Piccolo Teatro di Milano in una personale a lei dedicata.
Earthbound, proprio per la complessità dell’apparato tecnico, oltre che alla creatività di Paola Villani, artista interessata alla macchina in scena fin dai suoi esordi teatrali con Pathosformel, è stato uno tra i 122 progetti sostenuti da i-Portunus, bando europeo a sostegno della mobilità creativa, che ha reso possibile la collaborazione degli artisti italiani con il team di João Rapaz, autore di effetti speciali e film di animazione, negli studi di Oldskull FX di Lisbona. Igus®, azienda leader nella produzione di tecnopolimeri, ha fornito poi la componentistica con cui sono stati realizzati gli scheletri dei pupazzi protagonisti di Earthbound, che permette l’animazione generata dal manovratore umano, grazie a una componentistica leggera e allo stesso tempo affidabile.
Abbiamo visto lo spettacolo alcuni giorni fa presso il Teatro Bonci di Cesena. Con l’apertura del sipario lo spettatore entra in un mondo post-catastrofico, in cui sopravvive una tenace pianta arborea cui fa visita, servendosi di un trasportatore monoruota, di quelli in voga ora, un’intelligenza artificiale, Gaia, dal sembiante umanoide femminile, interpretato dalla stessa Cuscunà.
Dopo aver dialogato con il vegetale, di cui ovviamente gli spettatori non possono che intuire le risposte, il personaggio rientra in un grande bozzolo centrale, quasi una base spaziale di forma sferica, che occupa il centro della scena in modo volutamente enfatico.
Si tratta di una tensostruttura sferica alta circa quattro metri, che ruotando permette alla scena di modificarsi, porgendo allo spettatore due viste: da un lato quella che sembra una sorta di ventre che accoglie una forma vivente, distesa, a riposo, dalla corporeità umana; dall’altro lato vediamo un piccolo Eden vegetale, una sorta di arca di Noè su cui abitano poche creature nate dall’ibridazione di diverse forme viventi e, proprio per queste qualità, sopravvissute alla distruzione favorita sul pianeta Terra dal genere umano.
Una è una creatura appesa a testa in giù, a forma di grande pipistrello, l’altra sembra una foca con una testa antropomorfa. Ne arriverà in seguito una terza, che assomiglia un po’ a un Gollum de Il Signore degli anelli.
Gaia è capace di dialogare con queste altre forme viventi presenti nel guscio e che si chiamano Camille, ed è, nella drammaturgia, in contatto con una super intelligenza artificiale che sembra parlare da un remoto pianeta, da un altrove ultra terreno, che chiama Gaia di tanto in tanto con la stessa modalità con cui Orson si collegava a Mork in Mork e Mindy: una connessione mentale che prende qui la forma di una trasmissione di informazioni a raggi blu, con luci che si accendono sulla testa di Gaia e in alto, nel palcoscenico, a creare un immaginario dialogo in cui a Gaia vengono date istruzioni sulla gestione dell’energia della stazione e dei suoi abitanti.
A dare movimento e parola a tutte costoro, oltre ad interpretare Gaia, è proprio Cuscunà.
I protagonisti mirano sostanzialmente a favorire la nascita di una nuova vita, in un mondo in cui la funzione maschile in qualche modo non esiste più.
Sembra un ritorno al mondo epico contenuto nella favola intorno a cui è costruito il racconto de Il canto della caduta, ricavato della tradizione popolare dei Ladini: il mito di Fanes. Li si raccontava di un’età dell’oro in cui gli esseri umani avevano un rapporto di alleanza con la Natura e in questo “tempo più antico del tempo” la guida del popolo era compito femminile.
Poi arrivarono le forme di potere maschili e iniziò il tempo delle distruzioni.
In Earthbound, al contrario, siamo dopo la grande distruzione, in una piccola colonia di individui migrati in aree danneggiate dallo sfruttamento umano, per risanarle grazie alla collaborazione con partner non-umani, gli Earthbound (o Camille appunto), cui sono stati impiantati i geni di creature in via d’estinzione con il duplice scopo di conservarne la specie e favorire una nuova prospettiva per l’adattamento dell’uomo con l’ambiente naturale.
Tutta la vicenda, fantascientifica, come le forme degli esseri viventi che le danno vita, parla agli spettatori (anche in modo diretto rompendo di frequente la quarta parete) di tematiche quantomai attuali, legate alla forma di coabitazione malata e violenta sul pianeta terra e del futuro possibile senza l’uomo, inteso in primis come essere umano, ma anche come genere maschile.
Il lavoro si basa su un’ampia riflessione circa il principio organizzativo del diritto e della politica moderni: noi contemporanei ordiniamo il mondo in modo tale da mantenere in gran parte le realtà della distruzione ecologica ‘fuori scena’ e con essa le forme di pari dignità degli individui e delle forme viventi.
Tramite l’analisi di una serie di testi letterari di matrice ecologista e filosofici, Earthbound, attraverso la metafora delle Camille, delinea il significato di questa organizzazione del potere ed esplora per assurdo, partendo da un immaginario ex post-utopico, come potrebbe essere trasformata la società delle forme viventi, nel tentativo di affrontare le varie sfide associate all’Antropocene, ponendo le basi per una nuova etica della sopravvivenza, non solo umana.
È quella che nell’ormai classico Tools for Conviviality, Ivan Illich definisce convivialità, come il contrario della produttività industriale.
I fatti di questi giorni dimostrano allo stesso tempo la drammatica necessità di una riflessione del genere, e anche l’altrettanto verosimile certezza che l’essere umano, il suo maschile, è pronto a distruggere la vita sul pianeta piuttosto che affrontare pacificamente le enormi sfide alla sopravvivenza cui stiamo già andando inesorabilmente incontro: la sovranità ci assorbe a causa delle sfide associate alla crisi climatica, che riflette in sè e rinforza le ingiustizie all’interno delle comunità e nel sistema vivente.
Su questo hanno scritto a vario titolo e in diverse forme pensatori come Bruno Latour ma anche Simone Weil, Clive Hamilton, Jacques Rancière, Donna Haraway, Judith Butler, Giorgio Agamben e Stuart Elden, tra gli altri.
Latour in particolare, nel suo definire il concetto di Earthbound, che dà il titolo al lavoro, suggerisce come gli ultimi trent’anni siano stati segnati da crescenti disuguaglianze, deregolamentazione e negazione della crisi climatica – cose tutte collegate fra loro.
Nei decenni precedenti c’era un ampio consenso sul fatto che il mondo si stesse globalizzando, che sempre più persone venissero introdotte in un’economia globale che alla fine avrebbe innalzato gli standard di vita, ma è ormai chiaro come il pianeta non possa sostenere nove miliardi di persone con uno stile di vita consumistico occidentale e piuttosto pare avvicinarsi quanto descritto già nel 1973 da Calhoun negli esperimenti sugli scenari da sovrappopolamento di Universo 25 con i topi.
Una volta che ciò è diventato ovvio, come i topi hanno cominciato a sbranarsi fra loro con i più forti che, pur di restare al potere, piuttosto divoravano i nascituri, così le élite globali hanno rinunciato all’idea di una prosperità comune universale e hanno perseguito un approccio più egoistico. Le grandi potenze mondiali, governate ormai da oligarchi miliardari, si sono ritirate dagli sforzi globali per affrontare il cambiamento climatico per non compromettere il proprio over-consumo, addossando ciascuna al prossimo il peso di pagare queste scelte scellerate.
Ispirato nello specifico alle teorie della filosofa Donna Haraway e al rifiuto dell’antropocentrismo, lo spettacolo si rivolge da un futuro post apocalittico a una platea di sconfitti, da un futuro in cui il dominio umano è stato soppiantato da una una visione multispecie, ibridata, in cui le forme viventi hanno preferito alle scelte solitarie e prive di legami, una respons/abilità collettiva a risolvere in forma cooperativa i problemi del presente, vessato dalle conseguenze dell’Antropocene o Capitalocene (= epoca geologica in cui le attività umane hanno inciso sui processi geologici).
Insomma noi in platea siamo la specie sottosviluppata di cui le Camille sul palcoscenico si prendono giustamente gioco! Ed effettivamente, come dice bene Mancuso ne La nazione delle piante, il tema della sopravvivenza della specie appare molto più chiaro alle piante che agli esseri umani, e come sostiene Annamaria Rivera ne La città dei gatti. Antropologia animalista di Essaouira, la cura è un fatto di classe più che di genere, capace di essere colto ed agito da chi ha più bisogno piuttosto che da chi già ha, e questo al di là dei generi.
Dunque per noi esseri umani, ormai i giochi della distruzione da parte dei pochi sono irrimediabili o è possibile un ripensamento dell’etica, un pensiero tentacolare per un sistema dove l’uomo non è l’unico protagonista? Tornando alla declinazione scenica di questo complesso apparato di pensiero, l’attrice per tutto il tempo, con fare quasi ventriloquo, è impegnata sia nella recitazione, dando voce a tutti i diversi personaggi, sia con il movimento, per conferire dinamica alle figure inanimate di cui governa la meccanica.
Da sempre l’artista si è spinta in una frontiera del gioco scenico dove l’arte del puppeteer arriva a incontrare altre abilità artigiane, e con Villani da anni lavora alla realizzazione di maschere in silicone capaci di assumere espressività umanoide di raffinatissima fattura.
Era stato già così in Sorry, Boys (2016), dove Cuscunà dava vita, sempre sola in scena, a una serie di figure della periferia inglese, passando da una postazione all’altra, e anche in quel caso governando attraverso un complesso sistema manipolativo la mimica facciale delle maschere, animandole.
In Earthbound la complessità, vorremmo dire quasi robotica, raggiunge una qualità davvero mirabile.
La texture drammaturgica lamenta di contro una debolezza nell’esplicitazione di un conflitto che è più filosofico e con un mondo che non ha rappresentanti in scena a incarnarlo.
Dovrebbe essere il pubblico il contraltare antagonista, ma i fruitori del teatro sono come i belli di Universo 25, i topi hikikomori, che si rinchiudono nelle loro piccole cellule senza più la forza di combattere sapendo che sarebbero perdenti: quelli in platea sono per la gran parte quelli per la pace, quelli che Cuscunà non ha bisogno di convincere.
E quindi in teatro amaramente si sorride, consapevoli da subito dell’ironia che l’autrice regista per bocca delle Camille fa sul genere umano.
Ma in un ambiente scenico piuttosto oscuro, postcrepuscolare, silenzioso, poco di trasformativo, con riferimento al plot, accade oltre ai dialoghi fra le Camille, l’intelligenza artificiale e l’alberello sopravvissuto. Cuscunà attraverso loro si rivolge a noi, fruitori superstiti (di certo ancora per poco) di un medium anch’esso in via d’estinzione, soggetti se non totalmente compenetrati dalle conoscenze specifiche di cui la regista si fa portatrice, certamente non proprio all’oscuro delle questioni in discussione, e nella sostanza concordi con un approccio meno antropocentrico.
Dunque il problema di Earthbound è che a vederlo sono le rane consapevoli di essere già nella pentola col fuoco sotto, che finiranno bollite e che osservano sospirando le Camille.
Come è possibile sovvertire in uno scenario mondiale tanto violento l’ordine che pare talmente ineluttabile delle vicende?
Il consiglio che le Camille danno alle rane in platea è quello di abbracciare un albero, di provare a capirne il vocabolario, di innamorarsene, se capita.
E noi volentieri ci si prova, ma mentre abbracciamo senza ironia, anzi piuttosto disperati, il tiglio fuori dal teatro, a poca distanza infuria la guerra.
Sembra già arrivi in casa e ci chiediamo davvero se resterà qualche forma di vita superstite, ibridata o meno, capace di sopravvivere alla presenza distruttiva dell’essere umano sulla Terra.
EARTHBOUND
ovvero le storie delle Camille
di e con Marta Cuscunà
liberamente ispirato a Staying with the trouble di Donna Haraway (© 2016, Duke University Press)
scena Paola Villani
assistente alla regia Marco Rogante
progettazione animatronica Paola Villani
realizzazione animatronica Paola Villani e Marco Rogante
scultura creature animatroniche João Rapaz, Janaína Drummond, Mariana Fonseca, Rodrigo Pereira, Catarina Santiago, Francisco Tomàs, (Oldskull FX-Lisbona)
dramaturg Giacomo Raffaelli
disegno del suono Michele Braga
disegno delle luci Claudio “Poldo” Parrino
direttore tecnico Massimo Gianaroli
direttore di scena, capo elettricista e fonico Marco Rogante
macchinista Simone Spangaro / Jurgen Koci
scene costruite nel laboratorio di Emilia Romagna Teatro Fondazione
produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione, CSS Teatro stabile di innovazione del FVG, Etnorama
Sponsor tecnico igus® innovazione con i tecnopolimeri
Pulegge Marta s.r.l. forniture per l’industria
Costruzioni metalliche Righi Franco Srl
Fili d’acciaio e guaine per freni di biciclette Franza Giuseppe
foto di scena Guido Mencari
un ringraziamento speciale a Giusi Merli che ha gentilmente concesso le sue sembianze per realizzare Camille 1 e a Guqin Wu per aver condiviso con tanta generosità un pezzo della nostra strada
con il sostegno di São Luiz Teatro Municipal (Lisbona)
con il supporto di Istituto Italiano di Cultura di Lisbona, i-Portunus, A Tarumba – Teatro de Marionetas (Lisbona), i cittadini e le cittadine che hanno aderito al progetto #iosonoMecenate
(I MECENATI: Carlo Chiarino, Anonimə, Tania Grimaldi, Anonimə, Multiservice di Gloria Vezzoli, Davide Pocchiesa, Eleonora Belloni, Claudio Regeni, Giovanna Rovedo, Omar Manini, Veronica Viotti, Michele Ferrandino, Isabella Sartogo, Roberto Franco, Anonimə, Gianna Gorza, Serena Stocco, Angela Ascari, Laura Cantarella, Agata Cacciola, Anna Zucchiatti, Alessandro Amato, Franco Parlamento, Anonimə)
in collaborazione con Dialoghi – Residenza delle arti performative a Villa Manin 2018/2020
grazie a: Andrea Macaluso, Antonella Ninni, Barbara Boninsegna, Eleonora Odorizzi, Famiglia Cuscunà/Zucchiatti, Famiglia Villani e dipendenti ditta Marta, Filippo Raschi, Francesco Gritti, Francesco il biciclettaio, Il lavoratorio, Jean-FrançoisMathieu, Laura Marinelli, Maria Magalhaes, Sue Ellen, Chiara Venturini, Samuele Nicolettis per Veleria Onesails, Valentina Fogliani.