GILDA TENTORIO | Mettere in scena il dramma antico è una sfida: il testo contiene indizi performativi che restano però rarefatti e dividono i filologi, regala pertanto grande libertà di interpretazione ma al tempo stesso ingabbia. Come far parlare oggi l’antico? Certo, ormai non ci aspettiamo tuniche e coturni (l’artificio della maschera però continua a esercitare un fascino arcano che viene spesso rivalutato), ma fino a che punto è lecito spingersi nell’attualizzazione? Sappiamo ad esempio che il pianto delle Troiane sulla città in fiamme è quello di tutte le donne vittime della guerra, sempre uguale nei suoi orrori, ma c’è ancora un vastissimo campo di sperimentazione e i maggiori registi puntano allo spiazzamento: i generi maschio-femmina diventano fluidi, personaggi secondari assurgono a nuove dimensioni e nel tragico si scovano anche residui di comicità. Bando a pose ieratiche e recitazione solenne e viva il dinamismo!, come succedeva nella splendida maratona di Antonio Latella Santa Estasi, uno degli esperimenti più interessanti degli ultimi anni.
Il teatro greco di Siracusa resta l’appuntamento imperdibile per il dramma antico in Italia, con regie che vanno da un impianto ‘classico’ a una ricerca talvolta stucchevole dell’effetto speciale. Ciò che spesso resta in ombra nelle messinscena italiane è un elemento fondamentale, cioè il coro, misterioso personaggio collettivo e policefalo, capace di padroneggiare la tridimensionalità del tempo: conosce le arcane profondità del mito, ha la voce tonante e solenne del monito, sa ricamare squarci lirici di scintillante bellezza o lamentare le cupe distese del destino che tutto travolge. La sua presenza è “extra-territoriale”, legata al canto, alla musica (spartiti che non ci sono mai giunti) e ai volteggi di danza.
Pensavo a queste difficoltà e all’incolmabile distanza che ci separa dagli antichi mentre assistevo alle Baccanti di Euripide, il nuovo lavoro della regista Laura Sicignano (anima del teatro Cargo di Genova ed ex-Direttrice Artistica dello Stabile di Catania). Lo spettacolo è giunto a illuminare la stagione teatrale lecchese che, da diversi anni orfana del suo Teatro Sociale, ha ripiegato sugli spazi del Cineteatro Palladium.
Ultima tragedia del grande Euripide, enigmatica, barbarica, le Baccanti sono la celebrazione del dio del teatro e della sua ambiguità e quindi soprattutto rito nel rito. Forse è il testo che più di tutti avrebbe bisogno di spazi aperti, dove convogliare il ribollire viscerale di energia e ricreare il brivido del sacro. Lo spazio del Palladium non è certo l’ideale, e il risultato è stato di compressione e di perdita di potenza, una riduzione (tecnicamente obbligata) grottesca e a tratti carnevalesca. In altri luoghi gli spettatori hanno potuto forse meglio comprendere il gioco delle luci psichedeliche, mirate a ricostruire le pareti claustrofobiche di un museo o di una stanza mentale in cui si aggirano le figure nere del nostro inconscio. Inevitabile nella tournée scontrarsi con il problema dello spazio ridotto: lo spettacolo dovrebbe cambiare forma e adattarsi, ma l’arte sta nel saper mantenere, seppure variata, la magia, e questo respiro al Palladium di Lecco non si è sperimentato.
Nei suoi lavori Sicignano è attenta ai personaggi femminili eversivi e dopo Antigone, mostra ora in queste Baccanti una “repubblica delle donne”. Il protagonista Dioniso è affidato a Manuela Ventura, una scelta non nuova (ad esempio nella scorsa stagione a Siracusa il dio era interpretato da Lucia Lavia), ma indicativa dei nostri tempi.
A Tebe regna il re Penteo, simbolo della rigida razionalità che rifiuta il dio; ma le donne della città, le Baccanti, appunto, nell’invasamento rituale per il dio sono uscite fuori dalle mura e vagano sul monte Citerone, rivendicando il potere della libertà che scardina le certezze, il disordine che incalza l’ordine, l’irrazionale che, a contatto con la natura, è una forza in grado di sovvertire la cultura. Queste almeno le premesse, che però non vengono mantenute fino in fondo dalla regia.
La scenografia è spoglia: ogni tanto dalle quinte vengono trascinate una scala, una poltrona, una scrivania e un armadio /teca (che ha la funzione di porta d’accesso, prigione e catafalco), relitti di un arredamento vintage di una città in decadenza. Buone ma non completamente sfruttate alcune trovate sceniche: nel Prologo, Dioniso dall’alto della scala si presenta come il deus ex machina e imposta un magnetico gioco di braccia, in pose che ricordano la maestà di certe arcaiche dee minoiche e d’un tratto diventa anche il grande burattinaio, che lega a sé e manovra le donne di Tebe. Bella anche l’idea di utilizzare dadi e una trottola policroma, a indicare la fragilità delle vite umane ridotte a balocchi nelle mani del dio che tutto controlla. Tuttavia questi dispositivi non sortiscono un effetto arcano: i dadi sono minuscoli e si vedono appena, la trottola metallica non viene lasciata girare a terra in vorticose evoluzioni. Poco felici sono anche le mosse successive di Dioniso, che mostra il nervosismo capriccioso con ripetuti calci nell’aria simili a mosse di karate, o compiaciuto, dirige come direttore d’orchestra il coro delle Baccanti che elenca le sue virtù…
Lo scontro fra Dioniso e Penteo risulta mutilato e compresso: si perde quel mirabile lavoro anche retorico di sfida, ambiguità, instillazione del dubbio e infine débâcle completa del sovrano, che sortisce invece dai versi di Euripide. All’improvviso il re (Aldo Ottobrino), lo sguardo perso e come ipnotizzato, si lascia docilmente manipolare e vestire da donna per spiare i misteri delle Baccanti, ma la narrazione si muove a scatti troppo accelerati e la scena assume un sapore grottesco (perché le Baccanti sono vestite da cameriere? È un’allucinazione del re, che interpreta ancora il mondo secondo le categorie di maschile-dominatore e femminile-sottomesso?). Dioniso, dio cangiante della metamorfosi, qui invece presiede un rito di travestimento, e in modo analogo altri momenti vengono neutralizzati in un carnevalesco innocuo che non ha nulla di arcano.
Così succede ad esempio alla figura del Messaggero (Silvio Laviano), più simile a un giocoso prestigiatore che a un portatore di notizie, oppure alla coppia Tiresia-Cadmo che ricordano i beckettiani Vladimir-Estragon, più che due vecchi sedotti dai nuovi riti. Beninteso, tutto è lecito, e anzi è interessante reinterpretare Euripide alla luce di Beckett, ma i nessi non sono chiari e paiono spunti non sviluppati.
Interessante invece l’idea della musica dal vivo in scena, con le sperimentazioni musicali di Edmondo Romano, fra tamburi e fiati dai soffi ancestrali, altamente evocativi. La traduzione (un adattamento della stessa Sicignano) non è sempre fluida: ad esempio colpisce quel ripetuto “manine”, riferito alle Baccanti, che depotenzia la forza incontenibile del delirio.
Ma naturalmente le aspettative convergono sul Coro, che in particolare in questo testo euripideo racchiude una forza tragica che è estetica e spaventosa a un tempo. Le Baccanti di Sicignano sono tre, ognuna con la sua individualità. Non cantano (qualche vocalizzo è pre-registrato) e soprattutto non danzano. La Sicignano in alcune interviste parla di suggestioni da “danza contemporanea”, ma non si vedono gesti “che parlano” alla Pina Bausch, perché queste attrici roteano teste e braccia, scalciano, sono prese da convulsioni, torcono il corpo in evoluzioni acrobatiche. Nella prima parte indossano vesti nere (preludio del lutto che devasterà la città?) e alla fine, in abiti bianchi, impostano una danza di trionfo che cerca di imitare i ritmi mimetici di certe danze africane oppure il ballo delle “tarantolate”. Se allora il legame voleva essere con il fenomeno del tarantismo (musica e danza come terapia ed esorcismo), l’affondo avrebbe potuto essere più incisivo. Si ha invece l’impressione di suggestioni ibride (tribalismo, atavismo antropologico, gesti plastici contemporanei) che non giungono all’effetto del delirio orgiastico: anche in questo caso si punta all’akmé, senza curare i passaggi graduali di seduzione lenta e avvolgente, come avviene nei riti estatici. Interessante la scena finale con Dioniso che urla la sua vittoria in greco, mentre vediamo proiettate sullo schermo-fondale le lettere dell’alfabeto che cadono verticali, alla Matrix: il dio ha distrutto un mondo, ridotto in lacerti anche linguistici, e da qui partirà la rinascita?
Queste Baccanti, sembra, nuotano sulla superficie del mistero-Euripide. Ripenso allora agli intellettuali di inizi Novecento che sentirono l’esigenza di “tornare ai Greci”, sfruttando cioè i teatri antichi, perché il palcoscenico rischia infatti di soffocare la tragedia e il brivido del sacro.
BACCANTI
di Euripide
regia di Laura Sicignano
con Aldo Ottobrino, Manuela Ventura, Egle Doria, Lydia Giordano, Silvia Napoletano, Alessandra Fazzino, Franco Mirabella, Silvio Laviano
musica Edmondo Romano
produzione Teatro Stabile di Catania
Cineteatro Palladium, Lecco
01 marzo 2022