SARA PERNIOLA | Fellini è ancora oggi portatore di un immenso valore culturale che lascia in eredità ad una società di cui facciamo parte tutti: la sua immagine della realtà ne svela le dolci amare contraddizioni e l’inganno delle sue illusioni. Per un personaggio complesso e in costante evoluzione come lui, poi, che ha vissuto così intensamente la sua straordinaria avventura artistica, è naturalmente coerente e doveroso tracciare un consapevole profilo del performer, esserne prezioso custode. E all’interno del sotterraneo e ricchissimo deposito memoriale del film Ginger e Fred – con Giulietta Masina e Marcello Mastroianni che interpretano un’anziana coppia di ballerini di tip-tap, immedesimandosi nell’imitazione degli intramontabili Fred Astaire e Ginger Rogers -, in cui fluttuano stilemi e concetti tipicamente felliniani, c’è di certo anche l’interesse per la figura dell’artista.
lo amo gli artisti: sono dei benefattori dell’umanità. Oh, sì, io li amo – dice un personaggio del film (è l’intronato ammiraglio sabaudo) -, a dimostrazione di come l’arte, con il suo riflesso abbagliante di creatività e libertà, sia strumento contro l’oppressione del banale.
Antonio Tagliarini e Daria Deflorian con lo spettacolo Avremo ancora l’occasione di ballare insieme – in scena nei teatri italiani da ottobre 2021 e rappresentato a Bologna all’Arena del Sole a febbraio scorso – insistono proprio su queste libertà e possibilità di espressione individuale. Dei diversi rivoli di rimandi e interpretazioni che il film offre e da cui traggono liberamente ispirazione, il duo teatrale, infatti, si sofferma sul ruolo dell’artista che bussa alla porta della propria interiorità e al cui interno si celano suoni, immagini e spezzoni di tempo.
Le coppie che ballano insieme sono tre: una di trentenni, una di quarantacinquenni e una di sessantenni; costituiscono un unico duo che percorre dimensioni temporali diverse. Stretti in un triplice abbraccio per trattenere il ricordo di una vita lontana insieme, gli attori si domandano: da quant’è che io e te abbiamo smesso di ballare insieme? Da quant’è che abbiamo smesso di capirci? La risposta – da tanto – è popolata da fiati che soffiano su un vuoto persistente, conosciuto ma non superato. A guardarci dentro gira la testa, stancando i pensieri tanto quanto i piedi distrutti per essere stati in balera tutta la notte. I sei interpreti, infatti, si muovono sul palcoscenico, sensuale e dalle tinte scure, a ritmo ora di tip tap, ora di un morbido ballo. La danza diventa, così, una terra viva che riporta avanti e indietro in un tempo comune a tutti, aiutando a capire e a ricordare le cose dietro le cose, di come il presente sia il frutto della collaborazione tra cura e scelte, tra azioni e tenerezza.
I protagonisti dello spettacolo – Francesco Alberici, Martina Badiluzzi, Daria Deflorian, Monica Demuru, Antonio Tagliarini, Emanuele Valenti – entrano dal lato sinistro della sala, salgono le scale e si posizionano sul palcoscenico: sui loro volti espressioni interessate e sorprese, sui loro corpi abiti sobri e scuri. Siamo di fronte allo scenario post-apocalittico della fine del teatro, con il sipario irrequieto, appeso sul fondo, davanti ai nostri occhi. É il “grande teatro vuoto all’italiana”, come dice la Demuru nella parte di una guida museale munita di ombrello che un po’ getta al vento le ceneri di ciò che è stato e un po’ ne traccia il profilo come di un amico bisognoso ancora da scoprire. Adesso che la grande catastrofe è avvenuta – la scomparsa del grandioso teatro di parola – ci si ritrova ad essere ancora di più materia dolente, mentre si dimostra il proprio vissuto descrivendo ricordi, preziosi e soffici come carezze.
É così che l’ironia raffinata e trascinante dei dialoghi si ricongiunge alla memoria, nella ricostruzione di un percorso che è alle prese con la figura dell’attore raccontato nella trasversalità delle sue forme e ruoli: da colui che scopre l’impietosa e tragica schiavitù delle proprie manchevolezze a quello che prende coscienza e sparge una commovente sensibilità; dal performer umiliato nel ristorante mentre serve pietanze ad altri a chi gusta, dopo anni di sacrifici, il sapore del successo. Lo spazio teatrale finisce di essere ricostruzione di un ambiente e si specchia con la vita. Gli attori che vanno in sala prova, infatti, è come se andassero “in miniera”, prigionieri della caverna e soli di fronte alle ombre dei loro mondi. Chi è esente da questa sensazione? E come ritrovare, poi, la faccia della luna? C’è una lampada che improvvisamente si accende sul palco, una ghost light che riconnette con la luce, mentre gli artisti continuano a destreggiarsi in dialoghi evocativi sulla poesia delle cose e delle emozioni. Quella zona caldamente illuminata diviene uno spazio protetto, ciò a cui si pensa quando non si è lì: è casa. Il teatro – dunque la vita – è come essere su una nave in burrasca che molto spesso va contro corrente e che fa pagare il delizioso prezzo di sensibilità e fatica, ma che porta con sé anche la capacità di calmare l’irrequieto vento del nord. Le tende blu del sipario, che continuano a battere su un’acqua immaginaria, ce lo ricordano, mentre sono risospinte senza posa dal passato. Nuotare verso la luce, riconoscerla, è salvezza, è lasciare andare il mormorio senza parole nel recuperare il canto in un sogno, perché quando sogno, respiro. E quello che sogno, immagino. E chi se ne frega se non lo vede nessuno: secondo me è bellissimo e soprattutto mi fa stare bene – come afferma uno dei personaggi. Ciò che non permette agli occhi di prendere il colore delle lacrime è anche un po’ di amorevolezza, collante che diventa occasione di incontro nella delicatezza della danza delle coppie, nella loro volontà di procedere insieme nel loro smascherarsi intenzionalmente senza intenzione – come ha detto Fellini stesso.
Lo spazio scenico è elegantemente essenziale: le luci di Gianni Staropoli e Giulia Pastore scaldano ai lati del palco due camerini-ambienti, abbelliti con sedie, un piccolo tavolo da trucco e stand per costumi. Ci si cambia anche in scena, mentre ci si sistema lo sbuffo della camicia insegnato dalle mani esperte della figura materna, su un palco che è un fuori, è una cascata, è un fuori, all’aperto, come viene intensamente recitato da uno dei protagonisti. I corpi, infatti, occupano lo spazio centrale delle scenografie, dove l’azione – asciutta e nitida – si anima grazie ai movimenti, e gli attori si rivelano essere non degli esecutori, ma creatori di partiture spettacolari che riportano nel presente, attraverso gesti e pensieri, sguardi e passi danzanti. La profondità di questa relazione artistica e connessa alla vita viene accompagnata dal tessuto sonoro dalla sospesa e intima natura di Emanuele Pontecorvo, il quale contribuisce all’inserimento della dimensione onirica e del vissuto che emerge – nello spettacolo e in ogni aspetto dell’esistenza – e che bisogna saper governare. Esattamente come nel film, la concretezza memoriale dello spettacolo si rafforza con la carrellata di personaggi-icone che, indecentemente bravi, sono riusciti ad interpretare un mondo intero tutti da soli: Pina Bausch con il suo dondolio di corpi contro-irritanti, Carmelo Bene con la potenza del provocatorio, Eduardo de Filippo e il suo essere attore che scrive.
E poi, ancora, Marilyn che c’entra sempre perché vogliamo essere tutti lei; Rimbaud che parla e balla, pesta i piedi e pretende, e dice che puoi farlo anche tu, Fred Astaire con Let’s face the music and dance.
Decidere di ri-conoscersi in queste verità umane è una scelta che trasforma il tutto in una scrittura scenica sofferta ma anche leggera, permettendo di trovare un senso anche al blackout che costringe Marcello Mastroianni a perdere l’equilibrio e scivolare a terra; a considerarla un’alternativa ponderata che lascia spazio all’inaspettato per i sei attori che decidono di lasciarsi alle spalle il limite delle acque sicure e continuare una storia dirompente e ammaliatrice: quella fatta da ringraziamenti per tutti perché in questa vita serve proprio tutto e dell’incandescenza che permette di non farsi rapire da nessuno.
C’è, dunque, sempre una ghost light simbolo di speranza che rischiara i mondi bui e stanchi, e che illumina nel blackout che la stagione teatrale ha dovuto vivere per quasi tre stagioni.
E se è vero che nulla placa la nostalgia dell’anima, il cuore, però, resiste brillantemente alla prova.
AVREMO ANCORA L’OCCASIONE DI BALLARE INSIEME un progetto di Antonio Tagliarini, Daria Deflorian liberamente ispirato al film Ginger e Fred di Federico Fellini
interpretazione e co-creazione Francesco Alberici, Martina Badiluzzi, Daria Deflorian, Monica Demuru, Antonio Tagliarini, Emanuele Valenti
aiuto regia e collaborazione alla drammaturgia Andrea Pizzalis
consulenza artistica Attilio Scarpellini
interpretazione e co-creazione Francesco Alberici, Martina Badiluzzi, Daria Deflorian, Monica Demuru, Antonio Tagliarini, Emanuele Valenti
aiuto regia e collaborazione alla drammaturgia Andrea Pizzalis
consulenza artistica Attilio Scarpellini
luce Gianni Staropoli e Giulia Pastore
scene Paola Villani
suono Emanuele Pontecorvo
costumi Metella Raboni direzione tecnica Giulia Pastore
cura e promozione Giulia Galzigni / Parallèle amministrazione Grazia Sgueglia
un ringraziamento a Lorenzo Grilli per il training tip tap e a ziamame per la collaborazione ai costumi
produzione Associazione culturale A.D., Teatro di Roma – Teatro Nazionale, ERT / Teatro Nazionale, Teatro Metastasio Prato
coproduzione Comédie de Genève, Odéon – Théâtre de l’Europe, Festival d’Automne à Paris, Théâtre populaire romand – Centre neuchâtelois des arts vivants, Théâtre Garonne – scène européenne et Centre Dramatique National Besançon Franche-Comté
con il sostegno di Interreg France-Suisse 2014-2020, programma europeo di cooperazione transfrontaliera nel quadro del progetto MP#3 e del Romaeuropa festival
residenze Ostudio Roma, Théâtre Garonne – scène européenne
foto e video di scena Andrea Pizzalis
Teatro Arena del Sole, Bologna 6 febbraio 2022