RENZO FRANCABANDERA | Al centro del palcoscenico, in un buio nebuloso, si staglia un quadrato bianco di quattro metri per quattro circa, ricoperto da un telo che ne increspa la superficie come in un monocromo di Piero Manzoni. Sotto il telo, al centro del quadrato, si intravede una figura femminile distesa. I lembi prospicienti al proscenio del grande telo bianco che copre tutto il pavimento anche oltre il quadrato iniziano a sollevarsi e, formando quasi delle vele di una nave, si issano in alto, svelando un mondo sotterraneo, sommerso.
I teli-tempesta semitrasparenti fissati fino a formare una sorta di gigantesca bolla che pende dal soffitto del teatro, lasciano filtrare raggi di luce, e di colpo ci troviamo in un ambiente sottomarino meraviglioso e in cui si ambienta il naufragio che dà il via alle vicende.
In questo affogare e salvarsi subacqueo, di mare agitato e di voci lontane, che dura diversi minuti, inizia La Tempesta di Alessandro Serra, che ha debuttato a Torino alle Fonderie Limone di Moncalieri dove resterà in scena fino ai primi di aprile, in una coproduzione del Teatro Stabile di Torino, Teatro di Roma, da Emilia Romagna Teatro, Sardegna Teatro, in collaborazione con I Teatri Reggio Emilia e Compagnia Teatropersona, la compagnia del regista che in questo allestimento, eccezion fatta che per le maschere di Tiziano Fario, firma scene, luci, suoni, costumi.
Pur mantenendosi, come in altri precedenti allestimenti firmati dal regista, una sostanziale semplicità e ampiezza dello spazio scenico, che resta concretamente vuoto, eccezion fatta per la pedana centrale quadrata, Serra riesce a creare con i giochi di luce, di cui è abilissimo ideatore, una serie di spazi fisici e concettuali. Ricorre in particolare, in questo specifico ambiente, a grandi pannelli scorrevoli sul fondale che, mossi ad arte, arrivano a dare la sensazione di mondi paralleli che si agitano dietro, doppio fondo di un universo che ha a che fare con l’incosciente, l’ultra umano, il teatro, come vedremo fra poco.
La traduzione del testo del Bardo, curata dal regista stesso, viene affidata ad un gruppo di dodici attori Fabio Barone, Andrea Castellano, Vincenzo Del Prete, Massimiliano Donato, Paolo Madonna, Jared McNeill, Chiara Michelini, Maria Irene Minelli, Valerio Pietrovita, Massimiliano Poli, Marco Sgrosso, Bruno Stori, di cui la regia enfatizza l’orizzontalità, senza che alcuno spicchi sostanzialmente, a prescindere dalla figura di Prospero, affidata all’interpretazione di Marco Sgrosso, che è per certi versi l’artefice magico di questo universo cristallizzato.
Il personaggio, ancorato ai propri rancori e desideri di vendetta invecchiati con lui, crea un mondo bloccato in cui non fiorisce nulla, e in cui gli spiriti liberi, come Ariel e Caliban, in versione qui dionisiaca, sono di fatto imprigionati.
L’adattamento del testo ha quasi un grottesco e non comune sbilanciamento sulla cifra della commedia, mentre nella lettura dello spazio tragico, volutamente o meno, si enfatizzano alcuni elementi archetipici che legano questa opera alle altre maggiori scritture di Shakespeare.
Episodico il ricorso alle maschere, mentre tutto quello che accade è piuttosto palese e affidato alla umanità dell’interpretazione.
La paradossale sensazione alla fine è quasi quella di aver assistito alle vicende e alle epopee dei personaggi secondari, come i due marinai nella loro farsesca relazione con il mostro Caliban, che nell’economia dello spettacolo diventa una vicenda ampia e dalle esplicite dinamiche sessuali fra i tre.
Per fare un paragone shakespeariano, sarebbe un po’ come se nel Sogno di una notte di mezza estate la vicenda di Bottom e dei suoi sgarruppati sodali diventasse il cuore della vicenda più dell’intreccio degli amanti. Ovviamente la cosa non è spinta fino a questo punto, ma in qualche modo ci arriva vicino, mitigando fortemente l’impatto dei filoni narrativi principali, e facendo venir fuori a sbalzo il contrasto fra la figura di Prospero nel suo infelice invecchiare, e la vitalità delle due creature ultraumane Ariel e Caliban.
La chiave di lettura arriva poco prima della conclusione quando in uno degli ennesimi disvelamenti che arrivano dal fondo scena che si squarcia, che si apre e rivela la profondità psicanalitica della natura umana, appare uno squarcio di backstage, un disvelamento dell’arcano teatrale colto nell’attimo del cambio costumi che diventa parte integrante della narrazione.
Così mentre Prospero pronuncia la celebre frase «Siamo fatti della stessa sostanza dei sogni; e nello spazio e nel tempo d’un sogno è racchiusa la nostra breve vita», per un breve tempo il fondale oscuro si apre nella parte destra, disvelando il luogo teatrale come macchina della fantasia che dialoga con l’universo inconscio e rivela all’uomo le sue indicibili verità, un brusio di voci incomprensibili e indistinguibili, nella seminudità dell’attore.
Dal punto di vista della costruzione concettuale dunque la geografia dell’allestimento ha una sua definizione chiara nella sua semplice tripartizione fra pedana centrale-luogo abitato, spazio anteriore che la circonda-spazio dell’agibile sconosciuto, spazio posteriore-universo chiuso dell’inarrivabile psichico, quindi esplorabile solo con il teatro.
I costumi portano dentro un mondo fiabesco e antico, un altrove infantile, dove tutto è un po’ come nel mondo dei giochi, in cui i pochi oggetti di scena diventano emblematici e utilizzati per ogni scopo. Si tratta di qualche asse di legno, una cesta, ramoscelli d’albero, due spade da combattimento e davvero poco altro.
La cifra scelta per la recitazione è piuttosto lineare per tutti i personaggi, eccezion fatta per i due marinai napoletani (sebbene uno incomprensibilmente si esprima in dialetto pugliese perlopiù). Incarnano una animalità senza regole e sono fuori dai giochi di potere e relazione preconfigurata che bloccano, anche nella fisicità, tutti gli altri, e per questo i due sono organici al mondo di Caliban. Il loro gergo popolare arriva addirittura a portare in scena un brandello di Cornutone degli Squallor, quasi come rigurgito della scrittura di scena, chissà…
Sono figure oneste, più semplici dei loro padroni, sebbene si rischi un po’ di schiacciare in una sorta di ferinità trash queste umanità sincera e senza vincoli, proprio mentre si rivela che sono le uniche capaci di dialogare con il lato mostruoso dell’umano, incarnato da Caliban.
Dell’allestimento in retrospettiva, dopo qualche giorno resta sicuramente vivo l’impianto visionario, pittorico-compositivo, di figure che emergono dal buio, di quadri viventi, pietà, visioni oniriche e contro luci drammatici. A tratti lo spettacolo sembra quasi chiederci di non prenderci troppo sul serio, di ricalibrare il lato leggero, senza guardare sempre troppo alle cose presunte importanti, che lo diventano solo quando le osserviamo troppo.
Il riequilibrio fra drammatico e tragico dell’esistente sta proprio in capo a ciascuno.
Serra ha dunque deciso di sviluppare una lettura dell’opera shakespeariana scenograficamente ardita e magica nella composizione per lo sguardo, fatta di parole e segni accessibili, che compattano la recita in un unico atto facile e gradevole da seguire.
Le interpretazioni giovani hanno la loro intrinseca acerbità. Bene Michelini nel vivace ruolo di Ariel, spinta anche lei verso l’estremo recitativo di una sorta di maschera comica, come in fondo un po’ tutti, fino ad alcune figure finanche un po’ saturate da questa lettura. Sono gli accenti voluti nella partitura, che ogni direttore d’orchestra decide di inserire per dare ritmo e sostanza all’opera.
Qui la regia dilata lo spazio dell’assurdo, del finto, del teatrale, inteso come mistero e anche come possibilità di espressione panica, rivelatrice.
In questa libertà va letta dunque la possibilità di segni che allo spettatore più attento all’organicità paiono fuori luogo e a quello più accogliente verso il segno pop paiono necessari e sono accolti con il sorriso.
Nel complesso lo spettacolo funziona, mantiene coerenza con l’estetica del regista, per il quale probabilmente il teatro resta il gioco più efficace con il quale esplorare, nel suo personale percorso di artista artigiano dell’immagine in movimento, le architetture e il buio interiore, da rivelare con arditi squarci luminosi.
In questa logica, il percorso dell’artista, che deve essere egoista e concentrato solo sulla propria ricercerca e verità di rappresentazione, incurante del parere altrui, è giusto che prosegua, e che prosegua in teatro, continuando ad avvicinare il regista e gli spettatori alle verità nascoste dietro le oscure e alte porte scorrevoli, i doppi fondi dell’esistenza di ciascuno.
LA TEMPESTA
di William Shakespeare
traduzione e adattamento Alessandro Serra
consulenza linguistica Donata Feroldi
con (in ordine alfabetico) Fabio Barone, Andrea Castellano, Vincenzo Del Prete, Massimiliano Donato, Paolo Madonna, Jared McNeill, Chiara Michelini, Maria Irene Minelli, Valerio Pietrovita, Massimiliano Poli, Marco Sgrosso, Bruno Stori
regia, scene, luci, suoni, costumi Alessandro Serra
collaborazione alle luci Stefano Bardelli
collaborazione ai suoni Alessandro Saviozzi
collaborazione ai costumi Francesca Novati
maschere Tiziano Fario
Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale / Teatro di Roma – Teatro Nazionale / Emilia Romagna Teatro Fondazione / Sardegna Teatro
in collaborazione con Fondazione I Teatri Reggio Emilia / Compagnia Teatropersona
Distribuzione interpreti e personaggi
Fabio Barone – Ferdinando
Andrea Castellano – Nostromo/Spirito
Vincenzo Del Prete – Stefano
Massimiliano Donato – Alonso
Paolo Madonna – Sebastiano
Jared McNeill – Caliban
Chiara Michelini – Ariel
Maria Irene Minelli – Miranda
Valerio Pietrovita – Antonio
Massimiliano Poli – Trinculo
Marco Sgrosso – Prospero
Bruno Stori – Gonzalo
FONDERIE LIMONE DI MONCALIERI
Dal 15 marzo al 3 aprile 2022 │ PRIMA NAZIONALE