ILENA AMBROSIO | Un’immersione nel ricordo per chiedersi cosa si può diventare a partire dalle esperienze anche dolorose dell’infanzia.
Uno sguardo, ampio e lontano da stereotipi, su cosa sia la maternità, intesa non tanto come procreazione quanto come filo che lega due esseri umani nel segno della cura, cosicché si sfumano i contorni dei ruoli di madre/padre e figlio/figlia.

La classe – un docupuppets per marionette e uomini – acclamato come spettacolo rivelazione del 2019, premiato con l’In-box, l’ANCT e l’UBU per il miglior progetto sonoro – e Una cosa enorme sono gli ultimi due lavori della regista e autrice Fabiana Iacozzilli, ospitati di recente nella sala ridotta del Teatro Bellini di Napoli che in questa questa stagione, più che mai, conferma lo spiccato – e coraggioso – interesse verso la parte più originale e innovativa della scena contemporanea italiana.
Due lavori che raccontano una poetica composita, aperta a linguaggi scenici diversi che di volta in volta possano dialogare in maniera icastica ed efficace con lo spettatore; poetica complessa, non sempre accogliente, evidentemente figlia di uno sguardo personale, specifico sul reale.
Di questi lavori e del suo percorso artistico abbiamo parlato con Fabiana Iacozzilli.

In La classe racconti che la scintilla della regia è legata a un preciso momento autobiografico: la suora, tua maestra alle elementari, ti spronò a occuparti di uno spettacolo scolastico perché le avevi confidato di parlare con le bambole. Di avere, quindi, un rapporto speciale, differente con la realtà. Come l’hai vissuto? Come un privilegio o come una condanna?

Questa è una cosa sulla quale mi interrogo io stessa. Proprio grazie allo spettacolo ho lavorato a fondo su quali fossero stati motivi che mi hanno spinta a fare questo mestiere. Io non lo so realmente se è stata una scelta della suora o mia. Mi spiego meglio: io risposi alla suora che le bambole mi parlavano perché era realmente così, per me le bambole erano più che altro persone con le quali potere avere a che fare, soprattutto facevano tutto quello che dicevo loro. Ma non ti saprei dire con certezza dire se diventare una regista è stata una mia scelta, se ho portato fino in fondo un mio talento emerso grazie alla suora, o se la suora mi ha condannata a una professione. 

E come vivi, da adulta, questo dubbio? Il chiederti se ciò che fai è un dono soltanto tuo o una cosa tirata fuori da una persona che ha segnato la tua vita, anche in modo pesantemente doloroso?

Di fatto lei ha iniziato a farmi fare una cosa che mi riusciva bene, certo, ma io l’ho assecondata soprattutto perché desideravo l’affetto di questa donna… Spesso amiamo in modo morboso i nostri carnefici. Per cui non so se l’amore per il teatro è nato perché lei lo amava così tanto e quindi io l’ho assecondata per compiacerla, oppure se il mio parlare con le bambole mi dava effettivamente una luce particolare.
Io racconto il rapporto con una figura che ha avuto il ruolo di maestra, cioè con qualcuno che mi ha portato da qualche parte nella vita, e lo racconto in uno spettacolo. Ma questa figura può essere nella vita di tutti: un padre, una madre, un nonno. E forse tutti si chiedono, a un certo punto, se ciò che fanno sia frutto di una scelta o di ciò che gli altri si aspettavano; penso sia anche sano farlo. A volte scelgono i padri, a volte i maestri, a volte gli inciampi della vita; magari, improvvisamente, incontri qualcuno che ti porta da qualche parte e tu fai quello per tutta la vita.
Ecco, quando parlo con il pubblico di La classe e vengono fuori questi temi, sono felice più di quando ci si sofferma sulla violenza sui bambini. È ovvio che quello è un pezzo importante della narrazione ma la domanda che è alla base è un’altra.

La rievocazione del tuo rapporto con le bambole che facevano tutto ciò che volevi fa pensare al particolare tipo di lavoro che hai fatto sugli attori. In La classe i manovratori condividono la scena con i pupazzi da veri coprotagonisti, privi di una precisa identità ma lasciando emergere anche una propria forte carica emotiva. Come hai pensato questa coesistenza puppet/umani?

È fondamentale questa coesistenza perché proprio la relazione tra performer e puppet è stato il fuoco per me. Io venivo dal teatro con gli attori ed era la prima esperienza con il teatro di figura, per cui non avevo altro mezzo che continuare a interrogarmi con i performer sulla relazione, perché per me tutto il teatro è relazione. In quel caso ce n’era una da esplorare il cui senso non poteva essere la semplice manovrazione. I performer sono davvero parte integrante dell’azione, un po’ gli adulti che non prendono una posizione, che assecondano il corso degli eventi. E molto del lavoro in sala è stato interrogarci su questo. Il senso non era solo portare alla luce il mio passato ma condividere le storie di tutti noi, anche dei performer. Nel farlo ci ha molto aiutato l’aver vinto il bando Cura e aver potuto sfruttare i giorni di residenza per creare quell’intimità grazie alla quale lo spazio prove diventa spazio di condivisione. Quella che racconto in La classe è una storia molto personale che rischiava di rimanere autobiografia e invece per me era centrale cercare di condividere la materia con i performer e quindi di portare anche loro dentro la storia. 

Le registrazioni delle voci di altri danno quasi  una sfumatura “di inchiesta” ai due lavori e indicano precisamente la volontà di intrecciare l’autobiografia alle vite altrui. Quale valore dai a questa componente della messa in scena?

Per La classe per me era fondamentale ritrovare i compagni di scuola per raccontare quella storia, anche perché all’inizio mi domandavo se quegli episodi fossero davvero accaduti. Volevo ricostruire la comunità del tempo. Pensa che nella primissima idea avrei voluto alcuni dei compagni in scena, un’intuizione impensabile dal punto di vista produttivo che poi si è trasformata nella presenza delle loro voci.
Però da questa esperienza ho sentito il bisogno di continuare a raccogliere materiali dalle interviste. Prima non l’avevo mai fatto.
C’è da dire che, fino a La classe, avevo avuto un percorso di compagnia, per cui quella condivisione dei temi era molto interna al gruppo. Mentre mi facevi la domanda pensavo che lo scarto artistico è stato proprio questo: quando ero in compagnia un certo tipo di lavoro di condivisione, di discussione di temi accadeva dentro l’organico. Ora ho dei collaboratori, ovvio, ma non c’è la culla della compagnia e sento di più il bisogno di partire dalla condivisione di domande, di interrogativi, di crucci con altre persone nelle quali la mia domanda risuona lo stesso modo. 

I materiali delle interviste in Una cosa enorme sono comunque molto diversi: una sorta di cornice o un indizio che guida lo spettatore verso una problematizzone del tema della maternità. Ma, salvo poche cose, sono anche le uniche parole di un lavoro tutto incentrato sul corpo. Da quale esigenza è scaturita questa scelta di raccontare la tua idea di maternità attraverso la fisicità, nel quasi assoluto silenzio? 

Innanzi tutto, venendo da un lavoro con il teatro di figura, inanimato, avevo un grandissimo bisogno di riappropriarmi del corpo del performer, ma di farlo anche portandomi dietro un pezzo del lavoro fatto in La classe.
Marta Meneghetti nel primo quadro di Una cosa enorme, deve destreggiarsi con una suite di 12 chili, e quindi gestire una fisicità che ha a che fare con una protesi, un pupazzo in qualche modo. Ma poi ho assecondato quella necessita di riportare al centro i corpi. Io amo lavorare nel silenzio, che ha a che fare molto con il corpo, perché nel silenzio esso si manifesta, si racconta. Non ricordo chi diceva «mi piace costruire immagini dentro le quali ci sia un silenzio tale in cui gli esseri umani non possono nascondersi». È una cosa alla quale ritorno molto spesso e all’interno del mio percorso artistico sono andata sempre di più verso il silenzio. In questi ultimi due lavori ci sono quasi solo silenzio e corpo.
Rispetto al tema della maternità ho avuto la sensazione che fosse necessario mettere al centro corpi seminudi per rappresentarla. Ne ho sentito l’esigenza. Perché, hai detto bene, non volevo raccontare solo la maternità ma partire dalla lì per poi raccontare la paura e il desiderio di prendersi cura di qualcun altro, che sia un padre o un figlio non importa. E questo tipo di sentimento ho sentito che potevo raccontarlo mettendo al centro due corpi. È volevo che tutto ci ruotasse intorno perché credo che il corpo sia il centro di queste questioni.

La tenerezza che ci si aspetterebbe da una relazione di cura, però, fa capolino solo in alcuni frangenti mentre prevale una marcata crudeltà nel modo in cui i corpi raccontano e si danno allo sguardo. Dosa dove viene?

La crudeltà di cui parli è sempre stata presente in tutti i miei lavori, nella Trilogia dell’attesa e in Da soli non si è cattivi era come “travestita” da ironia. In questi ultimi due lavori si è invece spogliata… so che è molto forte e mi ci sto interrogando. Ma comunque penso che un/una regista, un autore, un’autrice crei delle condizioni perché qualcosa si manifesti e in questi due lavori la crudeltà è qualcosa che si è manifestata con grande forza.
C’è una frase di Rilke che mi ha guidato: «Cercate la profondità delle cose: fin laggiù l’ironia non scende mai». È  una cosa mi ha colpita perché tendenzialmente, sia come essere umano che come artista, utilizzo il filtro dell’ironia per prendere distanza dalle cose. In questi due progetti non mi interessava, la crudeltà mi ha aiutata a raggiungere la profondità dei ciò che volevo dire.

Una suggestione esterna: Gabriele Russo, direttore artistico del Teatro Bellini, mi ha parlato del tuo percorso come espressione di uno sguardo femminile che è difficile trovare nella scena contemporanea. Mettendo da parte qualsiasi considerazione femminista, ti ritrovi in una una sensibilità specifica – necessariamente e giustamente diversa da quella maschile – nel leggere la realtà? Come credi incida sulla tua poetica?

Allora, non so… Io ho uno sguardo, so di avere uno sguardo, sento e capisco di avere un mio modo di leggere e di raccontare. Non so se è uno sguardo femminile… è il mio sguardo, sono una donna. Neppure io ne faccio una questione di genere quindi, con molta onestà, mi sembra più interessante che lo dica Gabriele Russo che ringrazio. Io non saprei cosa dire in relazione a questo se non che sono felice quando qualcuno riconosce che c’è uno sguardo.
Forse il problema è che c’è la necessità di sottolinearlo e c’è perché ci sono ancora poche autrici e registe.
Quindi io credo di aver uno sguardo e questo sguardo è di una regista e autrice donna, tutto qui.

 

LA CLASSE
uno spettacolo di Fabiana Iacozzilli | Cranpi

collaborazione alla drammaturgia Marta Meneghetti, Giada Parlanti, Emanuele Silvestri
collaborazione artistica Lorenzo Letizia, Tiziana Tomasulo, Lafabbrica
performer Michela Aiello, Andrei Balan, Antonia D’Amore, Francesco Meloni, Marta Meneghetti
scene e marionetteFiammetta Mandich
luci Raffaella Vitiello
suono Hubert Westkemper
fonico Jacopo Ruben Dell’Abate
assistenti alla regiaFrancesco Meloni, Silvia Corona, Arianna Cremona
foto di scena Tiziana Tomasulo, Valeria Tomasulo
consulenza Piergiorgio Solvi
un ringraziamento a Giorgio Testa
produzione Cranpi, La Fabbrica dell’Attore-Teatro Vascello Centro di ProduzioneTeatrale, Carrozzerie | n.o.t | con il supporto di Residenza IDRA e Teatro Cantiere Florida/Elsinor nell’ambito del progetto CURA 2018 |e di Nuovo Cinema Palazzo |e con il sostegno di Periferie Artistiche Centro di Residenza Multidisciplinare della Regione Lazio

Un ringraziamento speciale ai compagni di classe

 

UNA COSA ENORME
uno spettacolo di Fabiana Iacozzilli

con Marta Meneghetti, Roberto Montosi
scene Fiammetta Mandich
luci Luigi Biondi, Francesca Zerilli
suono Hubert Westkemper
realizzazione body suit Makinarium (special – visual – effects)
collaborazione ai costumi Davide Zanotti, Anna Coluccia
aiuto regia Francesco Meloni
assistente alla regia Cesare Santiago Del Beato
assistente alla drammaturgia Carola Fasana
fonico Jacopo Ruben Dell’Abate
foto di scena Manuela Giusto
collaborazione artistica Lorenzo Letizia, Luca Lotano, Ramona Nardò
un ringraziamento a Giorgio Testa
produzione Cranpi, La Fabbrica dell’Attore-Teatro Vascello Centro di Produzione Teatrale, Fondazione Sipario Toscana-Centro di Produzione teatrale, Carrozzerie | n.o.t 
con il contributo di MiC – Ministero della Cultura, Regione Lazio – Direzione Regionale Cultura e Politiche Giovanili – Area Spettacolo dal Vivo
con il sostegno di Teatro Biblioteca Quarticciolo, Periferie Artistiche Centro di Residenza Multidisciplinare della Regione Lazio, ATCL Circuito multidisciplinare della Regione Lazio per Spazio Rossellini
con il supporto di Nuovo Cinema Palazzo, Labirion Officine Trasversali

Si ringraziano Sheila Heti, Orna Donath e tutte le donne e gli uomini intervistat_ durante il cammino. Le loro storie hanno dato la possibilità di fare luce su una materia ancora così incandescente.

Piccolo Bellini, Napoli
11 e 18 febbraio 2022