ELENA SCOLARI | I racconti sono un genere difficile: romanzi in miniatura, devono avere personaggi e sviluppo ma essere fulminanti, con un guizzo inventivo molto più concentrato che nella comoda estensione di una narrativa lunga e dai tempi di lettura più distesi. Dino Buzzati era un maestro in questo: concepiva storie piene di fantasia, surreali e incredibili, in cui la “trovata” non è solo un’alzata d’ingegno ma un sussulto inaspettato che provoca nel lettore un sobbalzo, un sorriso, insomma lo stupore.
Nell’anno del cinquantesimo dalla morte di Buzzati, La corsa dietro il vento di Gioele Dix vuole essere un omaggio, un atto di stima e gratitudine verso uno scrittore amato e che ha regalato momenti di godimento sparsi tra le sue pagine. Nello spettacolo prodotto dal Centro Teatrale Bresciano si ritrovano alcuni racconti della copiosa produzione buzzatiana: oltre a quello che dà il titolo (La corsa dietro il vento) abbiamo riconosciuto La pallottola di carta, Una lettera d’amore, La ragazza che precipita, La giacca stregata.
Siamo in una specie di ufficio/archivio dove sono raccolte scartoffie, faldoni, ma soprattutto oggetti di servizio alle storie – ora un telefono, ora una fascia tricolore: sono pretesto per agganciarsi a memorie, legate, di volta in volta, ai racconti che vengono poi sviluppati.
Due pareti di scaffali ai lati, una scrivania di legno, un fondale con un disegno dell’animale Colombre (racconto non affrontato) e l’ormai immancabile rella piena di costumi. Ci sono periodi teatrali in cui alcuni arredi scenici prendono il sopravvento in tante messinscene, questa è la stagione delle relle. I costumi (di Marina Malavasi e Gentucca Bini) sono tutti “davantini”, solo la parte frontale di abiti che gli attori si appendono addosso come fossero manifesti. L’effetto estetico è discutibile e aumenta la sensazione posticcia di qualcosa che viene “rappresentato” ma che non diventa mai realtà teatrale narrativa.
In scena con Dix c’è Valentina Cardinali, entrambi bravi interpreti, un po’ lo si vede e un po’ lo si intuisce. Mi spiego meglio: Dix è disinvolto, non sbaglia un tempo, ma tende ad appoggiarsi su ciò che gli riesce più naturale e cioè spinge sul lato comico, troppo rispetto al tono, sì ironico, ma anche straniante dell’autore bellunese; V. Cardinali sa passare attraverso registri brillanti e accenti regionali con grande sicurezza e ottima tecnica ma anche lei si ritrova appiattita su sfumature quasi sempre caricate e che tendono alla macchietta satura di colore, a svantaggio delle tante possibili tonalità recitative. È un peccato perché si afferra chiaramente che entrambi (forse diretti da una mano esterna?) saprebbero dare di più e potrebbero suonare una tastiera di sfumature attorali molto più ampia.
Se l’intento, come abbiamo detto, è indubbiamente rendere omaggio a un grande scrittore, sinceramente apprezzato da Gioele Dix, purtroppo il risultato si scontra da una parte con la difficoltà – oggettiva – di tradurre in teatro le atmosfere visionarie di Buzzati e dei suoi personaggi sognanti e dall’altra con la scelta di ridurre alla gradazione buffa e parodistica situazioni che, su carta, hanno invece un che di misterioso, anche di oscuro e magico.
Nel racconto La ragazza che precipita, la giovane protagonista Marta si lascia cadere da un piano altissimo di un palazzo cittadino: il grattacielo era d’argento, supremo e felice in quella sera bellissima e pura, mentre il vento stirava sottili filamenti di nubi, qua e là, sullo sfondo di un azzurro assolutamente incredibile. Era infatti l’ora che le città vengono prese dall’ispirazione e chi non è cieco ne resta travolto. Vede, nella sua discesa, le persone che abitano ai vari piani, osserva le impiegate negli uffici, dialoga con i condòmini che la invitano a entrare, a unirsi a una festa, a fermarsi per un drink, ma lei ha fretta, la aspettano laggiù. Mentre Marta precipita i minuti passano, cala la notte e il freddo che comincia a sentire è l’angoscia per un gesto cui non potrà riparare: l’anelito verso un sogno scintillante e l’illusione di quei mille punti luminosi che formavano una costellazione sfavillante si spengono in un tonfo. Impossibile però percepire l’ansia e il vuoto se la ragazza è in piedi sul tavolo con un vestito appeso al collo che fa svolazzare a mano, ben lontano dall’abisso che fa trattenere il fiato.
Il pubblico del Teatro Franco Parenti è divertito e mostra di approvare il tono prevalentemente leggero, ciò incoraggia gli ammiccamenti e la dinamica di bonario rimprovero che si ripete tra Dix datore di lavoro e Cardinali sua dipendente in questo magazzino delle storie.
Il meccanismo tra i due si rinnova nell’intento didattico di spiegare la morale dei racconti, qualora agli spettatori non fosse chiara, in duetti tra l’arguta impiegata che discute il messaggio dell’autore e il più saggio Dix che lo difende.
Ne La giacca stregata si narra di un indumento magico, nelle cui tasche si moltiplicano le banconote; il fortunato proprietario non saprà frenarsi e l’ingordigia lo porterà dal lusso alla rovina. Il sarto della malora che ha confezionato il capo incantato svanisce nel nulla e lascia il malcapitato cliente in uno stato di inquietudine che non lo lascerà mai, è quindi un essere che ha la sua dose diabolica, non solo un personaggio caricaturale.
In La corsa dietro il vento Gioele Dix ha ritenuto giusto dare spazio anche al sense of humour che Buzzati ha messo nei suoi racconti. E questa scelta può essere condivisa, ma il teatro è un’arte fatta di tanti elementi, che permette di assemblarli sfruttando di ognuno il potere immaginativo e allusivo, pur nella finzione scenica. Ci vorrebbe dunque un lavoro fatto di delicati equilibri, per esempio con le luci, qui invece sempre bidimensionali, per rendere un poco di quell’aria sottile e impalpabile che, tra le pagine, è l’ineffabile essenza di un costruttore di mondi letterari, e ne fa la grandezza.
drammaturgia e regia Gioele Dix
scene Angelo Lodi
costumi Marina Malavasi e Gentucca Bini
disegno luci Carlo Signorini
in collaborazione con Giovit
19 marzo 2022