RENZO FRANCABANDERA | Rompono la quarta parete ed entrano in scena dalla platea in una strana rotazione che comprende il proscenio gli interpreti di Padri e Figli, il romanzo di Turgenev ambientato nella Russia di metà Ottocento e portato in scena da Fausto Russo Alesi affiancato nell’impresa da uno dei massimi studiosi italiani di cultura e pensiero di questa nazione così complessa, Fausto Malcovati, autore dell’encomiabile traduzione e co-autore dell’adattamento alla scena.
È un progetto che ha vissuto e si è sviluppato lungo un orizzonte temporale inconsueto per l’arte, al giorno d’oggi. Un quinquennio, sicuramente influenzato dai frangenti complessi degli ultimi due anni, una ricerca pluriennale, nata nell’ambito del Corso di Alta formazione per attori del Centro Teatrale Santacristina, diretto da Roberta Carlotto, con il lavoro di studio e traduzione del testo iniziato nel 2016 con il contributo del prof. Malcovati; un adattamento del romanzo reso possibile dall’autorevole e costante presenza nel lavoro di drammaturgia e di traduzione dello studioso, che proprio per questo è in scena nei panni dello stesso Turgenev, per metafora individuato come il maestro, depositario di un sapere che non può che illuminare la strada dei giovani interpreti, come ricorda lo stesso regista in una nota di commento all’operazione.
Lo spettacolo si compone di due atti (della durata di 2 ore e 15’ ciascuno), visibili separatamente in due serate oppure in forma di maratona, con l’idea di permettere una visione più unitaria della costruzione scenica. Ha debuttato a marzo a Modena e Bologna nei teatri di Emilia-Romagna Teatro che è coproduttore insieme al Teatro di Napoli.
Il fatto teatrale si compone di un impianto determinato e per molti aspetti fisso.
Tredici gli attori in scena, cui si aggiungono la presenza di una musicista e dello stesso Malcovati. La regia, fatte salve alcune parentesi poco rilevanti nell’orizzonte delle oltre quattro ore di recita, sceglie una struttura rappresentativa molto quadrata, composta da una serie di fattori che restano sostanzialmente immutati per tutta la rappresentazione.
Tali elementi sono: la compresenza in scena per quasi tutto lo spettacolo, non solo dell’intera compagine attorale ma dello stesso Malcovati nella parte di Turgenev, maestro ma anche icona, che assiste perlopiù in silenzio a tutta la rappresentazione. Poche le battute che gli vengono assegnate, ma di fatto si tratta in questa metà rappresentazione, di un autore che si guarda messo in scena, curioso e vigile, candido depositario di una sorta di interpretazione autentica, di una verità della storia.
Sempre al netto di poche eccezioni, invero assai pop e discontinue, quasi tutta la colonna sonora originale di Giovanni Vitaletti viene eseguita dal vivo al pianoforte da Esmeralda Sella.
La vicenda si costruisce attorno alle vicissitudini dello studente di medicina Bazarov, che non subito ma con l’andare del narrato diventa il protagonista del romanzo, sbalzando dalle figure che lo circondano e che permettono allo scrittore di tracciare un mirabile affresco del conflitto generazionale che domina la Russia conservatrice degli anni Sessanta dell’Ottocento. In realtà una verosimile interpretazione di tutti i salti generazionali della storia dell’umanità, quella ciclicità che ogni 30-40 anni rimescola le carte del mondo. Intorno gli si muovono, con i loro vissuti, l’amico Arkadij, che segue all’inizio del romanzo nella visita che costui andrà a fare alla casa di famiglia. I grandi conflitti fra conservazione e progressismo, città e campagna, mutabile e immutabile: tutto ciò che resta uguale sembra incarnare il male, mentre occorre cambiare per il bene delle giovani generazioni.
E come in tutte le famiglie, i rapporti conflittuali con l’universo di Arkadij, che spingeranno i due studenti a ripartire per tuffarsi nel fermento della città. Qui il materialista e nichilista Bazarov incontrerà anche l’amore per Anna Sergeevna Odincova, unica figura a creare scompiglio in una personalità convulsa ma a suo modo immutabile, come il mondo che gli gira intorno. Contraltare dei turbamenti del giovane studente in medicina ma anche nido finale dopo gli sconvolgimenti sentimentali sarà la casa di campagna dove vivono gli anziani e affezionatissimi genitori, un familiare di altro calibro rispetto a quello dell’amico.
In questi mondi, satelliti non comunicanti di un pianeta lontano che li unisce ma non li modifica, pullulano emblematiche figure del tempo: dalla donna emancipata alla principessa fino ai servi che vivono il passaggio e la fine della servitù della gleba; e ancora tanti altri caratteri grotteschi, che pure sono raccontati.
Il romanzo e di conseguenza lo spettacolo che lo ripercorre fedelmente, fra colpi di scena e amori non vissuti, irrisolti e duelli a vuoto, enfatizza e svuota allo stesso tempo sia le istanze dei cambiamenti, sia la finta immutabilità del rumore di fondo. Tutto muta, con lentezza inesorabile, ma muta. E non tutto ciò che cambia è bene, come non tutto ciò che resta uguale è male. Esistono valori che si conservano e hanno bisogno di specifici ambienti e ritmi per preservarsi.
La scenografia di Marco Rossi, incorniciata da un fondale nero e due paratie laterali, si compone di un piano rialzato in legno che occupa quasi tutta la superficie agita del palcoscenico, eccezion fatta per alcuni spazi laterali dove gli attori restano in sosta quando non sono in recita.
Nulla addobba la parte superiore dello sguardo che quindi si perde nello spazio dello scheletro della scatola scenica, arrivando su fino alle luci, il cui disegno, opera di Max Mugnai, diventa, insieme ai costumi di Gianluca Sbicca e a pochissimi altri oggetti di scena di volta in volta introdotti e poi rimossi – un tavolo di legno, qualche sedia poco più – elemento narrativo fondante nella definizione degli ambienti sia architettonici che emotivi.
A conti fatti, in questo allestimento registico scelto da Russo Alesi, solo i secondi hanno rilevanza, perché i primi vengono creati dalla recita stessa, dal muoversi degli attori negli spazi ma non c’è mai nulla che prenda le sembianze del luogo fisico, del palazzo, della fattoria, dell’urbano. Qualche rimando al contesto storico arriva dai costumi, ma dentro una voluta libertà di giocare fra personaggi-maschera e identità libere, imprigionate dentro costumi che sono anche ruolo, costante e immutabile, quasi a imprigionarne l’essenza.
Il costume, in senso stretto e in senso lato, simbolico e senza sfarzi particolari, definisce i caratteri.
Sopravvengono maschere nere a metà del primo atto: nere, neutre, appaiono fra il primo e il secondo tempo della prima parte. Sono maschere dalla foggia animalesca, uguali nell’espressione e diverse nel rimando alla bestia cui ci si riferiscono.
Risuonano, inaspettate, fuori tempo, inspiegabili se non con l’idea di voler portare all’oggi tutto questo, in un flash violento, le note di Boombastic, unico rimando a un tempo vicino, che è già storia. Siamo cambiati, molto è cambiato, ma tante cose sono identiche.
La recitazione è piana, guarda, senza cedervi, a marcati espressionismi, se non in talune puntiformi circostanze dove tutto si accumula e precipita: i dialoghi vedono spesso gli interpreti rivolti verso la platea, escamotage reso necessario dal mescolarsi di discorso diretto e indiretto di cui spesso gli attori sono portatori, ma in misura ancora maggiore, il filo narrativo e l’amalgama testuale non trasformato in dialogo vengono portati a chi assiste da un’ulteriore figura esterna rispetto ai personaggi, ovvero la lettrice, in proscenio per quasi tutto lo spettacolo, china sul romanzo a sfogliarlo pagina per pagina e a rivolgersi al pubblico con spirito di guida.
Alcune interpretazioni mostrano già la maturità necessaria per una sfida di questo calibro.
Lo spettacolo gioca sulla fissità, sull’immutabile, provando ad abitarlo per comunicare lo stesso bisogno di Bazarov di sovvertirlo. Ne fa una regola anche per se stesso.
Russo Alesi si costringe in uno spazio che non muta, in una pianura di cui si sbecca qualche tavola, ma che si ricompone, pronta a ospitare la generazione successiva, i nuovi conservatori e i nuovi progressisti. E per lo spettacolo, il cui ritmo incalza nella seconda parte, valgono le stesse cose che Turgenev solleva all’attenzione del lettore nelle sue vicende: ciò che è rigido e muta poco talvolta è bene, perchè resiste e preserva valori, e talvolta no, perchè non asseconda con la dovuta flessibilità le sinuosità della Storia.
PADRI E FIGLI
di Ivan Turgenev
traduzione e adattamento Fausto Malcovati e Fausto Russo Alesi
regia Fausto Russo Alesi
personaggi / interpreti
Autore Fausto Malcovati
Lettrice Marina Occhionero
Bazarov Matteo Cecchi
Arkadij Luca Carbone
Nikolaj Petrovič Stefano Guerrieri
Pavel Petrovič Luca Tanganelli
Fenečka Eletta Del Castillo
Anna Seergevna Odincova Daria Pascal Attolini
Katja Zoe Zolferino
Arina Marta Mungo
Vasilij Alfredo Calicchio
Principessa R / Sitnikov Marial Bajma Riva
Dunjaša / Kukšina Giulia Bartolini
Pëtr / Matvej Koljazin Cosimo Frascella
pianoforte Esmeralda Sella
composizione musiche originali Giovanni Vitaletti
progetto scenografico Marco Rossi
costumi Gianluca Sbicca
luci Max Mugnai
assistente alla regia Davide Gasparro
assistente alla scenografia Francesca Sgariboldi
assistente ai costumi Rossana Gea Cavallo
training fisico sull’attore Diana Manea
direttore tecnico Massimo Gianaroli
direttore di scena Lorenzo Martinelli
elettricista Gabriele Spadini
fonico Massimo Nardinocchi
attrezzista Eugenia Carro
sarta realizzatrice Eleonora Terzi
scene costruite nel Laboratorio di ERT / Teatro Nazionale
responsabile del Laboratorio e capo costruttore Gioacchino Gramolini
costruttori Sergio Puzzo, Marco Fieni, Tiziano Barone
scenografe decoratrici Ludovica Sitti e Sarah Menichini, Benedetta Monetti, Rebecca Zavattoni
produzione ERT / Teatro Nazionale, Teatro di Napoli-Teatro Nazionale
in collaborazione con Teatro Verdi Pordenone, Centro Teatrale Santacristina
foto di scena Serena Pea
documentazione audio – video Francesca Cappi
si ringrazia l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico” e il bando SIAE- S’Illumina