ROSSELLA PICCARRETA | Una struggente aria d’opera si diffonde in teatro, inonda lo spazio tra le quinte del palcoscenico e apre spiragli di malinconia negli spettatori che assistono a Una famiglia, spettacolo diretto, scritto e interpretato da Claudia Lerro, prodotto da Teatri Di.Versi e andato in scena a Bari all’Abeliano nella rassegna teatrale Un teatro da favola, organizzata dalla compagnia Teatrificio 22 fondata dalla stessa Lerro e da Simona Oppedisano.
Sul palcoscenico un uomo anziano (Vittorio, un avvocato in pensione, interpretato da Vito Signorile), solo su una panchina, ascolta, sognante e triste, le note che provengono da una finestra. La mamma morta dall’Andrea Chénier di Giordano, cantata dalla divina Callas, sembra evocare un’altra morte, quella di sua moglie da poco scomparsa, con cui condivideva l’ascolto dell’opera.
Lo racconta con nostalgia lui stesso al secondo personaggio che entra in scena: Teresa (Giusy Frallonardo), una donna borghese quasi cinquantenne, single, appesantita dalle buste della spesa e da un carico di desideri irrealizzati e pensieri e sogni che, da scrittrice, fa diventare poesia. Lo fa in alcune scene in cui tutto si ferma, la luce si fa soffusa, nel buio diventa una lama bianca o dipinge tutto di blu e le parole disegnano ghirigori nell’aria. La musica di Luminous di Max Richter accompagna il flusso libero delle riflessioni, raccontato dalla voce della donna fuori campo.
Teresa potrebbe essere per età la figlia di Vittorio, invece è solo un’estranea. Eppure condivide con lui il vuoto dell’assenza e della solitudine.
È questo che spinge a consolarlo e a invitare a casa sua lui e gli altri due personaggi che il destino le fa incontrare e che irrompono sulla scena con un’energia sanguigna e popolare, a tratti aggressiva eppure allegramente bonaria: Claudia (brillantemente interpretata dalla Lerro) e sua figlia Michela (Michela Masciavè). La prima è una giovane madre sola, una specie di bulla di periferia dal passato sfortunato e violento. Non ha un lavoro, rischia di perdere sua figlia, portata via dai servizi sociali. Parla un po’ in dialetto, un po’ in un italiano sgangherato e colorito dallo slang pugliese e talvolta dal turpiloquio; ha un’unica risorsa: l’amore immenso per e di Michela, una bambina intelligente, assennata ed empatica che, al contrario, si esprime in un italiano quasi forbito.
Il cambio di scena è segnato dalla luce (di Stefano Limone) che diventa bianca e intensa e illumina tutto il palcoscenico. Non siamo più per strada, ma in una casa. La scenografia pulita e chiara di Francesco Arrivo racconta con arredi nei toni di un celeste cielo la poesia di chi vi abita e la sua attesa di un amore, di un figlio, di una famiglia.
Due porte, una a sinistra verso l’esterno e verso i pericoli del mondo, l’altra al centro, che nasconde un segreto. Sullo sfondo una chitarra, un mobile con un giradischi e un grande quaderno e infine un tavolo con quattro sedie, che aspetta una famiglia che non c’è.
«Tutti aspettiamo qualcosa o qualcuno che la vita non ci regala mai», dice Teresa a un certo punto. È da questa straziante consapevolezza che parte l’azione: i personaggi della vicenda sembrano tutti inseguire una felicità irraggiungibile, un oggetto del desiderio difficile da conquistare: l’amore romantico per Teresa, soprannominata «Mezzasposa», che conserva segretamente l’abito bianco di un matrimonio mancato; la relazione con un figlio non accettato perché omosessuale per Vittorio; la libertà di poter vivere serenamente una vita normale con la sua bambina per Claudia; «una famiglia, la cosa più difficile ma anche la più bella» per Michela, depositaria di tutta la saggezza e i buoni sentimenti dello spettacolo.
I quattro, più semplicemente, sono personaggi in cerca d’amore, quattro solitudini che si incontrano e si scontrano.
La tavola viene apparecchiata, le lasagne fatte in casa e il vino rosso accompagnano i discorsi, si danza, si celebra un finto matrimonio, si gioca, si ride e si piange.
Accadono eventi e capovolgimenti che fanno crescere ed evolvere i personaggi che si trasformano nel linguaggio, nelle azioni e nei costumi (di Angela Tommasicchio) sempre coerenti con il loro carattere e con la situazione. Fino all’epilogo, che il miracolo del teatro e l’inesausta fiducia nel futuro e negli esseri umani di C. Lerro che crede «che la vera nuova rivoluzione sia nelle carezze» (anche quelle al pubblico) conducono verso il lieto fine: la costituzione di una famiglia sui generis, l’unica forse possibile nel tempo strano in cui viviamo, un po’ sgangherata, unita da legami non di sangue, ma di cuore.
Che il cuore sia la cosa più importante è il messaggio finale che piace molto a un pubblico commosso ed emozionato, che applaude a lungo la pièce. Evidentemente è di questo che abbiamo bisogno mentre anche noi, come Teresa, stiamo «al di qua della finestra, mentre fuori «ci sono le finestre sulle guerre, lì le finestre sono tutte infrante. Non c’è più un al di qua e l’al di là è dappertutto meno che oltre i vetri di una finestra».
UNA FAMIGLIA
drammaturgia e regia CLAUDIA LERRO
con Giusy Frallonardo, Claudia Lerro, Michela Masciavè, Vito Signorile
scenografia Francesco Arrivo
luci Stefano Limone
scenotecnico Michele Iannone
costumi Angela Tommasicchio
produzione Teatri Di.Versi