MATTEO BRIGHENTI | Le parole di Camilla Guarino sono gli occhi di Giuseppe Comuniello. Dal primo spettacolo che hanno visto insieme, ovvero Le Sacre di Virgilio Sieni che lei, danzatrice, critica di danza e drammaturga, il 7 marzo 2015 al Teatro Comunale di Bologna ha descritto passo dopo passo a lui, danzatore non vedente, che ha cominciato il suo percorso nel 2009 proprio con Sieni. Una pratica quotidiana, intima, privata, che è diventata il campo di ricerca comune. I due lavori che hanno prodotto con la loro compagnia Fuori Equilibrio, Let Me Be e Pornodrama2, hanno al centro proprio l’azione e la sua descrizione, fatta live agli spettatori in cuffia.
«La danza è un mondo a cui sono molto legata, questo – afferma – mi dà una grande responsabilità rispetto a ciò che trasmetto a parole. La cosa bella è che questa pratica è nata per Giuseppe, ma adesso è necessaria a tutti e due».
Guarino ha studiato danza classica e contemporanea fin da piccola. Ha poi frequentato il laboratorio di approfondimento Nelle pieghe del corpo, che seguiva da vicino il progetto della Compagnia Virgilio Sieni, coordinato a Bologna da Massimo Marino con “Altre Velocità” e proseguito a Firenze da Andrea Nanni. Un intreccio tra scrittura e sguardo consolidato con il Master in drammaturgia all’Accademia D’Arte Drammatica Silvio d’Amico di Roma e con la dance webzine e associazione culturale “BlaubArt”, che ha confondato.
«Sono sempre stata “ballerina” tra i vari campi artistici e ciò ha pregi e difetti, ora – spiega – mi ha portato qui, a parlare di danza e di drammaturgia come di un tutt’uno. Danzo scrivendo grazie all’audiodescrizione, scrivo danzando, raccontando ciò che il mio corpo esegue, creando un cortocircuito tra poesia e descrizione».
Queste sue due anime, due come gli occhi per vedere e le gambe per danzare, si sono dunque riunite e riappacificate nella vita e nell’arte condivise con Giuseppe Comuniello. La parola, come spiega a Pac in questa intervista, ha lo scopo di descrivere la danza; il testo che ne deriva diventa la fonte della costruzione artistica, per aprirla a un pubblico cieco o ipovedente. Questo, beninteso, incrocia anche la scarsa o quasi nulla accessibilità del teatro in Italia.
«Non si tratta – interviene Camilla Guarino – di usare le parole là dove il corpo non riesce a parlare o di usare il corpo per la mancanza di parole. È una convivenza processuale, necessaria tra danza e parola, per arrivare a una struttura dentro la quale tutti, ma proprio tutti, riescano a muoversi».
Una tema che di recente ha affrontato al convegno sull’identità al MAD_Murate Art Distric di Firenze all’interno di Atletica del cuore, il percorso di formazione promosso da Fosca, con un intervento che è stato una professione di poetica. Già dal titolo: SottoSopra.
Come vi siete conosciuti con Giuseppe Comuniello?
Ci siamo conosciuti nel 2015, l’ho cercato io per un’intervista che mi serviva per la mia tesi alla triennale sulla figura di Pinocchio nell’immaginario di Virgilio Sieni. Volevo parlare con lui in quanto interprete di Pinocchio leggermente diverso.
Poi abbiamo iniziato a collaborare in un piccolo progetto video per il blog Nelle pieghe del corpo e a lavorare insieme in sala, ognuno coinvolgendo l’altro nel proprio mondo. Giuseppe mi ha fatto tornare il desiderio di danzare, grazie a un approccio più sensibile e tattile, meno legato alla prestazione fisica; io, invece, l’ho avvicinato alla danza classica. In tutto questo divenire non abbiamo mai smesso di andare insieme a teatro a vedere spettacoli.
Nel 2018 hanno chiesto a Giuseppe di partecipare con un suo lavoro all’interno de La società a teatro, il ciclo di spettacoli e approfondimenti al Teatro Comunale di Ferrara. Lui non aveva ancora dei suoi lavori d’autore, così mi ha proposto di collaborare. Da qui è nato un lungo percorso che continua ancora oggi: abbiamo scelto di raccontare cosa succede in teatro quando io gli descrivo uno spettacolo di danza, una pratica per noi quotidiana, ma che con il tempo ha incuriosito molte persone. Tra queste Chiara Bersani, che ci ha dato uno stimolo in più per portare avanti questa ricerca.
A Ferrara abbiamo portato uno studio intitolato Lonely Planet, trasformato poi in Let Me Be nel 2020. Una necessità, quella di raccontare la danza in teatro, o un problema (non essendo la danza quasi mai accessibile a un pubblico cieco o ipovedente in Italia) è diventata un’opportunità di ricerca artistica e di condivisione.
Com’è stato il vostro primo spettacolo insieme da spettatori?
Come potrei dimenticarlo! Ero molto agitata, forse più di chi doveva andare in scena per il debutto de Le Sacre di Sieni al Comunale di Bologna. Sapevo di non essere la prima a descrivere uno spettacolo a Giuseppe, ricordo ancora l’orchestra che accordava gli strumenti, si stava risvegliando in me la stessa sensazione di quando, anni prima, ero io a trovarmi dietro le quinte. Probabilmente, se fosse stato un altro spettacolo sarei stata più tranquilla, ma conoscevo la poetica di Sieni e sapevo che non sarebbe stata una passeggiata.
Nel momento in cui si spengono le luci, Giuseppe mi porge la sua mano e molto lentamente sprofondo in una narrazione. Le mie dita si muovono sul suo palmo per indicare la posizione dei corpi nello spazio, la mia voce racconta i movimenti, le immagini che mi suscitano, le emozioni o ricordi che emergono. Sono salita anche io sopra quel palco, come una coreografa autorizzata a plasmare i corpi, a spostarli, a deformarli.
Ho capito che gli errori erano ammessi, che non si trattava di descrivere in modo giusto o sbagliato: ero io, a mia volta, creatrice. C’erano tante danzatrici e tanti danzatori in scena, alcuni interpreti li perdevo, altri mi appassionavano fin troppo, a volte parlavo di tutti come di un unico corpo. La musica scandiva le mie parole. Creava silenzi e respiri.
Sembra di assistere alla realizzazione pratica, concreta, di Nel museo di Reims (Einaudi) di Daniele Del Giudice. Il grande Henri Cartier-Bresson diceva che fotografare «è porre sulla stessa linea di mira la mente, gli occhi e il cuore». Sono così le “fotografie” della scena scattate a parole per Comuniello?
Sì, la relazione forte tra questi tre elementi mi ha fatto innamorare. Potrei descrivere a Giuseppe tre volte lo stesso spettacolo e ogni volta sarebbe un’esperienza diversa, sia per me che per lui. Lo sguardo si trasforma continuamente, la mente pone l’attenzione ogni volta su particolari diversi o sullo stesso, ma perché ha notato qualcosa in più. Quando descrivo, ciò che rimane non è la cosa, ma l’esperienza. In questa esperienza ci trovo molta poesia.
Prima di fare il Master in drammaturgia ero più legata alla danza che alle parole, il mio vocabolario aveva come centro di riferimento il movimento fisico dei danzatori e il ripeterlo sul mio corpo, se necessario. Usavo soprattutto il tatto per parlare con Giuseppe.
Dal 2018, dopo il Master, mi si sono aperti gli occhi e il cuore. Ho cominciato gradualmente a dare più importanza alle parole e alla loro struttura, a cercar di far emergere la poesia dei corpi in scena, a trovare un ritmo nella narrazione e collegamenti con ciò che era stato detto prima. Lentamente ho preso l’improvvisazione della descrizione come un’opportunità, come un esercizio drammaturgico che mi porta a trovare soluzioni sempre diverse. In base allo spettacolo so di poter cambiare stile, velocità, decido se mettere più struttura o più immaginazione, insomma mi diverto!
Chiara Bersani è una delle artiste, insieme a Muna Mussie, Angela Torriani Evangelisti, Valentina Sechi, Annie Hanauer, Marta Olivieri, Emanuel Rosenberg, con cui e per cui avete composto audiodescrizioni poetiche live. Come avvicinate i mondi creativi che incontrate?
C’è stato un passaggio importante. La richiesta da parte di alcuni festival e stagioni teatrali di creare audiodescrizioni mi ha portato dall’improvvisazione alla scrittura di vere e proprie drammaturgie. Dovevo dare un prodotto artistico sicuro a chi ne avrebbe fruito, non potevo rischiare, cosa che mi è servita tanto nel lungo “training” con Giuseppe. Sono due cose molto diverse. Inizialmente preferivo la descrizione sul momento, pensavo fosse più vera e spontanea, più immediata a livello di trasmissione. Da quando ho iniziato a prepararle prima e poi farle interpretare live, mi si è spalancato un ventaglio di possibilità drammaturgiche che mi ha incuriosito e rapito. Finalmente avevo trovato il luogo dove poter dar forma alle mie parole.
Tutto è iniziato grazie ad Angela Torriani Evangelisti che, dopo aver ospitato e prodotto Let Me Be con l’audiodescrizione integrata al lavoro, si è resa disponibile a sperimentare con noi per rendere la stagione di Versiliadanza al Teatro Cantiere Florida di Firenze accessibile a un pubblico cieco o ipovedente. Successivamente è successo lo stesso con Spazio Kor di Asti.
Come riuscite a entrare in dialogo restando fedeli a voi stessi, alla vostra poetica?
Capiamo se il lavoro può essere reso accessibile e, una volta verificata la fattibilità, chiediamo di assistere a una prova in cui descrivo a Giuseppe ciò che vedo e sento. Poi, nascono le domande e il dialogo su come poter nominare i performer in scena oppure su come restituire le immagini personali che ho fatto emergere nella mia descrizione. Non ci sono regole, se non quella di aprire un confronto artistico tra le persone coinvolte.
Per ora siamo sempre riusciti a mantenere un equilibrio tra la nostra poetica e quella delle artiste e degli artisti con cui siamo entrati in contatto. Grazie ad Al.Di.Qua Artists, prima associazione italiana di e per artiste e artisti, lavoratrici e lavoratori dello spettacolo con disabilità, di cui fanno parte anche Giuseppe e Chiara, è stato possibile creare una rete di relazioni che ci sta dando l’opportunità di confrontarci con altre realtà, attivando percorsi di sensibilizzazione e di formazione.
Fuori Equilibrio, la compagnia che avete fondato con Federico Malvaldi e Francesca Gennuso, è il vostro modo, affermate, «di vivere la vita e l’arte, di percepire una società che sempre di più è alla ricerca dell’equilibrio perfetto. Noi abbiamo capito che non ci è possibile vivere così, che la continua ricerca artistica ci impone di vivere in un costante disequilibrio artistico, emotivo e sociale». Come si traduce questo sul palco?
Tutto nasce dalla scena, niente è prefissato, tutto si basa su una ricerca artistica che potrebbe non dare risultati immediati. Il lavoro avviene nel processo creativo che spesso rimane tale. Non insistiamo nel trovare un equilibrio performativo, se questo poi va ad alterare la ricerca.
Un esempio è proprio Let Me Be. Abbiamo messo in scena il nostro processo creativo di descrizione di uno spettacolo di danza. Era necessaria la mia voce dal vivo, è stata una parte criticata per vari motivi, abbiamo provato a modificarla, toglierla, sostituirla, ma no, qualsiasi altra scelta rompeva il senso della processualità che stavamo portando avanti. Rompeva l’equilibrio del nostro disequilibrio.
Direi, semplicemente, che portiamo in scena le nostre ricerche ed esperienze per il desiderio di condividerle con altre persone.
Let Me be è il primo e Pornodrama2 è il secondo capitolo della vostra Trilogia per un nuovo sguardo. C’è bisogno di un nuovo sguardo?
Non c’è bisogno di un nuovo sguardo. C’è la possibilità di aprirsi a un nuovo sguardo. E questa possibilità la lasciamo sempre al pubblico, che può decidere se prendere o meno le cuffie per l’audiodescrizione oppure se prenderle e usarle solo in alcuni momenti. L’audiodescrizone, nata per un pubblico cieco o ipovedente, gradualmente è diventata per tutti.
Che cos’ha di nuovo lo sguardo che ricercate?
È nuovo rispetto alla visione della danza. Noi cerchiamo di spostare l’attenzione su piccoli dettagli, gesti e movimenti. Trasferiamo sul palcoscenico una coreografia nata sul palmo di una mano e accompagnata da dei sussurri che aggiungono immaginari, mettiamo in scena il testo drammaturgico di un’audiodescrizione senza mostrare la coreografia da cui deriva, mettiamo su un altro piano la visione della danza.
Let Me Be, il duo con voi protagonisti, affronta la responsabilità di ciò che vediamo, il fatto che non possiamo pretendere di vedere la realtà per come è veramente. Come interagiscono dunque partitura fisica e drammaturgica, audiodescrizione e movimento?
Corpo e voce sono complementari, coesistono in un paesaggio comune che è lo spettacolo di riferimento, Zero Degrees di Akram Khan e Sidi Larbi Cherkaoui, da cui parte la descrizione che dà origine al lavoro.
Ci siamo, infatti, ripresi mentre descrivevo per la prima volta questo spettacolo (in video) a Giuseppe. Abbiamo rivisto la partitura fisica del video fatto mentre descrivevo (facendo a Giuseppe la descrizione della descrizione) e l’abbiamo rielaborata sulla scena, mantenendo gli immaginari che erano emersi. Abbiamo fatto lo stesso con la parola, una voce che aggiungeva dettagli al movimento. Infine, ho scritto l’audiodescrizione dello spettacolo, aggiungendo uno strato in più al lavoro, fruibile sia per un pubblico cieco che vedente. Sapendo che è anche per un pubblico vedente mi sono divertita a ingannare alcune volte lo spettatore, inserendo dettagli che visivamente non ci sono, ma che non vanno ad alterare la percezione di chi non vede.
Giulia Campolmi si è aggiunta nella fase finale, interpretando l’audiodescrizione e cucendola piano piano su di sé. Grazie a un continuo confronto con lei si sono aperte nuove questioni che hanno sviluppato ulteriormente il lavoro. La sua voce entra in dialogo con noi in scena, si crea quindi un “trio”: la consapevolezza di danzare insieme a una terza persona in platea ci ha permesso di dare quell’apertura verso l’esterno che stavamo cercando da tempo.
Adesso, quando dobbiamo riprendere in mano Let Me Be per una nuova data, usiamo l’audiodescrizione per ripassare, non più il video, come si fa di solito.
L’interpretazione live dell’audiodescrizione serve a restituire l’immediatezza e la spontaneità delle descrizioni tra voi due?
Sì, esatto.
Da un lato, questa scelta riprende esattamente la situazione da cui tutto è nato, l’esperienza mia e di Giuseppe a teatro, seduti in platea con il timore di disturbare le persone vicino a noi che si domandano che cosa stiamo facendo. Ci piace che questo continui a esistere, che le persone continuino a chiedersi che cosa sta facendo Giulia in mezzo a loro.
Dall’altro lato, la voce live trasmette in modo immediato le emozioni e, in caso di cambiamenti di intensità, lo si può percepire subito, cosa che una registrazione non può dare. Il nostro scopo non è solo dire ciò che si vede, ma è soprattutto trasmettere ciò che suscita la visione. Anche per questo non abbiamo cercato un’attrice o un attore, ma una spettatrice, ovviamente con la sensibilità e la competenza necessarie a interpretare un testo integrato con la scena.
È vero che Pornodrama2 è nato da un silenzio imbarazzato sul divano di casa di fronte alla scena di sesso di un film in televisione?
Sì, è tutto vero.
Non ricordo che film fosse, è successo più volte, in realtà. Forse al quinto film mi sono chiesta come mai, quali dinamiche si innescano, se il problema sono le parole che mancano o il cambio drastico di vocabolario che mi spaesa. Concretizzavo a parole qualcosa di estremamente intimo in una situazione… sarebbe come dover dire “capezzoli turgidi” adesso, in questa intervista: non ci sta! Allora ho cominciato a ragionare con Giuseppe e Giulia su cosa accade nel momento in cui rendo pubblico qualcosa di privato.
Volevate riportare questa questione sulla scena?
Volevamo parlare di pornografia senza parlare di pornografia. Abbiamo incontrato alcuni esperti del settore, tra cui la studiosa Mariella Popolla (i suoi interessi di ricerca riguardano pornografia, lavoro sessuale, costruzione sociale dei generi e delle sessualità), per capire dove andare a cercare, abbiamo provato ad audiodescrivere un film porno, fallendo miseramente (da qui il 2 che affianca Pornodrama), abbiamo provato a leggere tanti libri sull’argomento, ma ci stavamo perdendo. Volevamo semplicemente riportare sulla scena la sensazione che io e Giuseppe abbiamo provato, la difficoltà di trovare le parole per descrivere qualcosa di personale e molto soggettivo.
Arrivato il momento di lavorare in sala, tutto si è sciolto. Siamo partiti dalle solite cellule embrionali, l’audiodescrizione e la relazione tra i corpi. Insieme a Simone Chicchiararelli, Federico Malvaldi e Sara Sicuro, abbiamo lavorato sulla descrizione di piccoli inneschi relazionali. Chi è in scena è microfonato affinché racconti a parole cosa sente sul proprio corpo; il pubblico può spiarli in cuffia, decidere chi ascoltare, capire a quale corpo appartiene la voce su cui si è voluto soffermare. È una ricerca che coinvolge sia chi è in scena, sia chi si trova fuori.
In questo caso, l’audiodescrizione non è solo il mezzo per rendere accessibile il lavoro, ma è il materiale senza il quale non si sarebbe innescato Pornodrama2. Abbiamo deciso di lavorare con un attore (Simone) e un drammaturgo (Federico) proprio per poter giocare il più possibile con le parole, senza essere ancorati soltanto alla mia visione e alle dinamiche fisiche legate al mondo della danza. Siamo ancora all’inizio e alla ricerca di altri luoghi dove poter continuare a sperimentare, coinvolgendo altre persone e accogliendo nuovi sguardi.
E per il terzo capitolo della trilogia cosa dobbiamo aspettarci?
Continueremo ad approfondire questa ricerca, con l’intenzione di coinvolgere il pubblico fisicamente all’interno di una partitura, l’audiodescrizione, che farà da canovaccio a chi vi parteciperà, un po’ come la usiamo io e Giuseppe per ripassare.
Siamo partiti da Let Me Be, un lavoro intimo che cerca di aprirsi verso l’esterno, e ci piacerebbe arrivare nel terzo capitolo a una condivisione di sguardi e immaginari, in cui io e Giuseppe possiamo benissimo non esserci. Magari saremo solamente i creatori di una struttura liberamente interpretabile.
È sempre più complesso trovare le risorse per far partire i progetti, ancora stiamo cercando gli spazi e le economie per Pornodrama2: se fosse per noi avremmo già iniziato il terzo capitolo.
In definitiva, che valore hanno la danza e la parola?
La danza è il mezzo che permette a me di esprimere nell’immediatezza la poesia dei corpi e delle loro relazioni, e permette a chi guarda di riconoscersi in quei corpi e di rivivere fisicamente delle sensazioni attraverso le proprie esperienze. Un contatto fisico smuove dinamiche emotive e ancestrali che non riuscirei a raccontare a parole.
La parola mi consente, invece, di trasmettere sensazioni ed emozioni che si sono depositate nel tempo. Nel momento in cui nomino qualcosa in qualche modo la rianimo, la riconosco. Ma come racconti uno sguardo, un tocco, uno spazio vuoto tra due corpi? Come parlare del silenzio? Sicuramente è possibile farlo con le parole, ma il mio percorso prevede comunque di passare dal corpo, dalla danza. Se poi il risultato è un testo drammaturgico, una partitura fisica o entrambe le cose non importa, ciò di cui non riesco a fare a meno è la coesistenza delle due forme nel processo creativo.
Alla fine, non mi sono allontanata molto dalla critica che ho iniziato con “Altre Velocità” e “Blaubart”! In questo caso, però, posso modificare e plasmare il materiale per creare altro, trasformarlo con la mia poetica. Mi sono voluta distanziare dalla danza avvicinandomi alla parola. Inizialmente è stata una lotta, ma adesso, grazie a questa modalità, ho trovato la giusta armonia.