ELENA SCOLARI | Un uomo ti fa ascoltare Schubert, ti parla della Primavera del Botticelli, ti racconta Il Milione di Marco Polo e Il Rosso e il Nero di Sthendal e tu ti innamori, cos’altro puoi fare? Quell’uomo ti ha spiegato e fatto scoprire “la bellezza”, secondo lui.
Ecco, però tu sei uno scimmione, maschio, che ascolta affascinato questo tombeur de gorilles attraverso un vetro che separa la gabbia da una stanza laboratorio. In questa stanza c’è anche una veterinaria, chiamata per tutto lo spettacolo “la dottoressa” (Sara Putignano), specializzata in primati ma non in primati d’ingegno perché né a lei né alla sua équipe era mai venuto in mente di far sentire musica al buon Tandzo, a fini di ricerca. Il conquistador è un drammaturgo, Sergio Blanco stesso, autore e regista di Zoo, in scena al Piccolo Teatro Grassi di Milano fino al 5 maggio 2022 (e inserito anche nell’interessante cartellone del festival internazionale Presente indicativo, organizzato dallo stesso Piccolo).
A interpretarlo è Lino Guanciale, che entra ed esce dal personaggio grazie a un meraviglioso meccanismo teatrale in cui si descrive ciò che sta per essere rappresentato. Stupefacente.
Sergio Blanco è un drammaturgo, attore e regista franco-uruguaiano, che ha già portato in Italia varie sue creazioni come Memento mori o El bramido de Düsseldorf.
Teorizza come sua invenzione la cosiddetta tecnica dell’autofinzione, secondo la quale si scrivono e si mettono in scena costruzioni testuali che mescolano elementi di verità a elementi di finzione. Può lasciare perplessi perché pare quello che il teatro fa da duemila anni, in effetti la modalità di Blanco prevede che si intreccino episodi autobiografici reali a parti di creazione pura, trasformando la realtà in opera e lasciando lo spettatore nel dubbio di cosa sia veramente avvenuto e cosa no.
Al di là dell’apprezzamento di questa tecnica, Blanco scrive, solitamente, testi intelligenti e che mostrano contraddizioni porgendo interrogativi anche provocatori sui quali è interessante riflettere. In Zoo la situazione è quella di un drammaturgo che vuole scrivere un testo sull’esperienza di conoscenza tra lui uomo e un gorilla in cattività, con l’aiuto di una veterinaria che lo seguirà nel percorso di ricerca e di scrittura.
Siamo appunto in uno zoo, a Milano, è ininfluente che il giardino zoologico a Milano non esista più, ma si tiene comunque a precisarlo. Le fasi della relazione sono quattro e sono denominate dall’Avvicinamento all’Abbandono, come le fasi di un innamoramento umano. Ed è quello che succede: i due individui sviluppano un sentimento amoroso e un’attrazione erotica l’uno per l’altro.
Sarà il primate a stancarsi per primo, con conseguente depressione del lasciato. Consumata fissando il soffitto della stanza d’albergo e camminando a vuoto nella nebbia milanese.
Il fatto è chiaramente estremo, è presentato con una certa naturalezza e non produce ilarità nella platea, che si presta volentieri a credere a una vicenda che – presa di per sé – sarebbe perlomeno buffa. Tutti i riguardi ma nemmeno un Crodino, al gorilla.
Poniamo che l’intento, come è dichiarato nel foglio di sala, sia “mettere in discussione le nostre presunte certezze sul rapporto tra umano e animale”, la scelta di Blanco è però raccontare questa liason mista esclusivamente secondo le categorie dell’umano. Il rapporto è descritto con gli occhi di una persona, una persona innamorata che pensa sempre all’oggetto amato, non vede l’ora dell’incontro successivo, passa il tempo di lontananza inventando modi per gratificare l’altro; e l’autore applica questi comportamenti anche all’animale, che perde progressivamente interesse verso i suoi (e le sue) simili, mostra segnali di eccitazione emotiva e sessuale alla presenza dell’uomo.
Guanciale/Blanco è turbato da queste emozioni inaspettate ma non quanto sembrerebbe logico pensare. C’è anche il contrappunto tra il suo personaggio, aperto al sentimento, e la freddezza della scienziata, donna anaffettiva perché raggelata dalla tragedia della morte del figlio, morto annegato, e che non riesce a piangere. Vogliamo tralasciare la banale lettura scienza:razionalità=lettere:emotività, sperando di non sbagliare.
La recitazione ricalca comunque questo teorico stereotipo: Lino Guanciale è naturale e spigliato, Sara Putignano è severa e spigolosa.
Ma pur sottoscrivendo il patto cui veniamo chiamati per le due ore che passiamo in teatro, non è soltanto la visione antropocentrica secondo cui la storia d’amore viene descritta a scricchiolare, in questa fragile architettura purtroppo interviene Edda Ciano. Vi chiederete “E cosa c’entra Edda Ciano?!”, ed è quello che tutti si sono chiesti, rimanendo insoddisfatti. L’unica spiegazione fornita è che il drammaturgo avesse anche in mente di scrivere un testo su di lei. Punto.
Così la figlia di Mussolini fa capolino un paio di volte (è Putignano a interpretarla), con una vestaglia cinese che fa riferimento ai suoi anni a Shangai, rivolgendosi direttamente a Blanco e dicendogli che, insomma, avrebbe fatto meglio a occuparsi di lei. Impossibile trovare uno straccio di aggancio drammaturgico che dia senso a questo inserimento. Per altro utilizzato per lanciare forse una frecciata a Massimo Popolizio e al suo M Il figlio del secolo (andato in scena fino a poche settimane fa con grande successo al Piccolo che lo ha coprodotto con il Teatro di Roma) perché Blanco fa dire al se stesso in scena che non si può fare uno spettacolo sul fascismo senza risultarne affascinati.
L’edificio scenico si avvale di alte e grandi quinte scure poste ad angolo su cui vengono proiettate immagini di Google earth, la superficie lunare, le immancabili riprese da camera in diretta, un china pattern per la signora Ciano. C’è poi una bella scatola di vetro, con saracinesche che salgono e scendono, dove sta Tandzo, il gorilla molto ben realizzato nel costume di Gianluca Sbicca e ben interpretato dal sobrio Lorenzo Grilli, che compie gesti misurati e senza enfasi. La musica (curata da Gianluca Misiti) ha un ruolo importante per due motivi: perché Guanciale e Putignano (entrambi con notevoli e gradevoli doti canore) sono impegnati in alcuni duetti su pezzi anni ’80 e ’90 come Animal instinct dei Cranberries (no, non è didascalico, vi sbagliate di nuovo) o Take on me degli A-ha, brano su cui il povero Tandzo morirà causa Ebola mentre scende la neve, e nemmeno qui ci viene risparmiata la sottolineatura “E io ho scritto questo testo prima che arrivasse il virus Covid19, pensate!”; e perché la playlist preferita del figlio della dottoressa Rosenthal rappresenta il suo legame con il ragazzo scomparso. Ho già detto che si chiamava Mosè? Questo morto annegato, mentre quello biblico aveva diviso le acque. Rosenthal è cognome ebreo, e diventa la scusa per buttare là un riferimento anche alla famiglia della veterinaria e alla Shoah, fuori luogo e come minimo irrispettoso, tanto è affrettato.
Dentro questo Zoo non ci sono solo uomini, gorilla, fredde veterinarie e setose figlie di duci, ci sono – per fortuna – alcuni pensieri che, seppur espressi frettolosamente, possono fornire qualche spunto per lo spettatore che voglia andare oltre il livello dello stupore etologico. Il più interessante è il senso della scrittura, quella teatrale ma direi narrativa in senso più generale: scrivere può dare sollievo in frangenti cupi della vita ed essere strumento salvifico ma quando l’atto dello scrivere diventa artistico – autofinzionale o no – può diventare il mezzo per scavare dentro se stessi e quindi per forgiare chiavi che aiutino a capire il prossimo, a volte apparentemente così lontano da sembrare di un’altra specie. Tradurre l’esperienza in parole scritte significa darle una forma e dunque una realtà nuova.
Tandzo subirà con la morte la trasformazione più radicale ma anche i due protagonisti umani usciranno cambiati dall’esperimento vissuto. Tra di loro è cresciuto un rapporto di profonda comprensione, la donna infatti accetta di rivelare il codice per aprire la gabbia, iniziali e anno di nascita di Blanco: SB71 (l’ego è un animale difficile da ingabbiare) e consentendo così la vicinanza fisica uomo/animale, lo scrittore passa una notte d’amore con il gorilla ed è certo una circostanza che non scorderà; la dottoressa forse si trasferirà per ragioni di carriera ma soprattutto riuscirà a sciogliere il suo ghiaccio scientifico in lacrime. Ed entrambi devono ringraziare un quadrumane.
ZOO
scritto e diretto da Sergio Blanco
con Lino Guanciale, Sara Putignano, Lorenzo Grilli
traduzione Angelo Savelli
video Miguel Grompone
scene Monica Boromello
costumi Gianluca Sbicca
luci Max Mugnai
musiche e suono Gianluca Misiti
aiuto regia Teresa Vila
preparazione vocale a cura di Laura Raimondi
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa