LORENZO CERVINI | Comodità non è certo la prima qualifica di una permanenza in uno spazio di teatro. Per costruzione, le file di sedute si aprono con la sola presenza dello spettatore e chiuse, nella sala vuota, si congelano in corridoi. Occuparne un posto è scelta di ostruzione al passaggio: nella trappola delle mura di gambe piegate, l’uscita è una lenta risalita a galla dal fondale nero. Non c’è nulla di casuale o innocente nell’essere a teatro.

In Festen paghiamo la nostra presenza con la rinuncia all’innocenza dello sguardo.
Il Mulino di Amleto adatta l’omonimo film di Thomas Vinterberg, riscoprendo la sua rappresentazione sul palco da parte di David Eldridge. Anche denominato Dogma #1, Festen è la prima applicazione del manifesto del 1995, in nome di una riforma anti-cosmetica della produzione cinematografica. L’intenzione del movimento è di realizzare opere prive di artifici di correzione, estranei alla registrazione in video di quello che è per come appare realmente.
Con la regia di Marco Lorenzi, la sceneggiatura originaria è ricostruita nei suoi vari componenti in un’entità simbolica poliforme dai confini indefiniti, per l’innovativo utilizzo di tecniche di ripresa e proiezione simultanee e per inedito ruolo degli attori che ora sono anche tecnici e costruttori di scenografie.
Dalla fonte filmata, Il gioco delle verità separa gli elementi strutturali dall’adesivo invisibile dell’immagine cinematografica e li ricostruisce fisicamente nella scatola scenica. Tutto è presente ma sembra sia cambiato di posizione, di funzione e arricchito di significato. Tra richiami chiari e celati, l’universo Festen si stende come una mappa puntinata di codici, in cui emergono archetipi del mito e del folklore, strutture antiche come la tragedia greca e composizioni estetiche contemporanee come il primissimo piano.

da sx a dx D’Agostino, Calia, Mazzi, Nigrelli, Ivaldi, Musella, Lanave, ph. G.Distefano

Nella giornata di celebrazione del sessantesimo compleanno del patriarca, una famiglia della borghesia danese si ritrova in un albergo. Al banchetto regale, che conta un grande numero di invitati tra conoscenti, parenti lontani e casuali osservatori, nelle pause tra i brindisi si rivelano nascoste verità sul passato del padre.
L’eroe è uno dei quattro figli che entra nei discorsi per distruggere la tranquillità degli invitati. Preceduto dalla ribellione massima che compie sua sorella gemella rinunciando alla vita, suicida pur di non soddisfare il tiranno, il suo è un attacco di parole. Possessore della verità è aiutato dal messaggero a commettere l’irruzione indisturbato: nessuno avrebbe predetto il suo tradimento all’ordine, il suo gesto è atto sconsiderato, il suo è suicidio sociale.
Perversione del conforto e della protezione, madre e padre ascoltano senza cedere al collasso. Intorno a loro, allontanandosi per gradi di vicinanza parentale, tutti sentono il dovere di resistere e ignorare la verità. Un silenzio che è moneta di sudditanza al governo del padre: in lui si concentra il potere, in lui il terrore, in lui il guardiano alle sbarre della finzione.

da dx a sx Danilo Nigrelli, Elio D’Alessandro, ph G.Distefano

Come l’eroe epico, il ribelle di Festen balla tra civiltà e inciviltà, tra mondo reale e fantastico. Per ricostruire la realtà in sala, Il Mulino di Amleto sceglie di definire chiaramente cosa è finzione sul palco, innalzando una struttura che poi distrugge gradualmente. Nel prologo, è il coro che canta la fiaba di Hansel e Gretel, l’antica storia di due bambini abbandonati nel buio della foresta, con gli occhi dei due cattivi genitori che li guardano allontanarsi.
L’essere nebbioso del coro è tradotto nell’assegnazione ai nove attori del compito di macchinisti e di operatori di ripresa. Sul telo bianco eretto al confine del proscenio i loro visi sono ingigantiti, una videocamera è dietro, sul palco, e uno di loro inquadra gli altri. Anche da soli gli abitanti di Festen sono tormentati da uno sguardo che li segue e solo il taglio della videoripresa genera disorientamento psicologico.
Nei fiumi dionisiaci dello champagne, i nove si confondono in una massa indistinta in festa, da cui si distaccano i personaggi fondamentali alla rivelazione finale. Al coperto dello schermo muovono la scenografia sotto la luce dei fari, cambiano costumi e ruoli, si denudano e agiscono come tecnici degli effetti speciali. L’astrazione in camera non mostra tali aggiustamenti dell’immagine: a noi la scelta di osservare il finto o l’assurdo del reale.

Nei buchi inspiegabili di questo strano spazio in cui i due lati dell’illusione convergono, penetrano voci e segni spettrali. In uno dei tre episodi che precedono il banchetto, nel bagno dell’hotel si rivelano strani simboli in un gioco di fuoco fuochino. La sorella suicida appare avvolta in un impermeabile giallo, il suo volto inesistente.
Sotto il lampadario a sospensione, la sua lettera rompe l’ultima connessione con le bugie del padre. Nel momento di rottura, la voce sirenica di Elizabeth Fraser in Song to The Siren distrugge le pareti, l’eco come risposta al richiamo del nostro eroe per il ricongiungimento familiare. Lanciata dall’oltretomba, segna la penetrazione finale di raggiungimento del reale.
Impossibile il ritorno all’incoscienza da una tale confessione. L’utilizzo che Festen fa del silenzio è fondamentale per capire cosa significhi, per lo spettatore, restare in silenzio. Realizzare di essere al pari di quello che vediamo rappresentato ci trafigge gelando le ossa. Dalla sedia sembrano spuntare spine, la tentazione è proprio quella di scappare.

da dx a sx D’Alessandro, Mazzi, Nigrelli, Ivaldi, Musella, Calia, ph G.Distefano

All’oscuro dell’intreccio degli eventi, lo spettacolo colpisce nel massimo della sua potenza. Nella casa del terrore siamo accompagnati, senza sapere a cosa stiamo andando incontro.
Eppure, all’uscita dall’esposizione violenta della nostra complicità, la sensazione è di essere finalmente liberi da un segreto che ci costringeva a una collettiva accettazione del potere imposto.
Festen si incarica di liberarci da tali catene. Il complesso de Il Mulino, accompagnati dai magnetici Danilo Nigrelli e Irene Ivaldi, riesce con l’ambizioso studio di un ibrido di teatro, cinema, tragedia, concerto, coreografia di danza (riassunto in un copione-storyboard), a fornire al pubblico un’esperienza irrepetibile.
Con previsione di un sarto che confeziona un finale vestito funerario, bottone dopo bottone, la troupe di Festen ha segnato un precedente nella speranza di riconnettere il mezzo del teatro alla sua funzione originaria di trasformazione.


FESTEN

IL GIOCO DELLA VERITÀ

di Thomas Vinterberg, Mogens Rukov & BO Hr. Hansen
Adattamento per il Teatro di David Eldridge
Prima produzione Marla Rubin Productions Ltd, Londra
Per gentile concessione di Nordiska ApS, Copenhagen
versione italiana e riscrittura di Lorenzo De Iacovo e Marco Lorenzi
con Danilo Nigrelli, Irene Ivaldi e (in ordine alfabetico) Roberta Calia,
Yuri D’Agostino, Elio D’Alessandro, Roberta Lanave, Barbara Mazzi,
Raffaele Musella, Angelo Tronca
regia Marco Lorenzi
assistente alla regia Noemi Grasso
dramaturg Anne Hirth
visual concept e video Eleonora Diana
costumi Alessio Rosati
sound designer Giorgio Tedesco
luci Link-Boy (Eleonora Diana & Giorgio Tedesco)
consulente musicale e vocal coach Bruno De Franceschi
direttore di scena e macchinista Giorgio Tedesco
capo elettricista e tecnico video Gian Andrea Francescut
fonico Francesco Dina
sarta di compagnia Milena Nicolet / Cristina Bandini
foto di scena Giuseppe Distefano

Produzione TPE – Teatro Piemonte Europa, Elsinor Centro di Produzione Teatrale, Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, Solares Fondazione delle Arti
in collaborazione con Il Mulino di Amleto

Materia Prima Festival
Teatro Cantiere Florida, Firenze | 17 marzo 2022