EUGENIO MIRONE | È sempre troppo facile parlare a fatti compiuti, solo le grandi menti sono in grado di riconoscere i segnali di decadimento in corso d’opera. Quando Arthur Miller scrive Morte di un commesso viaggiatore nel 1949, gli Stati Uniti sono il motore del mondo e il sistema capitalistico si avvia a raggiungere il suo apice. Negli stessi anni insieme a lui un manipolo di drammaturghi disillusi tra cui Eugene O’Neill, Edward Albee e Tennessee Williams scrivono alcuni tra i più grandi capolavori del teatro americano, in cui si certifica con largo anticipo il fallimento del sogno americano.
A settant’anni di distanza Morte di un commesso viaggiatore torna a prendere vita sul palco del Teatro Franco Parenti nella traduzione di Masolino D’Amico e con un cast di dodici versatili attori diretti da Leo Muscato.
Willy Loman, un Michele Placido convincente e deciso ma leggermente monocorde nei toni, da trentaquattro anni viaggia con la sua Chevrolet rossa in giro per l’America. È un commesso viaggiatore che sogna il successo a occhi aperti e si guadagna da vivere tramite la sua parlantina. Ha allevato i suoi figli, Biff (Fabio Mascagni) e Happy (Michele Venitucci), con il culto dell’apparenza e della superficialità: essere attraenti e popolari. Perché in fondo «non è importante ciò che vendi ma come lo vendi».
Per Willy i figli sono tutto, soprattutto Biff, sul quale da sempre ha riversato grandissime aspettative. Biff però è uno spirito libero, se ne è andato di casa per fare il bracciante in Texas; sogna un ranch mentre New York lo soffoca. Su richiesta della madre ha accettato di restare nella casa dei genitori perché il padre, ormai completamente in esaurimento, necessita del sostegno dei figli. Tenta di realizzare il sogno del padre avviando un’impresa; ma, una volta accortosi di non volere una vita da schiavo, decide di abbandonare per sempre la casa natale.
Willy ha sessantatré anni ormai, è stanco. Sa di essere un fallito; quel che più lo fa soffrire, però, è il fatto di aver capito che i figli non riscatteranno i suoi fallimenti perché sono due buoni a nulla. L’unica persona che ne comprende la fragilità è la moglie Linda, un’incisiva Alvia Reale, che sogna il giorno in cui potrà vivere insieme al marito nella sua casa libera dal giogo del mutuo. Quel giorno finalmente arriva e proprio allora Willy deciderà di compiere un ultimo gesto estremo in sella alla sua Chevrolet rossa, forse l’unico atto veramente remunerativo di tutta la sua vita.
Willy si trova esattamente in quel drammatico momento della vita in cui la voce del passato non è più una voce remota ma è ossessiva e impastata con quella del presente.
Il testo, seguendo i pensieri sconnessi della mente di Willy, inaugura un nuovo modo di fare teatro, fatto di salti temporali, continui cambi di spazio e numerosi personaggi, tanto da suscitare fin da subito l’interesse di grandi registi, Elia Kazan e Luchino Visconti in primis. Miller scrive il primo atto di Morte di un commesso viaggiatore in una notte e allo stesso modo il tempo della vicenda, al netto dei cambi temporali, si svolge nell’arco di una giornata: dal ritorno a casa di Willy al suo tragico epilogo.
In termini teatrali, il modo di raccontare la vicenda è folle quanto Willy; in questa ruota panoramica di avvenimenti, però, la regia di Muscato ne esce leggermente spaesata. Si comprende che nell’idea del regista più che su flashback si punti a una continua compresenza tra passato e presente, ed è apprezzabile che la struttura mescoli i diversi piani temporali più per accostamenti psicologici che per assetto narrativo; tuttavia, la resa di un testo così cinematografico, per sua natura molto complicato da gestire in scena, a tratti attira lo spettatore in un vortice confusionario di azioni.
Anche l’imponente e affascinante scenografia non risalta appieno nello sviluppo frenetico delle vicende: Andrea Belli ha ricostruito una bellissima gabbia di finestre e mattoni, lo scheletro di una villetta monofamiliare (ridotta a basement a causa degli enormi appartamenti costruiti intorno). La casa è scoperta, pareti e soffitto sono tagliati come le macerie di un edificio dopo lo scoppio di una bomba. Si vedono la cucina con tavolo e frigorifero e, separata da una parete scorrevole, una piccola anticamera.
Tutto intorno si sviluppa il giardino, dove prendono vita i ricordi e le visioni di Willy. Le sezioni che si svolgono nel giardino sono sempre molto ariose e movimentate; tutto questo andirivieni di azioni si scontra con il blocco di mattoni al centro della scena, che di contro àncora la scena verso il basso. Le luci di Alessandro Verazzi, come le musiche di Daniele D’Angelo, seguono un disegno più posato e sono suggestive. Suggeriscono i cambi temporali con l’alternanza di colori e si concedono qualche taglio più osato e ben riuscito.
La vicenda è narrata dal punto di vista di una tipica famiglia americana che non somiglia neppure lontanamente alle narrazioni pubblicitarie. È proprio la disfunzionalità della famiglia a essere posta sotto i riflettori da Miller, ma paradossalmente nessuno dei personaggi è colpevole, essi sono solo vittime di un sistema che li imprigiona fino a farli impazzire.
Il lavoro corale degli attori ne porta in scena il dramma in maniera un po’ altalenante. Placido, raccolto il testimone da Haber, costretto a stare lontano dalle scene per motivi di salute, fa rivivere pienamente il personaggio di Willy portando sulle spalle il peso di un uomo che si credeva una star e si riscopre fallito. Manca solo una punta di genialità che attori di tale levatura sanno regalare. Un po’ sottotono i due fratelli: Happy-Ventucci è un donnaiolo con il piede sul pedale del freno, mentre il Biff di Fabio Mascagni risulta eccessivamente patetico. Impeccabili, invece, Duccio Camerini, nei panni di un Charley sagace e compassionevole, e Alvia Reale, che trasmette con decisione l’enorme forza d’animo di una Linda disillusa ma amorevole.
Morte di un commesso viaggiatore è un testo emblematico; come scriveva Harold Bloom: «Non è chiaro se abbia la dignità estetica della tragedia, ma nessun altro dramma americano merita di più questo termine». Willy è un antieroe tragico completamente soggiogato dall’ambizione, emblema dell’uomo prigioniero di quel futuro distopico che Miller è riuscito a prevedere.
Sì, perché noi ci siamo dentro fino al collo: dall’ideale socialdemocratico di una società della cura anche i paesi europei hanno ceduto al fascino del sogno americano finendo intrappolati nelle catene della competizione e del successo. Non è un caso che la letteratura americana sia stata riscoperta anche in Europa, e che ora si comprendano capolavori come Morte di un commesso viaggiatore. Il gesto estremo di Willy Loman, un uomo che si è fatto «spremere per tutta la vita come un limone per poi essere buttato via», è un segno così attuale che continua a ricordarci quanto sia la nostra società a essere completamente inattuale.
MORTE DI UN COMMESSO VIAGGIATORE
traduzione di Masolino D’Amico
con Michele Placido, Alvia Reale, Fabio Mascagni, Michele Venitucci
con la partecipazione di Duccio Camerini nel ruolo di Charley
e con Stefano Quatrosi, Beniamino Zannoni, Paolo Gattini, Caterina Paolinelli, Margherita Mannino, Gianluca Pantosti, Eleonora Panizzo
regia Leo Muscato
scene Andrea Belli
costumi Silvia Aymonino
disegno luci Alessandro Verazzi
musiche Daniele D’Angelo
produzione GOLDENART PRODUCTION in coproduzione con Teatro Stabile del Veneto e Teatro Stabile di Bolzano
Teatro Franco Parenti, Milano
20 aprile 2022