RENZO FRANCABANDERA | Quando uno spettacolo ti riporta ad un capolavoro perchè lo dice, lo evoca, lo rilegge senza farne un riassuntino, ha già secondo me raggiunto il suo scopo artistico profondo.
Mi ritrovo così a riaprire per l’ennesimesima volta una piccola grande bibbia, un libretto rosso, uno dei 10 libri degli ultimi cinquanta anni, ad una settimana esatta dalla visione, ospitata nello spazio intimo e giusto del Fabbrichino di Prato, de Gli ultimi giorni di Pompeo, omaggio teatrale alla leggendaria opera di Andrea Pazienza, pubblicata a puntate su Alter Alter (storica rivista di fumetto e altra cultura di Milano Libri) nel 1985 e poi integralmente nell’87 da Mauro Paganelli per Edizioni del Grifo. Alter Alter infatti non ospitò la conclusione della novel.
Paz sarebbe morto a giugno dell’anno dopo, nel 1988 a 32 anni.
Questa coproduzione Metastasio di Prato – Sosta Palmizi nasce dall’idea congiunta dello scrittore e attore di teatro e cinema Riccardo Goretti, del regista e attore Massimo Bonechi e del danzatore e coreografo Giorgio Rossi di portare in scena l’opera di Pazienza.
Il danzatore ha avuto un rapporto personale intenso con Pazienza negli ultimi anni a Montepulciano, dove il disegnatore si era trasferito nel 1984 per allontanarsi dalla vorticosa esperienza bolognese. A Bologna aveva frequentato il DAMS, collaborato ad alcune delle riviste che hanno fatto la storia del fumetto indipendente italiano, conosciuto la politica e sviluppato la sua tormentata poetica esistenziale, fatta di segni mai visti prima nel mondo della letteratura illustrata.
Per Rossi, peraltro, l’artista realizzò un fondale di sette metri per dodici che divenne la scenografia della coreografia Dai Colli, che debuttò al Festival Inteatro di Polverigi nel 1987. Quella scenografia è ancora conservata da Marina Comandini, sposata da Pazienza nell’86 e che, per questo spettacolo, ha fornito un’amichevole consulenza.
Nel 2014 Unastoria di Gipi sarebbe stata la prima graphic novel italiana candidata al premio Strega, riconoscimento per l’opera letteraria più rilevante pubblicata nell’anno in Italia. Sono serviti quasi trent’anni per accogliere nel patrimonio nazionale la letteratura illustrata come parte della scrittura d’autore.
Pompeo è un piccolo colossale monologo per parola e immagini, che contiene non solo un feroce rapporto di integrazione fra testo e disegno, ma anche e soprattutto un uso del lessico che Pazienza aveva sempre avuto vivo e pulsante, ma che qui raggiunge un’organica purezza, fatta di neologismi, ardimenti letterari, metacitazioni, potenza evocativa di colori che i disegni non ospitano ma che appaiono chiaramente a chiunque legga, come solo i grandi romanzi sanno fare, appunto. Goretti, qualche anno fa, in un laboratorio di drammaturgia, aveva portato da analizzare proprio Pompeo, aspergendo sui partecipanti la potenza del testo prima ancora che delle immagini di questa straordinaria opera grafico-letteraria.
Lo spettacolo si ambienta in un monolocale. A destra un divano. A sinistra una lavagna. Sul fondo la gigantografia dell’albero che quasi a pagina piena è protagonista di una delle ultime tavole del romanzo grafico: tanto è colorato lo spettacolo quanto drammaticamente in bianco e nero l’opera di Pazienza.
Grazie all’espediente dei vestiti uguali (i costumi sono di Chiara Lanzillotta), capiamo subito che a interpretare il protagonista sono tutti i tre attori in scena. Si alternano, si compensano, entrano ed escono dal ruolo, per essere ora testo, ora illustrazione corporea del pensiero tradotto in scena.
La drammaturgia è il testo di Pazienza. La resa scenica, al di là della bellezza testuale, rispettosa e curata in modo amorevole, trova la sua particolarissima efficacia nella decisione di evitare ogni banale didascalia con il segno-disegno. La vera transustanziazione dell’immagine avviene icasticamente negli interventi coreografici affidati alla sinuosa ed elegante corporeità di Rossi, che reinterpreta ed accoglie elementi delle tavole per farli diventare parte di delicatissimi inserti danzati che fungono ora da cesura fra i vari capitoli della vicenda, ora da reinterpretazione e sublimazione della direzione del pensiero. Ne sono esempi la sciabola del samurai del capitolo di Pompeo stanco, il gatto nudo del capitolo La scuola, fino alla catena della celebre tavola finale del suicidio, che diventano pretesto per alcuni assoli per corpo e citazione simbolica.
Nessuna posa didascalica, nessun rimando concreto ai disegni, ma spunti, idee, talune volte davvero brillanti e immaginifiche, che con pochi mezzi e artifici scenici sono capaci di restituire un rapporto con l’opera quale sempre dovrebbe essere quello dell’artista con l’opera riletta. Uno spunto non per la riproposizione tal quale ma per l’ulteriore gioco fantastico della creatività.
Pochi sono infatti i tableaux vivants. Uno esplicito, corredato del relativo testo autografo riprodotto. Persino la mappa del quartiere del primo capitolo del romanzo viene riproposta alla lavagna con segno ingenuo, senza nemmeno l’azzardo di accennare un qualsivoglia disegno.
C’è invece tutta la narrazione tal quale.
Da questo punto di vista, la messa in scena, che deve un tributo di partecipazione speciale a Lucia Poli e David Riondino per alcuni interventi audio, mantiene una relazione con il testo di significativa pregnanza e di rispetto.
La recitazione è sporca, non impostata, accuratamente sciatta in apparenza, come doveva essere la casa, l’esistenza del protagonista della vicenda raccontata da Pazienza (ampiamente autobiografica come pare dichiarare l’autore stesso nella postilla all’edizione del Grifo dell’86 – ma quale opera d’arte non lo è?).
Tutta l’avventura psicotropa dei “viaggi” drogherecci è affidata, qui a teatro, al robusto dialogo fra le scelte del sound e light designer Giacomo Agnifili e il movimento corporeo di Rossi, dentro costumi di semplice ma elegantissima fattura.
Le musiche sono ricavate dalle musicassette di Pazienza stesso, una chicca.
Lo spazio artistico che ne risulta è struggente, arriva a toccare perchè tocca a sua volta con rispetto, delicatezza e ironia l’opera madre. E tanto più arriva il lato comico, tanto più crea la corretta fenditura in cui, velenosa e inarrestabile, si insinua la cifra drammatica, mai enfatizzata in modo da saturare: lo spettatore la respira con il fumo delle sigarette consumate in scena, arrivando all’intimo esistenziale.
Seppure alcune scelte registiche o di resa attorale possano risultare più o meno convincenti (per chi scrive, ad esempio, inutili le 3-4 pseudo-rotture della quarta parete, pur fedelmente corrispondenti ad esplicite domande nella novel al lettore, come quell’ Avete mai collassato? che Paz scrive dopo la narrazione del tentativo di overdose), il viaggio che Bonechi, Goretti e Rossi permettono allo spettatore de Gli ultimi giorni di Pompeo, incarnano quello che a nostro avviso dovrebbe essere lo spazio ampio, maturo del rapporto fra il teatro e chi lo abita scegliendolo come medium espressivo.
A tratti, durante la recita, pensavo fra me e me, sghignazzando: finalmente un ottimo lavoro senza la esasperante targhetta Under 35! (Anche se Andrea Pazienza di anni ne non ne aveva neanche 30 quando ha realizzato Pompeo).
D’altronde le ultime due tavole aggiunte in occasione della pubblicazione integrale dell’86 disegnate da Pazienza si chiudono con un balloon che recita, sullo sfondo del volto disegnato in pointillisme della Comandini: Ora che vivo in campagna i ragazzi di qui mi chiamano “Vecchio Paz” e, faccio per dire, ho 29 anni.
Si assiste quindi a un’opera matura, sincera, potente, non mediata, non corretta, che non si perde in fronzoli. C’è quello che serve.
Sullo sfondo, ma protagonista, il rapporto salvifico e unico dell’essere umano con l’arte, come mezzo di interpretazione della vita, con le domande sull’unico grande ineludibile dilemma di chi ha avuto per fortuna o maledizione il compito di vivere: la fragilità, la fine.
GLI ULTIMI GIORNI DI POMPEO
di Andrea Pazienza
di e con Massimo Bonechi, Riccardo Goretti, Giorgio Rossi
da un’idea di Riccardo Goretti
con l’amichevole consulenza di Marina Comandini in Pazienza
con la partecipazione speciale di Lucia Poli e David Riondino
sound e light design Giacomo Agnifili
costumi Chiara Lanzillotta
assistente alla regia Tommaso Carovani
consulenza grafica Stefano Roiz
produzione Teatro Metastasio di Prato, Associazione Sosta Palmizi
in collaborazione con STA – Spazio Teatrale Allincontro