CHIARA AMATO | Le rane è una commedia teatrale scritta da Aristofane e messa in scena per la prima volta alle Lenee (feste dell’antica Atene dedicate al dio Dioniso) del 405 a.C., ottenendo il primo premio.
Il testo narra il viaggio negli inferi di Dioniso, dio del teatro, e del suo fido servo Xantia per riportare in vita Euripide e salvare così la tragedia da un declino irreversibile. Durante questo inabissarsi negli inferi, i due protagonisti incontrano vari personaggi della mitologia greca, come Eracle, Caronte ed Eaco.

Le Rane in scena al Teatro Fontana di Milano è il risultato di un progetto ampio che da oltre due anni ha coinvolto diverse realtà sul territorio, proprio a sottolineare l’importanza dell’impatto sociale del teatro. L’ambizione è di riunire nuovamente le due metà del cerchio: l’atto teatrale e i cittadini. Ogni fase del lavoro infatti ha previsto workshop per la selezione degli artisti, collaborazioni con studenti e docenti di Università e istituti superiori come la Statale di Milano, l’Accademia di Brera, lo IULM e l’IIS Galilei Luxemburg.
L’allestimento è diretto da Marco Cacciola, che dopo essersi diplomato all’Accademia dei Filodrammatici di Milano, ha lavorato per anni come attore, con Danio Manfredini e Antonio Latella tra gli altri. Dal 2010 in poi ha firmato diverse regie, dopo aver fondato la Compagnia InBalìa.

Lo spettacolo inizia con un violino che suona alle spalle del pubblico e si avvicina al palcoscenico, con Lucia Limonta che indossa una gonna bianca e un mantello dorato, che le parte dai capezzoli, come un’antica divinità. Sul palco, la aspettano al buio Matteo Ippolito (Xantia) e Claudia Marsicano (il dio Dioniso). Entrambi interamente vestiti di bianco con pochi dettagli in oro.
Il sipario resta chiuso fino ad oltre la metà dello spettacolo e in questa prima parte gli attori si muovono alternandosi sul proscenio. Come accade spesso nella commedia greca, abbiamo la presenza di tre interpreti principali: il servo, la divinità e l’attore che sovente interpreta tutti gli altri ruoli.

L’intonazione generale è quasi da stand-up comedy e i riferimenti metatestuali della drammaturgia (che si è avvalsa della traduzione di Maddalena Giovannelli e Martina Treu) sono diretti al coinvolgimento di un pubblico molto giovane: i fumetti di ZeroCalcare, “Fart club” (che ovviamente vuole rimandare al film Fight Club diretto da David Fincher) e le serie tv. A questo risponde una recitazione molto fresca e quasi spontanea, come se i personaggi del mito fossero coetanei del pubblico, parte di esso.
Lo spettatore viene coinvolto da una testualita’ esilarante e grottesca, dove è chiamato in prima persona a dialogare con chi è in scena a riguardo di cosa sia comico, o su cosa eternamente faccia ridere a teatro.
Arrivati alle porte dell’ade Caronte duetta con Dioniso cantando un rap su quello che troveranno nel mondo degli inferi.
Da sottolineare una platea giovanissima che infatti interagisce con continui applausi e risate.

Il progetto di Cacciola prevede anche un altro elemento tipico del teatro classico e cioè un coro di cittadini, che dovrebbe spezzare il procedere della trama cercando di farsi crepa. I membri del coro cambiano di città in città proprio a rimandare a quel concetto di polis, inteso come comunità. Dalla platea si alzano, applaudendo, e viene specificato che “è giusto che il coro dia alla città consigli giusti”. All’interno del coro sono presenti anche altri due membri della compagnia, Giorgia Favoti e Francesco Rina, che infatti sono i primi a interagire col pubblico, parlando loro di cosa sia poesia e di come allontanare le paure con un rito, che di lì a poco coinvolgerà l’intero uditorio. La scelta registica funziona e infatti lo spettatore inizia addirittura a cantare seguendo le direttive di Rina, che dal palcoscenico si muove come un direttore d’orchestra.

Da questo punto dello spettacolo in avanti si assiste ad un radicale cambiamento: un’onda di fumo travolge la sala e si apre finalmente il sipario che ci mostra la scenografia, opera di Federico Biancalani in collaborazione con gli allievi dell’Accademia di Brera di Milano. La scena è tetra, buia: al fondo un albero formato di steli metallici e brandelli di plastica che sembrano far pensare a spettri incastrati in una condizione di solitudine e di dannazione eterna. Il palcoscenico è dunque l’Ade.
Il sipario erano le porte dell’altro mondo, che una volta schiuse, aprono la visione sull’oltre.
Ai lati del palco due elementi video che riproducono frasi dal testo di Aristofane alternate a elenchi di nomi e date, come fossero delle citazioni di lapidi mortuarie. Qui, come altrove, mancano precisi riferimenti a cui ancorare il nesso logico di alcuni pensieri registici, che restano abbozzati, ma non completamente sviluppati o definiti per essere del tutto leggibili dal pubblico.

Inizia una danza lenta in cui il coro accerchia, spoglia e dipinge i corpi dei due protagonisti di bianco e nero.
Il ritmo della musica aumenta e tutti ballano sfrenatamente, compreso il pubblico in sala e così continua il rito liberatorio, iniziato pochi minuti prima, al quale tutti prendono parte.
Questo risultato di coinvolgimento totale della platea è ottenuto anche grazie ad uno stile di recitazione estremamente efficace del trio Limonta-Ippolito-Marsicano che, seppur giovani, o proprio per questo, rompono fin dall’inizio la quarta parete, ponendosi in rapporto simpatetico e colloquiale con l’uditorio, lo coinvolgono come parte attiva, mentre gli interpreti, distesi sul palco, evocano brevi dettagli di un sé personale e collettivo, nel quale ognuno può immedesimarsi. Una captatio perfettamente riuscita da Cacciola.
Siamo tutti in realtà coro e il nostro coinvolgimento nasce quasi spontaneo in queste condizioni. Quello che invece risulta avere meno intensità è il contenuto di questo coinvolgimento.
La “tematica” annunciata all’inizio, ovvero cosa sia definibile come poesia, è affidata nella visione registica ad elementi labili, non riempiti tutti di contenuto: resta, di questa seconda parte, la sensazione di un elemento ludico a momenti decisamente forzato, in cui resta abbozzata al livello di espediente scenico la fusione fra teatro e società, che si limita più ad un gioco delle forme che sui contenuti.
Più riuscita la prima parte dello spettacolo, che mantiene un ritmo e una coerenza propri, esterni alla dinamica del gioco e delle parti in gioco.

Enigmatica e lasciata a diverse possibili interpretazioni la scena finale: il viaggio negli inferi si conclude e quello che resta è una riproduzione video di un modellino del teatro (Fontana?), presentato come distrutto e invaso da rane.
Forse una risposta pessimistica circa l’impossibilità di tornare ad un impegno civile del teatro o alla possibilità che il teatro possa avere un suo effettivo potere di cambiamento della società, come pretendeva di essere nell’antichità, quando però era l’unico medium sociale, e non esistevano la radio, la tv, la digitalità.

 

LE RANE

da Aristofane
progetto e regia Marco Cacciola
con (in o.a.) Giorgia Favoti, Matteo Ippolito, Lucia Limonta, Claudia Marsicano, Francesco Rina
e un coro di cittadini ogni giorno diverso
traduzione Maddalena Giovannelli, Martina Treu
dramaturg Lorenzo Ponte
scene Federico Biancalani
costumi Elisa Zammarchi
direzione tecnica Rossano Siragusano
musiche e suono Marco Mantovani
assistente alla regia Gabriele Anzaldi
produzione Elsinor Centro di Produzione Teatrale / Teatri di Bari /Solares Fondazione delle Arti

Teatro Fontana, Milano | 22 maggio 2022