ELENA SCOLARI | Il film Dogville di Lars von Trier (2003) è un film molto teatrale, si svolge interamente in un set al chiuso, dove si ricrea un paese che è un modellino di paese, con strade e case e porte segnate con il gesso sul pavimento in pianta, le soglie sono una linea bianca, le porte si aprono facendo il gesto della mano sulla maniglia. La tentazione, dunque, di trasporlo in teatro prima poi a qualcuno doveva venire, è successo a Christiane Jatahy, autrice, drammaturga e regista cinematografica brasiliana, ospite del bel festival Presente Indicativo organizzato dal Piccolo Teatro di Milano che ha così fatto fiorire di opere straniere tutto il mese milanese di maggio.
Lo spettacolo ispirato al film si intitola Entre chien et loup, un’espressione idiomatica francese (lo spettacolo è recitato in francese) che corrisponde al nostro “tra il lusco e il brusco”, cioè il crepuscolo, quel momento appena prima dell’alba e del tramonto in cui non si capisce bene se sia giorno o notte, se le tenebre vincano sulla luce o viceversa. Probabilmente si allude alla situazione di indecisione, anzi meglio di ambiguità, che l’uomo vive di fronte a questioni importanti, etiche, morali.
Una questione etico/morale è infatti quella che si pone agli abitanti del paesino (nel film in un ipotetico Colorado, qui forse in Svizzera): la giovane Graça, brasiliana, sta scappando dal suo paese dove infuria un conflitto e incontra Tom, che le offre asilo e propone alla piccola comunità di accoglierla; superate le perplessità di qualche singolo si passa alle votazioni e la cittadinanza decide a maggioranza che la ragazza potrà restare. Per farla meglio volere Tom suggerisce che possa offrirsi di aiutare facendo lavoretti e rendendosi disponibile per incarichi vacanti.
Il succo è che inizialmente le persone del paese sembrano (mai con grande calore, per la verità) voler accogliere Graça e poi, gradualmente – per una serie di ragioni, prima fra tutte la incancellabile paura dello straniero – cominceranno a sfruttarla, usarla, maltrattarla, fino a brutalizzarla e schiavizzarla.
A dirla tutta, però, se davanti a un profugo che scappa da un paese in guerra e chiede asilo tu prima fai votare gli abitanti del tuo quartiere poi dici “Vabbè, rimani ma comincia subito a portar fuori la spazzatura”, qualcosa dovrebbe puzzare da subito, come accoglienza siamo un po’ scarsi.
Serve dare alcune coordinate tra la situazione del film e quella dello spettacolo per capire quale sia la direzione che Jatahy dà al suo lavoro: von Trier ambienta Dogville negli anni ’30 e fa scappare Grace, statunitense, (Nicole Kidman) da pericolosi gangster, il suo Tom è un aspirante scrittore; in teatro abbiamo detto che la protagonista è un’esule straniera di oggi, in fuga da una nazione in guerra mentre Tom fa esperimenti da regista riprendendo l’andamento del test “accoglienza in vitro” e – naturalmente – facendolo vedere al pubblico sull’ormai consumato maxi schermo che sovrasta anche questa scena.
L’intenzione è brechtianamente dichiarata all’inizio di tutto: un prologo in cui i componenti della troupe e soprattutto Tom spiegano che sono partiti dal film citato ma vogliono provare a capire se quella storia si possa riscrivere, se ci sia modo di deviare gli avvenimenti, insomma indagare se ci sia speranza che gli uomini non siano tutti irrimediabilmente stronzi. Si assiste all’inesorabile (e previsto) fallimento della prova, come se lo si stesse verificando hic et nunc, momento per momento.
La scena di Entre chien et loup è piena di mobili: tavoli, divani, librerie, letti, un pianoforte, un acquario, piante. Gli attori (dieci) si muovono molto soprattutto per spostare i suddetti arredi, sempre un ottimo modo di tenere occupati gli interpreti con compiti pratici che sollevano da altre preoccupazioni sul modo di stare in scena. La compagnia/cast offre un buon equilibrio recitativo con la punta dell’attore anziano nel ruolo di un cieco che – dentro e fuori dalla finzione – crea anche situazioni paradossali perché non si sa quando vede e quando no. Ovviamente è simbolico anche questo.
Lo spettacolo tiene un buon ritmo per quasi due ore, le riprese proiettate offrono un secondo piano di lettura perché non sono sempre in diretta, talvolta sono sfasate rispetto a quanto accade in scena e mostrano un girato in cui vediamo quello che dai personaggi in carne e ossa viene raccontato. Possiamo arguirne che Jatahy intenda dirci – più o meno – “come vedete non si può riscrivere il passato perché è già cristallizzato e quel girato era già lì, pronto, certi che sarebbe andata esattamente come era scritto nella sceneggiatura”.
La portatrice di “grazia” di rosa vestita sarà umiliata, violentata – la scena dello stupro è a vista – purtroppo nessuna sorpresa nella meschinità e nell’istinto di sopraffazione dell’uomo.
E va bene, ma se qui non c’è motivo di discutere dell’idea di von Trier, c’è invece motivo di discutere dell’idea di C. Jatahy e di come abbia “manipolato” la materia originale. Non tanto nello sviluppo del plot, tutto sommato piuttosto fedele – e infatti il prologo è una scelta solo formale – quanto nei frequenti momenti di autocoscienza della compagnia che spiega cosa stia succedendo e che cosa il fatto si porti dietro, filosoficamente parlando. Troppo for dummies. La lezione c’era anche in Dogville, certo (era un film a tesi), ma nessuno la veniva a chiarire alla lavagna. Il film mostrava, icasticamente, lo spettacolo illustra le note a margine.
C’è inoltre un particolare che merita di essere approfondito perché significativo: nel film Grace diventa peggio dei suoi carnefici, si vendica di loro brutalmente senza risparmiarne nessuno, arriva a promettere la salvezza alle madri che riusciranno a non piangere vedendo uccidere i loro figli, e qui il film assume dignità di tragedia che porta le riflessioni documentaristiche alle estreme, umane e drammatiche conseguenze; in teatro invece il voltafaccia non avviene, questa scena è anticipata, cambiata di prospettiva, cioè è una delle madri a ‘sfidare’ Graça mimando di scagliare a terra statuine di ceramica (che poi lei dovrebbe pure ripagare sottraendone il valore dal suo stipendio), si infrangono solo con il suono ma nessuno rompe davvero niente. È un depotenziamento che toglie forza all’onda d’urto scatenata da violenza e cattiveria.
Lo stesso meccanismo è applicato al finale in cui nel film la protagonista descrive davanti agli abitanti di Dogville tutte le brutture subìte, prima di attuare la sua vendetta, in Entre chien et loup Graça elenca (qui in portoghese) alcune delle oscure ingiustizie che si perpetrano in Brasile, ammonendo su quanto sia facile non accorgersi di un nuovo fascismo strisciante fin quando non è troppo tardi per intervenire. Anche qui sentiamo il nostro compagno secchione che ‘svela’ la morale del libro letto a scuola.
Per quanto veritiera quella spiegazione possa essere il teatro dovrebbe tacerla, forse suggerirla, magari indurla, certo non recitarla in piedi alla sedia.
ENTRE CHIEN ET LOUP
ispirato al film Dogville di Lars Von Trier
scenografie, regia e adattamento Christiane Jatahy
collaborazione artistica, scenografia e luci Thomas Walgrave
direttore della fotografia Paulo Camacho
musiche Vitor Araujo
costumi Anna Van Brée
direzione video Julio Parente e Charlélie Chauvel
collaborazione e coordinamento Henrique Mariano
con Véronique Alain, Julia Bernat, Élodie Bordas, Paulo Camacho, Azelyne Cartigny, Philippe Duclos, Vincent Fontannaz, Viviane Pavillon, Matthieu Sampeur, Valerio Scamuffa
produzione Comédie de Genève
coproduzione Odéon-Théâtre de l’Europe – Paris, Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Théâtre national de Bretagne – Rennes, Maillon Théâtre de Strasbourg – Scène européenne