RENZO FRANCABANDERA | Ci vuole qualche giorno per trovare modo di andare a rileggere con la ragione il segno artistico di Olivier de Sagazan, pittore, scultore e performance artist francese, che ha chiuso pochi giorni fa l’edizione 2022 di Inteatro Festival di Polverigi/ Ancona con il suo “vecchio” ma sempre nuovo Transfiguration.
Occorre qualche giorno, dicevamo, perchè la visione di questo spettacolo, definito dal The Guardian “una delle cose più originali e incredibili cui probabilmente vi capiterà di assistere”, è onestamente un’esperienza sconvolgente, che pone tutte le questioni sulla pratica dell’arte dal vivo, collegando l’arte contemporanea al rito millenario e alle radici del fare arte dell’essere umano.
De Sagazan, nato in Congo e naturalizzato francese, formatosi originariamente come biologo, da oltre vent’anni porta avanti una pratica artistica incentrata sulla contaminazione tra pittura, fotografia, scultura e performance ed è già stato ospite in Italia in alcune gallerie d’arte e teatri, e poi con i suoi laboratori nel 2013 a Fabbrica Europa e poi a Villa Nappi nel 2016 con la Central Saint Martins College of Art and Design, per un workshop intenso tanto quanto lo spettacolo che ha proposto a Inteatro Festival e fortemente voluto dalla direzione artistica illuminata di Velia Papa.
L’anno scorso è stato a Biennale Danza 2021 con la sua creazione La Messe de l’Âne e quest’anno al Bellini di Napoli per la tournée di Hands do not touch your precious Me, ideato e diretto dal coreografo belga Wim Vandekeybus, fondatore della compagnia Ultima Vez, in collaborazione proprio con de Sagazan, e incentrato anch’esso sul concetto di trasfigurazione.
Tutte queste ideazioni cui l’artista lavora si muovono all’interno di una dimensione misteriosa e trascendente che avvicina l’inaccessibilità astratta della dimensione onirico-inconscia alla concretezza bruta della materia, della massa terrestre, simboleggiata in Transfiguration dalla creta. Molto di quello che è il de Sagazan performer nasce proprio dallo studio delle arti plastiche, dalla scultura, dal mescolare gli elementi naturali, fino ad inglobare il corpo e trasformare il tutto in scultura vivente.
Transfiguration è creazione che potrebbe definirsi identitaria, portata in scena per la prima volta nel 1998, quindi quasi 25 anni fa, e da allora eseguita più di 300 volte in 25 paesi diversi. Il lavoro ha subito piccoli progressivi aggiustamenti, fino alla versione attuale che, privata quasi del tutto dell’orpello musicale, diventa un vero e proprio rituale che unisce i linguaggi delle arti plastiche e visive al rapporto sacrale che si crea nello spazio della rappresentazione fra l’attore, inteso come la forza agente, e chi assiste.
All’ingresso in sala, il pubblico trova già l’artista che cammina in circolo, vestito in abito nero e camicia bianca, intorno ad una installazione centrale, composta da tre lamine di metallo alte due metri circa, che sono appese al soffitto, alla cui base sono visibili una piccola cupola di creta e alcune ciotole di metallo. Ai lati delle ciotole, alcuni ciuffi di paglia ed erba secca.
De Sagazan quando il pubblico è pronto, si porta in ginocchio in modo da avere fra le gambe la piccola collinetta di creta e avverte il pubblico che di lì a poco non potrà più vedere nulla, e che lo sguardo dello spettatore sarà il suo. A metà fra Edipo e Tiresia, fra autoimposizione della cecità e preveggenza inconscia, l’artista avvia il rituale artistico dando fuoco a poche sterpaglie, mentre canta una canzone antica, magica. Forse africana, forse indiana: sicuramente un suono tribale che non lascia dubbi sul fatto che da quel momento in poi si avvii, più che una rappresentazione, un’esperienza. E per lo spettatore quello a cui andrà ad assistere ha le caratteristiche del viaggio iniziatico.
Se volessimo raccontare in due sole righe quello che succede nei 50 minuti successivi, potremmo banalizzare dicendo che da quel momento in poi, de Sagazan inizia a spargersi sul volto, come a mascherarsi, strati progressivamente più densi di creta, fino a crearsi un elmo deforme che ne ingloba completamente la testa, coinvolgendo poi, nella parte finale dello spettacolo, tutto il corpo.
E questo è il fatto.
Ma è proprio qui che subentra il tema dello sguardo, quell’atto non innocente che collega la pratica artistica, interpretata in modo assoluto e totalizzante, con l’inconscio, tanto dell’artista quanto dello spettatore.
Illuminato da una luce fioca, partendo da quello che sembra un semplice strato di trucco teatrale di creta con cui l’artista si sporca la faccia, de Sagazan passa man mano ad uno strato sempre più denso, compatto, sotto il quale pian piano fa sparire il volto stesso. Da questo momento in poi la superficie di creta diventa maschera cangiante.
L’artista si aiuta con della tempera liquida, di colore nero e rosso: intinge le dita nelle ciotole di colore e infilando le dita nella creta con cui si è coperto il volto, segna, ora in alto, ora in basso, occhi e bocca di quelle che diventano maschere viventi e mobili, capaci di fondersi l’una nell’altra e cambiare in un istante. Il confine fra forma e de-forme è fluido, rapidissimo, e dopo diversi minuti l’elmo di creta è davvero spessissimo.
Il pubblico è ammutolito, pronto a provare a cogliere i segni vocali che pur sommerso dall’argilla, l’uomo pronuncia. Una giaculatoria rituale e incomprensibile, mentre sul suo volto si affolla quello a cui ciascuno può dar vita con la propria fantasia: maschere africane, mostri, incubi, opere d’arte, da Max Ernst a Ensor, passando per Bacon, Bellmer e la voce di tutti gli artisti che fra formale e informale hanno lavorato sul canone espressionista.
L’opera d’arte vivente, che sbatte feroce contro le superfici metalliche facendole risuonare di colpo, riformula continuamente la propria identità, problematizzandola ma anche superando il confine dell’antropomorfismo per farsi creatura prima amorfa, poi bestiale, ora uccello, ora cervo, unendo alla creta la paglia, per reintrodurre infine le fiamme e dare fuoco al drammatico sembiante che man mano cade a pezzi, tornando qui e lì a rivelare la nudità tragica della condizione umana che, estesa a tutto il corpo, diventa icona cristologica, sacrificio dell’uomo a se stesso. Suona Vivaldi, lo Stabat Mater, il “Nisi Dominus – Cum Dederit”.
La figura si leva in piedi, si strappa le vesti di dosso assume proprio la posa del crocifisso. Il finale, fra simbolismo arcaico e scultura dal vivo, continua a combinare eros e thanatos, desiderio e forma vivente, sogno di creazione e drammatica impotenza nel dare vera vita. Il finale, dopo la tragica carrellata di volti e identità, di abrasioni e rivelazioni, sembra ricollegare questa fragilissima figura al Geppetto di Collodi, il piccolo omino che nella sua disperazione prova a creare un essere umano con la materia, facendosi dio, rievocando la creazione.
Impossibile per lo spettatore dopo tanto guardare, dopo tanto scavare ed essere scavati dall’arte, trovare una chiave unica e assoluta: sono gli occhi stessi di chi osserva, ciascun per sè, a fare lo spettacolo, prima di finire assorbiti nel grembo dell’arte, nella fessura scavata dalle dita di de Sagazan nella creta unta di rosso. Grembo e luogo della vita creativa.
Parliamo, per chi scrive, di una delle maggiori esperienze cui ho potuto assistere nella personale pratica di dialogo e confronto con il linguaggio della rappresentazione e dell’arte dal vivo.
Il codice di de Sagazan è sacro, antico. Riporta fuori dalla devitalizzante e deritualizzante urbanizzazione contemporanea, costringendo a un viaggio misterico ancestrale.
Concludo prosaicamente questa testimonianza narrando di un tragicomico episodio rivelatore, occorso nella rappresentazione.
Una signora in bella foggia, dai capelli grigi, accompagnata dal marito, occupa la prima fila davanti a me. Quando ormai de Sagazan non può più vedere (ma tutto il pubblico alle sue spalle sì) accende il cellulare nell’impeto di dover portare con sè un indelebile ricordo di ciò cui stava assistendo, filmando la straordinaria performance (incurante purtroppo del fatto che la cosa stessa ne turbava la sacralità). Dopo un bel po’ di pazienza le chiedo di riporre il cellulare. Comprende, e spegne.
Dopo alcuni minuti l’artista nell’impeto della denudazione, si libera della camicia tutta colorata e imbrattata di creta, che viene lanciata in avanti, in direzione del pubblico e finisce proprio addosso alla signora, di pizzo nero vestita. Che si scansa, togliendosela di dosso per paura di sporcarsi, come le fosse stato tirato addosso un topo morto.
Fra me e me, in quell’esatto istante ho pensato all’inutilità del filmino registrato sul cellulare che magari le sarebbe caduto prima o poi nel wc durante una chat a base di ricette di cucina con qualche conoscente, mentre l’unico ricordo tangibile, sudato, indelebile, incorniciabile, la signora lo ha gettato in terra allontanandolo da se’ con decisione.
E lì, se qualcuno mai avesse voluto una esemplificazione pratica dell’insostenibile peso della croce dell’arte, ne avrebbe avuto testimonianza.
La signora avrebbe potuto prendere la croce insozzata, la maglia sudata del povero Cristo, tenerla come cimelio, memoria eterna del suo essere stata lì presente. E invece, dopo aver avidamente filmato per interi minuti, quando ha dovuto farsi Cireneo, caricarsi la croce sulle spalle, l’ha scansata per non sporcarsi, mentre il marito, su Shazam cercava di capire che musica stava suonando: transfiguration.
TRANSFIGURATION
regia e performance Olivier de Sagazan