RENZO FRANCABANDERA | Fra le proposte dell’edizione 2022 del Festival Opera Prima di Rovigo, ha avuto un suo significativo rilievo il riallestimento da parte della compagnia del Teatro del Lemming di un lavoro antico, ma non vecchio. Si tratta di un Amleto i cui primi studi risalgono a quasi 15 anni fa e che era stato proposto anche a inizio aprile scorso, prima di essere ripresentato nel programma dell’edizione 2022 che ha visto un bel successo di pubblico e critica, all’interno di una proposta multidisciplinare viva e di grande interesse.

Amleto 22 (come il regista Massimo Munaro ribattezza il lavoro), non nasconde la sua età, afferma l’intenzione di rivivere nel presente, il suo bisogno di riportare a oggi le proprie istanze. Anzi, forse il convincimento del regista è che questo spettacolo incarni una sua potente attualità.
Cerchiamo dunque di capire le ragioni della scelta.

Innanzitutto questo, a differenza di moltissimi altri allestimenti immersivi del Teatro del Lemming, si sviluppa con una divisione netta fra attori e platea. Anzi, gioca su questo tema della platea come umanità altra.
Se dal punto di vista della geografia agìta, spesso lo spettacolo tracima sulle gradinate del Teatro Studio, le invade, le accerchia, dal punto di vista dei ruoli il pubblico è distinto da coloro cui è affidata l’interpretazione.
L’essere pubblico ha a che fare con l’essere qui comunità sociale, popolo, che in un contesto di equilibrio di forze di potere dovrebbe avere diritto/dovere di parola.
Ma la provocazione centrale di questo Amleto è proprio nel rinfacciare al pubblico di essere muto, incapace di dire, di dirsi, di avere battute da dire o recitare.

Lo spettacolo infatti, iniziando intorno al sistema mitopoietico shakespeariano riletto attraverso gli archetipi e i simboli identificativi, definisce subito un sistema di lotte per il potere. Le prime immagini raccontano del dolore funebre che diventa in pochi istanti orgia per la corona.
I personaggi non esistono, nessuno degli attori interpreta realmente i personaggi della tragedia, ma tutti contribuiscono a un continuo scivolare di attore in attore delle questioni simboliche analizzate.
Amleto, ambientato in uno spazio per lo più buio, oscuro, inconscio, si sposta sul bisogno di affermarsi, di decidere, di dominare: sono i dilemmi che alimentano la figura stessa del principe indeciso, che oscilla nelle sue incertezze, fra essere e non essere.
La recita è un turbine di deriva pasoliniana della forma sociale corrotta. Ribalta davanti agli occhi degli spettatori la miseria della società umana, ma nei momenti cruciali arriva dal pubblico, inteso come singoli e come sommatoria sociale, a chiedere provocatoriamente ragione del non avere nulla da dire.
Complice la consegna del silenzio cui il pubblico è tradizionalmente abituato negli spettacoli, gli attori, ora dispersi in piccole isole performative, ora isolati in qualche rappresentazione iconica stilizzata della vicenda amletica narrata per epifanie, rimandi, allusioni, si raggruppano, quasi come piccolo plotone retorico, e affrontano gli spettatori. Gli vanno incontro. Arrivano a ridosso della sala. Salgono sulle gradinate. Chiedono al pubblico quali battute abbia, cosa abbia da dire rispetto a questo spettacolo che si dipana sotto i loro occhi di melliflue convenienze, di lingue che leccano altri umani, che toccano.
Tutto è corpo e nulla è corpo.
L’Amleto del Lemming è una società che ha perso qualsiasi collante sociale, in cui non sopravvivono più legami di alcun genere, e tutto si fa e si mescola in una deflagrazione delle identità. L’Ofelia di qualche istante prima non è la stessa Ofelia che abbiamo davanti, Amleto sono tutti e nessuno: esistono le tematiche, le questioni.
Lo spettacolo è composto di una miriade di movimenti, spostamenti, immagini e finanche canzoni: è ben interpretato da Fiorella Tommasini, Chiara Elisa Rossini, Alessio Papa, Diana Ferrantini, Alessandro Sanmartin, Katia Raguso, Marina Carluccio, Chiara Ferronato, una squadra diversa da quella della recita di aprile, ma capace di un senso di gruppo, di orizzontalità e di coralità che è la vera cifra delle interpretazioni cui la regia di Munaro spinge.
Il suo è un teatro che non ha solisti, non ha interpreti unici, non ha personaggi.

L’annegamento di Ofelia è raccontato da una figura femminile non giovane, che affonda (fra omicidio sociale e suicidio della propria identità bambina) una bambola in una bacinella. E così anche tutte le altre interpretazioni giocano su contrasti, travasi di identità e genere (come nel caso del monologo di Amleto affidato a una donna), per mettere lo spettatore davanti alla forma più scomoda e inconsueta che quello specifico interrogativo possa assumere.
La trama shakespeariana quasi non esiste più, a un certo punto.
Gli attori escono alla fine dalle porte laterali esattamente come ci sono entrati. Non esiste spazio per l’applauso: in questo il progetto resta fedele a un’idea di spazio concettuale del teatro non come recitazione ma come esperienza immersiva in cui il partecipante è chiamato a essere.
Ecco quindi che il pubblico, usato performativamente, in realtà è anche in questo caso tutt’altro che estraneo all’azione, tutt’altro che semplice fruitore.
Certo, l’azione sul palcoscenico permette, pur nel continuo frazionarsi anti-narrativo di questo Amleto, di raccontare una storia, affidata alle luci, alle musiche, agli oggetti di scena, al riconoscere qui e lì di qualche brandello di vicenda della tragedia del Bardo.
Qualche personaggio della tragedia del Principe di Danimarca appare per poi sparire in pochi istanti, affidato a un altro attore e poco dopo a un altro ancora, fino al lavacro finale di una delle interpreti, che quasi come purificazione affida all’acqua di chiudere il rito, iniziato poco meno di un’ora prima dal fuoco di una candela posta sul letto di morte del padre del protagonista, ammazzato nella lotta per il potere.
Più che Amleto, quella che viene messa in scena da Munaro e dal Lemming è una sua rilettura che ha in controluce La società dello spettacolo, di Guy Debord: la crisi della democrazia, il finto ruolo della comunità inerte rispetto alle logiche del potere, la massa zitta anche quando dovrebbe urlare, che sa di non potere nulla, se non “godersi lo spettacolo”.
«Tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli», essendo questi intesi non come un insieme di immagini, ma come un rapporto sociale fra individui, mediato dalle immagini, che diventa sia il mezzo, sia il fine del modo di produzione, sospinta dal feticismo per la merce, per l’oggetto: ed eclatante risuona, nell’interpretare quello a cui si assiste con l’Amleto del Lemming, il concetto drammatico, sempre menzionato da Debord, di divisione mondiale dei compiti spettacolari.
Munaro, magari non volendolo, o forse sì, mette in scena esattamente questa cosa, questo frazionamento e slittamento continuo dei ruoli, interni alla logica del potere e della sopraffazione, con il pubblico a tenere per tutto il tempo il compito della massa (invero poco proletaria e sempre più borghese nel teatro d’oggi).
E quindi dopo qualche giorno, scrivo questa riflessione, ragionando su un libro da rileggere e magari, a lettura finita, su uno spettacolo da rivedere, alla luce di queste considerazioni che provano a tracciarne una direttrice d’interpretazione possibile. E d’altronde, in questo Amleto come spiegato ne La società dello spettacolo, i «personaggi ammirevoli in cui il sistema si personifica sono ben noti per non essere ciò che sono».

 

AMLETO

Musica e regia: Massimo Munaro
Con: Fiorella Tommasini, Chiara Elisa Rossini, Alessio Papa, Diana Ferrantini, Alessandro Sanmartin, Katia Raguso, Marina Carluccio, Chiara Ferronato
Elementi scenici: Luigi Troncon

Spettacolo vincitore del Silver Snow Flake al Sarajevo Winter Festival 2013