SARA PERNIOLA | La Biennale Teatro 2022 giungeva quest’anno alla 50esima edizione: ha avuto luogo a Venezia tra il 24 giugno e il 3 luglio, diretta da Stefano Ricci e Gianni Forte (ricci/forte), che quest’anno hanno deciso di percorrere il senso cromatico e le proprietà interne del rosso, continuando così ad armonizzare la scelta stilistica/filosofica che si basa sulla caratterizzazione del loro operato con i colori. Dopo il blu dello scorso anno, il Rot – ‘rosso’ in tedesco – ha il fine di richiamare qualcosa di duro e implacabile. Pronunciando la parola stessa lo sentiamo tra i denti: è lo spigolo che lacera, l’irruenza della passione, la fiamma della lotta etica. Rot è, però, anche il linguaggio che perdona l’animalità malata di se stessi e degli altri, facendo tornare a essere proprietari di senso della propria identità, cura per una collettività martoriata.                                                  In laguna siamo stati, nel primo fine settimana della rassegna, spettatori di The Lingering Now di Christiane Jatahy, Una foresta di Olmo Missaglia e del progetto Late Hour Scratching Hour -, ospiti di una città completamente ripartita e che si imbatte in vecchie abitudini, che ci imbriglia con la sua nostalgica unicità e fa riflettere sul cambiamento climatico, al cui contrasto la Biennale stessa si impegna in modo tangibile, sia come pratica virtuosa che in senso puramente artistico e tematico. 

Parliamo qui di The Lingering Now di Christiane Jatahy – spettacolo di apertura del Festival e secondo pannello del dittico Our Odyssey avviatosi nel 2017 con Itaca – e che concretizza davvero la dichiarazione d’intenti della direzione artistica, rendendo materico il rosso, la lacerazione che racconta uno sforzo, la stanchezza ardente del sangue. La regista brasiliana, insignita quest’anno del Leone d’oro alla carriera e da quasi un ventennio una delle autrici più in vista nel panorama internazionale, in quell’osmosi tra cinema e teatro che le è consueta, allestisce un dramma veemente, spinto da una corrente fatta di sofferenza e stroncature esistenziali. Utilizza come testo di riferimento l’Odissea di Omero, che narra le peregrinazioni dell’eroe greco in una tessitura poetica tra passato e presente, servendosi del mito per portare in scena le odissee vissute da attori che non fingono e non danno vita a personaggi fittizi: sono loro stessi i protagonisti delle storie che raccontano, da Palestina, Libia, Grecia, Sudafrica, Amazzonia, attraverso diversi media per la auto-rappresentazione.
Con grande sensibilità e tecnica, infatti, Christiane Jatahy entra e racconta l’universo dei migranti, raccogliendo le loro vicende biografiche e trasformandole in linguaggio artistico. Attraverso un processo di narrazione che utilizza le riprese filmiche – sia in diretta che d’archivio – i corpi degli attori, dallo schermo, si fanno carne in mezzo agli spettatori, rendendoci parte attiva della performance.
Il Teatro delle Tese dell’Arsenale si riempie così anche di chitarre, violini e canti; le storie di separazioni, lontananze, persecuzioni, si tingono di ritmo e di movimenti, dando vita a una sorta di sogno di fusione tra questi elementi che ha come risultante finale un ballo tra tutti, vitalistico e liberatorio. Come se il Coro – e dunque la
polis – della tragedia greca si personificasse, partecipando alle vicende degli eroi e interagendo con loro con uno scambio emotivo e concettuale viscerale e interconnesso. 

L’hic et nunc diventa, dunque, sempre più, nel corso dello spettacolo, dimensione pulsante in quella sovrapposizione di piani e perdita di confini tra pubblico e attori: questi ultimi, dalla videoregistrazione, sembrano a volte rivolgersi direttamente alla platea, cercando un dialogo e aspettando una risposta; vengono ripresi direttamente in sala e i loro interventi sottotitolati proiettati sullo schermo, in un continuo gioco di rimandi. Molti personaggi che vediamo nelle parti in video sono ancora nei campi, altri in teatro: qui, tra gli spettatori, raccontano e ballano, suonano e fanno ballare, mescolando le dimensioni. Si compie, così, la magia del teatro. Sebbene il film sia del 2019 il racconto scorre e straripa nel presente, radicalizzandosi tra noi, e il cinema è portato dentro lo spazio teatrale. Siamo tutti Odisseo e incontriamo tutti un testo che lavora sulla memoria senza retorica e con accenti di verità che arrivano al cuore. Ascoltiamo le storie dei rifugiati, penetrando nel loro stato di mancanza lancinante per le proprie radici, nel desiderio di tornare alla propria terra, nei segni della vita che hanno condotto e che hanno impressi addosso. Siamo dentro a una riflessione politica ed è impossibile uscire dalla sala senza la percezione che il nostro immaginario teatrale ed emotivo sia stato sollecitato e stimolato. 

La regista, infine, chiude il cerchio: l’esistenza della sua Itaca, l’Amazzonia, è pericolosamente compromessa. La dimora atavica di tantissimi popoli custodi che lottano strenuamente per la difesa dei loro diritti ambientali minacciati e della loro spiritualità è a rischio estinzione. Il video non si ferma e Christiane Jatahy è seduta in mezzo a loro, tra gli indigeni che non vogliono rinunciare alla propria identità e con cui condivide la potenza della relazione con i luoghi; mentre noi, il pubblico, siamo invitati a battere con due dita di una mano il polso dell’altra, divenendo gocce che scrosciano sull’acqua del Rio delle Amazzoni che scorre maestoso e calmo sullo schermo. In questo stato di trance il buio inghiotte la scena e, mentre gli applausi esplodono, siamo grati al teatro: arte nello spazio e nel tempo, permette infatti di domandarci se Itaca è a dieci anni da qui, dieci minuti o dieci secondi, bloccati come siamo in questo presente infinito?”.

THE LINGERING NOW

di Christiane Jatahy                                                                                                     tratto da Odissea di Omero
regia Christiane Jatahy                                                                                                 scene e luci Thomas Walgrave                                                                                     direttore della fotografia Paulo Camacho
musica Domenico Lancelotti, Vitor Araujo
design sonoro Alex Fostier
missaggio (film) Breno Furtado, Pedro Vituri
direttore di scena e operatore video Stefano Serra
tecnico di palco Dimitri Wauters
elettricisti Isabel Scheck, Juan Borrego                                                                          fonici David Defour, Jeison Pardo Rojas
coordinamento della compagnia Henrique Mariano                                                          montaggio Christiane Jatahy, Paulo Camacho                                                              produzione Théâtre National Wallonie-Bruxelles, SESC São Paulo
co-produzione Ruhrtriennale, Comédie de Genève, Odéon-Théâtre de l’Europe, Teatro Municipal São Luiz, Festival d’Avignon, Le Maillon-Théâtre de Strasbourg – Scène européenne, Riksteatern, Temporada Alta       

Biennale Teatro, Venezia                                                                                              25-26 giugno 2022