ELENA SCOLARI | Gli abissi dell’oceano sono magnetici come una calamita che attira le domande, i dubbi, le paure e il desiderio di conoscenza. Tanti sono gli scrittori che di oceani hanno scritto, da Conrad a Lovecraft, da Stevenson a Hemingway (quando non annegava nei Cuba libre), fino all’insuperato Herman Melville. I flutti, i gorghi e le oscurità hanno ispirato pagine di mistero, fitte di pericoli e di sfide. Minacce nascoste, a volte invisibili ma letali, oppure lotte acerrime tra l’uomo e la furia della natura. Il regista cinematografico Werner Herzog diceva «Cosa sarebbe un oceano senza un mostro nascosto nell’oscurità? Sarebbe come dormire senza sognare».
L’incubo del Capitano Achab è la maledetta balena bianca che gli mozzò una gamba e alla quale vuole rendere la pariglia, fosse l’ultima cosa che fa. Moby Dick, in fondo, fa il suo dovere di animale braccato, ma nella magnifica penna di Melville il capodoglio è il simbolo di tutto ciò che si insegue nella vita, anche quando significa tirar fuori il peggio di sé e trascinare un’intera ciurma nella tetra corrente della propria vendetta personale.
Achab sacrifica la propria vita nell’inseguimento del gigante bianco, sapendo che questo vorrà dire essere inghiottito in un cruento duello mortale, fregandosene della sorte di un equipaggio stregato dal suo cupio dissolvi perché l’unica cosa che importi è annientare la causa della propria menomazione. Con la gamba Achab ha perso anche il senno, finito non sulla luna ma sul fondo del mare.
La cupezza delle tenebre è la cifra estetica scelta da Teatro delle Albe/Ravenna Teatro per Siamo tutti cannibali – Sinfonia per l’abisso, programmato nel cartellone del bel festival Da vicino nessuno è normale, organizzato da Olinda presso il Teatro La Cucina nell’area dell’ex Ospedale Psichiatrico Paolo Pini di Milano. In scena tre pannelli verticali di metallo, superfici scabre incise da geroglifici graffiati (opera di Bacco Artolini) e rotte da fessure, come i fianchi di una nave consumati dall’amarezza.
Lo spettacolo è composto da un disegno luci raffinatissimo e carico di effetti allusivi e inquietanti (non si evince l’autore dai crediti, n.d.r.), un impianto sonoro complesso e tangibile per spessore, costruito dalle dita di Giacomo Piermatti, superbo contrabbassista in consonanza con il regista del suono Andrea Veneri, il musicista suona e il fonico crea elaborazioni basate su effetti di ritardo e sovrapposizione del suono che illudono di stare a bordo del Pequod, con i suoi scricchiolii, schianti, cigolii e sibili tanto sinistri quanto roboanti.
Roberto Magnani, interprete ispirato e in equilibrio sospeso sulla cresta di una storia fosca, indossa un lungo cappottone scuro, sufficiente a dargli l’aria del marinaio consumato, e modula la sua voce tra la freschezza del giovane Ismaele, unico testimone sopravvissuto per raccontare questa straordinaria avventura marina, e il tono grave e rabbioso del capitano, perennemente concentrato sulla sua missione assassina.
Con una sineddoche semplice (pochi gesti significativi sono più forti dell’affastellarsi di segni) ci inizia alle onde dell’oceano agitando l’acqua in un bacile di rame, nel buio, illuminato fiocamente di blu, nei panni dell’astioso Achab che presenta se stesso come coincidente alla folle energia ferina che lo muove. Ismaele poi presenta – per sommi capi, trascurando purtroppo Pip il piccolo matto – i principali membri dell’equipaggio; i tre ufficiali: il perspicace Starbuck, lo spensierato Stubb e il rozzo Flask, e i tre esperti fiocinatori Tashtego, Daggoo e Quiqueg, ombroso e selvaggio.
Moby Dick è un romanzo monstrum di ottocento pagine, il testo dello spettacolo (tratto dalla storica traduzione di Cesare Pavese) è una riduzione che in meno di un’ora accompagna all’epilogo, dando senz’altro l’odore salmastro della storia ma operando alcune scelte (e tagli) drammaturgiche non sempre funzionali. La prolusione del cuoco bestemmiatore (sì, sì, bestemmie esplicite) che rimprovera i compagni per le lamentele sul giusto punto di cottura della bistecca di balena è lunga, a discapito – per esempio – della descrizione della sanguinosa battaglia finale che risulta un poco affrettata, non nel ritmo ma nella durata. Sì, perché quello che, anche in un’ottima trasposizione come è questa Sinfonia per l’abisso, manca rispetto alla lettura è il senso del tempo, la lunghissima attesa che Achab e i suoi vivono per mesi e mesi, a bordo della baleniera-mondo Pequod, mentre danno una caccia ostinata e cieca al fantasma Moby Dick. La sensazione di noia ansiosa e di una ricerca vuota riempita da presentimenti e operazioni navali si ha solo tra le pagine dell’opera di Melville e lì va cercata.
Questo lavoro (frutto di una residenza artistica di Masque Teatro) non sceglie di puntare sulla coralità di una nave popolata bensì sulla disperata solitudine di un uomo la cui vita è ormai rischiarata solo da poche lanterne; l’isolamento di Achab/Magnani dialoga in scena in accordo con le note del contrabbasso, creando un dialogo a due come se il protagonista stesse già parlando solo con il mare. Il turbinio di quei suoni è quello che fa beccheggiare e rollare furiosamente il Pequod e tutte le anime che ci stanno sopra. Ma Melville ci ha fatto capire che anche a terra le acque possono agitarsi.
Siamo tutti cannibali allude forse al titolo del saggio di Claude Lévi-Strauss in cui si sostiene la malattia dei tempi moderni in cui tutto è commisurato soltanto alle proprie abitudini (il che fa ritenere barbaro tutto ciò che ne esula), così come Achab centra tutto il suo mondo e quello dei malcapitati che lo seguono intorno alla sua ossessione, unico slancio mortifero di una vita dannata.
Con tutta la nobile malinconia di una battaglia persa, che si deve combattere per essere uomini.
SIAMO TUTTI CANNIBALI
Sinfonia per l’abisso
da Moby Dick di Herman Melville
con Roberto Magnani
musiche originali dal vivo Giacomo Piermatti (contrabbasso)
regia del suono Andrea Veneri
residenza artistica Masque Teatro
produzione Teatro delle Albe/Ravenna Teatro