SUSANNA PIETROSANTI | «Cancellare la realtà che mi pervade per crearne una nuova, che non ricorda le sue origini. Uno spazio non misurabile che appartiene alla natura ideale e trascendente dell’uomo. Questa fenditura del reale è l’esistenza di un altro modo e di altre possibilità.»
La voce in registrato riempie la vasca bianca del cortile del Carcere di Volterra, completamente tappezzata da quadretti neri che la rendono una pagina di quaderno di scuola su cui un nuovo mondo viene tracciato. Sarà un tappeto di parole/musica che abiterà tutto lo spettacolo, mentre lo strumento, il sensore e il trasmettitore di questo nuovo universo sarà Armando Punzo, che si muove in abiti neri evocando simboli, immagini e quadri che chi ha seguito la saga di Lui e del Bambino da Dopo la tempesta a oggi riconosce, e sa ricollocare in questa Valle della permanenza come nel proprio luogo deputato. L’ars combinatoria di Punzo diventa in questo ultimo capitolo tanto rarefatta da essere insieme incisiva e impercettibile. Le varianti sono spesso minime: una Desdemona arrivata qui dal ripensamento su Shakespeare è avvolta in un mantello/rete inaudito; l’Armata si riduce ai minimi termini e sbiadisce fin quasi al bianco puro; i performer che trasportano sulle spalle le strutture di legno insieme carlinga e prigione sono triplicati; altri colori, il giallo, il blu vivo, invadono la trinità nero/bianco/rosso in spruzzi inattesi nell’ultima scena.
Con raffinata alternanza, i nuclei simbolici su cui si giocava di più negli altri capitoli vengono alleggeriti e sintetizzati, eppure sono presenti, indimenticabili. Gli elementi eterogenei cercano un’armonia omogenea, e, volendo, tutto lo spettacolo potrebbe essere letto come una parabola di quanto sia invincibile e feconda la regola infallibile dell’irregolare.
I movimenti, come sempre seducenti, le micro scene e le apparizioni, la musica che pompa densa nelle vene o si rarefà eterea e impercettibile, tutto può essere, forse, ripetitivo. Lo abbiamo già visto, lo conoscevamo. Chi potrebbe dimenticare i costumi inimitabili, o le colate di rosso sul bianco gessoso, divina purezza e orrore? Eppure la ripetizione ha un senso. Non è mai uguale a se stessa e illumina il laboratorio creativo di un artista che in lunghe tappe ha gestito un cammino epico e fantasioso indimenticabile. Siamo forse a un punto di svolta – i terremoti sono necessari, asserisce Eugenio Barba – ma il viaggio è stato innegabilmente significativo.
Le scene, i simboli, i quadri, le figure, le epifanie si muovono corporee nella vasca bianca di luce – sfiorate, attivate, dominate dal demiurgo che le muove e le gestisce evocando un nuovo mondo, nuove qualità, nuove sfaccettature per nuovi cambiamenti.
Sarebbe impossibile strutturare una drammaturgia, a meno di non voler intravedere le tracce impalpabili della teoria narratologica di Borges. Quattro sono le storie, scrive il grande poeta che ha abitato Beatitudo, ed una è la storia di una guerra, di un assedio, dove gli eroi sanno che devono morire (Achille viene evocato qui dal suo grido e dall’elmo vuoto, l’Armata sbandiera trofei di kimoni splendenti e di minuscoli sosia -burattini). La seconda è la storia di un viaggio, e non abbiamo forse viaggiato? Dal mondo conchiuso di Shakespeare (non a caso qui i tre personaggi che lo evocano si scambiano un globo grigio nella gabbia prigione, streghe stonate o Parche che non decidono mai il taglio del filo, o poveri re di cenere, chissà), fino a nuovi universi, templi invasi dall’acqua e Minotauri decapitati e sempre viventi, e sfere, e uova, e libri.
La terza storia è una ricerca, e non a caso viene espressamente citato nel tappeto sonoro che ci conduce il Verbo degli Uccelli che traversano monti e mari verso la visione del Simurg, modello indimenticabile del grande viaggio che la Compagnia gestisce da anni. La quarta storia è il sacrificio di un dio.
Quattro sono le storie. Per tutto il tempo che ci rimane, continueremo a narrarle, trasformarle. Questo grande episodio di teatro le riproduce, le moltiplica, le intreccia. Quattro sono le storie ma sono semi, in grado di far nascere un albero di segni che si estende infinitamente sotto terra, verso il cielo.
E nelle mani brucianti di Armando Punzo e della Compagnia della Fortezza le storie si spogliano di tutto, parole, drammaturgia, legame, per dar luogo a un arcipelago di evocazioni al calor bianco dove solo ciò che è parla e impressiona per il suo proprio valore epifanico, non per altri espedienti. Isole incandescenti su un mare di parole che diventano musica, icone che si illuminano su una tastiera, i momenti di questo spettacolo raccontano una storia che è tutte le altre e che non ha bisogno di legami di nessun tipo eccetto quelli, indubitabili, dell’evocazione e dell’emozione.
NATURAE / La valle della permanenza
Compagnia della Fortezza
Carte Blanche – Centro Nazionale Teatro e Carcere
Regia e drammaturgia Armando Punzo
Musiche originali e sound design Andreino Salvadori
Scene Alessandro Marzetti, Armando Punzo
Costumi Emanuela dell’Aglio
Direzione organizzativa Cinzia De Felice