SUSANNA PIETROSANTI | Il teatro, lo afferma Antonio Rezza nel suo nuovo spettacolo Hybris – che vede finalmente la luce al Festival dei Due Mondi – Spoleto, dopo anni di intralci di varia natura – è una soglia. Una porta. La performance si scandisce proprio intorno a una porta, pesante, rumorosa, con la quale Rezza interagisce costantemente. Lo spettacolo è la porta. Antonio Rezza la apre, la sbatte, la chiude, rende magicamente visibile il grande simbolo che ha motivato questo nuovo habitat: il limite. Di qua e di là della porta c’è un limite, il nostro coraggio o la nostra tracotanza stanno nel varcarlo.
Chiusa, la porta è protezione ferrea, esclusione, barriera, lo abbiamo imparato negli anni della pandemia. Ma quando una porta si chiude si può riaprirla, perché di solito è così che funzionano le porte. E Antonio Rezza è il motore dell’apertura e della chiusura, il maestro delle chiavi, tutto si sprigiona da lui, centrifugandosi in mille rivoli, e tutto gli ritorna, in un loop che, di nuovo, permette di valutare quanto valore teatrale abbia la ripetizione, quella tecnica che già Jan Fabre definiva la più raffinata forma di variatio.
Nella sequenza in cui due famiglie si presentano, il gesto di stringersi la mano si ripete uguale e sempre diverso, aumentando sempre più il tentativo affannoso di non perdere il ritmo, di difendersi dall’aggrovigliamento dei fili drammaturgici e narrativi, fino a toccare un vertice di comicità turbinosa e crudele, tipicamente alla Rezza.
Sono presenti tutte le sue caratteristiche ricorrenti: le situazioni perturbanti, insistenti, reiterate, assillanti, la tensione crudele che sarebbe piaciuta ad Artaud, il patto narrativo che fa sì che il pubblico si abbandoni senza credere perché di credere, no, non c’è bisogno, e il linguaggio così perfettamente elevato, letterario, educato e insieme surreale, rapace e capace di svolte illuminanti: “grazie di desistere”, ed ecco, la pseudoetimologia significa tutto. Si susseguono, per tutto il corso dello spettacolo, citazioni da un saggio di Matteo Marchesini su Ermanno Cavazzoni, poeta della luna e dei folli che ispirò Fellini. La linea di collegamenti che le citazioni offrono è sottile ma significativa.
In un testo che si snoda fra il suono della porta che, piano, diventa colpo, sparo, fucilata e i lunghi monologhi del protagonista, fluviali, variabili, taglienti e sfuggenti, questo secondo discorso che piano fluisce sembra offrire un filo ulteriore alla comprensione, all’interpretazione. Le porte si aprono e si chiudono, il tempo fluisce, noi cambiamo, come i lunatici protagonisti del poema di Cavazzoni: e tutto segretamente ha un senso, o molti.
E c’è una vera e propria hybris, una tracotanza divina, nell’audacia di questa porta che con coraggio chiudiamo, proteggendoci dagli altri e proteggendoli da quel noi che per loro è l’altro, e che con coraggio ancora più devastante riapriamo, lanciandoci in avventure mirabolanti e rovinose. La drammaturgia, naturalmente, è frammentaria: se un filo c’è, è un filo che conosce mille nuovi nodi. Accidenti e peripezie ci portano in un viaggio senza indirizzo, ma scena per scena comprendiamo che, silenziosamente, un senso c’è. La scena è vuota, eccetto per la porta, trasportata, rimossa, aperta e richiusa centinaia di volte. La porta è anche una soglia, certo, perchè l’essere è sempre connesso con il tempo, con il prima e il dopo, con l’istante in cui abbiamo aperto e l’istante in cui abbiamo chiuso, e smesso di vedere quello che, aprendo, avevamo intravisto.
Cosa nasconde la porta? La porta metal detector, che ci impone di spogliarci di noi, e di tutto ciò che ci contraddistingue, la porta trappola, la porta limite? La verità è per i coraggiosi: anche la nudità. Non a caso tutti i colpevoli di hybris, nel mito greco, hanno scritto le pagine più scintillanti dell’epos e della tragedia, e anche la geografia dei cieli stellati, dove la metamorfosi li ha poi scolpiti per sempre. Forse l’arte non può esimersi dalla hybris, forse senza questo slancio imprudente e privo di cautela e di calcolo verso un oltre infinito niente di significativo potrà mai essere creato. Lo spendersi insieme scettico e pieno di pathos di questo grande artista sembra veramente asserirlo.
Mille porte e mille soglie anche in History of Violence di Thomas Ostermeier. La storia è molteplice, stratificata, complessa. La drammaturgia la fa attorcigliare su se stessa come una chiocciola. Il nervo centrale potrebbe riassumersi sinteticamente: la storia di uno stupro. Il protagonista, Edouard Louis, nella notte di Natale, di ritorno all’alba da una festa tra amici, incontra un giovane arabo affascinante, Reda. Tra attrazione e paura, Edouard decide di aprire uno spiraglio, una porta fisica e una emotiva: lo fa salire, assistiamo al contatto, all’apertura, all’attrazione, all’amore. Ma una macchia nera sporca tutto: mentre Edouard sta facendo la doccia, l’altro fa sparire il suo cellulare. Scoperto il furto, scatta la violenza, l’aggressione, l’abuso.
Questa la fabula, ma non la resa drammaturgica. Sappiamo ciò che è avvenuto solo quasi alla fine. La drammaturgia disprezza la linearità e si concentra in un montaggio quasi cinematografico, sussultorio come i colpi di batteria che il musicista in scena usa per fornirci cesure alle parole e alle emozioni. I sussulti sono ambigui, perché distorcono, stornano, alterano ciò che la scena precedente ci aveva fatto credere fosse la verità – che non esiste.
Il protagonista racconta e il suo racconto fluisce e riecheggia, medici e polizia lo ascoltano e lo riferiscono, e la realtà diventa un cannocchiale di porte che si aprono e si chiudono, nella fuga prospettica delle quali non riusciamo a vedere. Veniamo allontanati dal nucleo attraverso episodi centrifughi che ci tengono limitrofi ma all’esterno: la paura di aver contratto l’AIDS e la conseguente corsa in ospedale, la denuncia, il riferimento molteplice di ciò che è avvenuto, come in una specie di tam tam che riporta ma distorce, conserva ma fa smarrire il filo reale degli avvenimenti.
La realtà non è quello che si racconta. Neppure quello che si vede, neppure il suo presente, perché tutta la prima parte dell’opera è costituita da inserti video che provano a ricreare la vita precedente di Edouard, il suo passato, il suo mondo.
L’intensità aumenta febbrilmente alla fine e non solo perché la violenza fa aumentare i gradi della passionalità, ma proprio per la radice misteriosa da cui scaturisce. L’accusa di furto potrebbe realisticamente determinare lo sbottare di una furia così agghiacciante? In un aggrovigliarsi di radici profonde, in realtà la violenza sembra essere visualizzata come l’unico modo in cui riusciamo a porci autenticamente in contatto. Vittime tutti in modo diverso (Edouard discriminato da sempre come gay, Reda ‘maghrebino’, come lo definisce sprezzantemente il poliziotto), ogni nostro incontro è un conflitto. La violenza non ha storia, la costituisce. Le radici della nostra storia sono violenza, come ogni incontro è uno scontro a coltello.
Definire questo un teatro politico, brechtianamente politico, sarebbe insieme esatto e riduttivo. La discesa nelle viscere è dolorosa e disgustosa, ma irrinunciabile. E se non possiamo rinunciare, ben venga nell’artista la calviniana ‘mano sicura’, in grado di dirigere uno spettacolo controverso, irregolare, talvolta ridondante, ma capace di farsi chiamare, spesso, con il nome assoluto dell’efficacia, della caritas e della poesia.
HYBRIS
di Rezza Mastrella
con Antonio Rezza
e con Ivan Bellavista, Manolo Muoio, Chiara Perrini, Enzo di Norscia, Antonella Rizzo, Daniele Cavaioli
produzione RezzaMastrella e La Fabbrica dell’Attore – Teatro Vascello
coproduzione Spoleto Festival dei Due Mondi e Teatro di Sardegna
THE HISTORY OF VIOLENCE
tratto dal libro di Edouard Louis nella versione di Thomas Ostermeyer, Florian Borchmeyer, Edouard Louis
regia Thomas Ostermeier
scene e costumi Nina Wetzel
musica Nils Ostendorf
video Sebastien Dupouey
Con Christoph Gawenda, Laurenz Laufenberg, Renato Schuch, Jenny Konig
musicista Thomas Witte
produzione Schaubuhne Berlin, Theatre de la Ville Paris, Theatre National Wallonic Bruxelles, e St. Ann’s Warehouse Brooklyn