RENZO FRANCABANDERA | Ci sono circostanze che solo il teatro rende possibili. A volte pare di dire frasi fatte, troppo romantiche per essere credute o credibili, ma fino a quando il mondo non sarà per tutti tristemente proiettato in qualche realtà virtuale definita a priori dagli algoritmi, fino a quando la casualità imprevedibile potrà determinare lo svolgersi imponderabile di un evento dal vivo, fino a quel momento il teatro rappresenterà senza dubbio la più straordinaria approssimazione simbolica della vita umana.
E questo succede ancor più quando questa esperienza non ha luogo nel chiuso dello spazio teatrale, per quanto affascinante sia quella caverna platonica, ma dentro spazi naturali o fra le vie della città, dove gli elementi, con il loro susseguirsi casuale, possono trasformare il rito in circostanza magica.
E lo sapevano bene i Greci che sceglievano, per i loro teatri, luoghi emblematici di dialogo con il paesaggio e la natura. Dovunque ci sia uno spettatore con gli occhi puntati su un elemento fisico che faccia rappresentazione simbolica di sé, in quel momento è ancora possibile qualcosa di imprevedibile, non frutto di combinazioni di calcolo digitale.
Probabilmente quindi invecchiando ancora ricorderò la replica e del 18 agosto 2022 al Passo della Futa de La montagna incantata, la prima parte di uno progetto triennale della compagnia Archivio Zeta, sodalizio artistico nato dall’idea di Enrica Sangiovanni e Gianluca Guidotti.
Dopo aver operato per molti anni proprio su queste montagne al confine fra Toscana ed Emilia-Romagna, i due artisti si sono spostati nel capoluogo emiliano, dove conducono una serie di esperienze legate al teatro come pratica di incontro e confronto con la comunità sociale, intensa in senso molto ampio: dai laboratori presso i reparti oncologici degli ospedali, passando per la riqualificazione della dimora storica di Villa Aldini, in stato di degrado e abbandono e ora adibita a luogo di mostre e di azioni artistiche, e ancora nelle scuole e con giovani artisti professionisti.
Il duo ha sempre scelto come terreno di indagine, come pre-testo creativo, il confronto con i classici, dedicando ai relativi allestimenti, come abbiamo detto già alcuni anni fa, una sperimentazione architettonica, avendo sviluppato una straordinaria capacità di proiettarne la potenza nello spazio, spesse volte esterno al luogo teatro vero e proprio, oppure modificando la geografia dello spazio teatrale per renderlo fungibile ad una lettura capace di ulteriori suggestioni.
Questa stessa cosa avviene tutti gli anni nelle loro spettacolari messe in scena presso il Cimitero germanico al Passo della Futa, luogo già di per sé capace di suggestioni spirituali profonde ma che, abitato dalle loro riscritture, dalla loro capacità di fare paesaggi teatrali, mindscapes drammaturgici, assume una potenza tale da convincere anno dopo anno centinaia e centinaia di persone a arrivare fin quassù per questi eventi, che hanno in sè qualcosa di mistico.
È quello che è successo anche quest’anno per La montagna incantata con una serie di date fra fine luglio e fine agosto che hanno fatto registrare il tutto esaurito: repliche che hanno luogo sempre intorno all’ora del tramonto, dove i giochi di luce, i passaggi delle veloci nuvole estive, possono donare, insieme alle parole e all’azione teatrale, suggestioni indimenticabili a chi prende parte agli eventi. È proprio l’imprevedibilità di questi eventi che negli anni ha segnato la storia della compagnia e la replica del 18 agosto di quest’anno è stata sicuramente un evento indimenticabile.
Il progetto di per sè è pensato per un triennio costellato da due importanti anniversari: nel 2023 infatti la residenza artistica di Archivio Zeta al Cimitero della Futa compirà vent’anni (2003/2023) e nel 2024 si celebrerà il centenario della pubblicazione del romanzo di Thomas Mann (1924/2024). La montagna incantata è uno dei più importanti romanzi tedeschi del ‘900, un’opera in cui dalle angosce fuori dal tempo di un sanatorio d’alta montagna agli inizi del secolo scorso, si precipita nell’abisso di violenze della prima guerra mondiale.
E ritrovarsi ad ambientare queste vicende, con tutto il contorno di fisica e metafisica di cui Mann sostanzia la sua densa scrittura in un luogo come questo, ha senza dubbio una potenza evocatrice istantanea.
Che potesse piovere si sapeva e loro stessi si erano in qualche modo attrezzati per una soluzione che potesse permettere eventualmente di svolgere una parte dello spettacolo al chiuso, dentro uno spazio dell’area cimiteriale che è una sorta di memoriale con nomi e lapidi dedicati alle vittime della guerra.
Un ricovero. Niente di più attinente al tema!
Così, come tutte le altre volte, siamo arrivati all’ingresso dell’area cimiteriale siamo entrati e il biglietto ci è stato vidimato come facevano un tempo i controllori sul treno, con una perforatrice manuale, ed è iniziato così il nostro viaggio, esattamente come quello del protagonista della vicenda, che si reca in treno a trovare un giovane parente in un nosocomio presso una località svizzera.
In realtà la clinica in cui il parente è ricoverato è una sorta di stranissima colonia penale per identità malate, una specie di paradosso kafkiano: non è importante se davvero una qualche colpa o una qualche malattia la si ha già, perché se non la si è avuta, una volta arrivati lì, comunque viene. Improvvisa ma inesorabile. Come una colpa, come una condanna, proprio come ne Il processo di Kafka, opera scritta un decennio prima del romanzo di Mann, ma in realtà pubblicata l’anno dopo, nel 1925. Alla fine ci si inizia a sentire colpevoli, a sentire malati, in uno spazio senza tempo. E ne La montagna incantata il protagonista, che era andato a trovare il cugino, finisce anche lui, suo malgrado per sentirsi malato, per iniziare a misurarsi la temperatura con termometri che in questo spettacolo hanno la forma di lancette d’orologio. Essere e tempo.
Lo spettacolo rappresenta solo cinquecento pagine del libro, la metà più o meno esatta e si articola come sempre in stazioni recitative che nascono dopo gli spostamenti del pubblico nel Cimitero, dialogando con il paesaggio, e dando luogo a momenti che,in dialogo con il panorama, assumono ulteriore atmosfera.
Parlavamo non a caso di Kafka perchè la riscrittura che del testo di Mann hanno fatto Sangiovanni e Guidotti, pur nella fedeltà a Mann, mutua dello scrittore praghese la narrazione (e ancor più la recitazione) spersonalizzante e angosciosa, con i personaggi indicati in modo criptico: si alimentano così contraddizioni, introdotte ad arte per mettere in dubbio qualsiasi punto di riferimento certo per lo spettatore e per trascinarlo in una condizione quasi onirica.
Ma questa aura spettrale e inquietante per noi spettatori della replica in questione ha raggiunto l’apice dopo una ventina di minuti, quando le nubi hanno progressivamente chiuso le colline circostanti, iniziando ad innaffiarle di pioggia e fulmini, mentre il violoncello di Francesco Canfailla suonava, in un silenzio senza più uccelli a solcare il cielo, la partitura non meno evocativa che come sempre negli allestimenti di ArchivioZeta porta la firma di Patrizio Barontini.
Il viaggio di Castorp (ben interpretato da Giacomo Tamburini) non è neanche arrivato alle soglie del nosocomio che la tempesta, quella vera, inizia ad incombere in modo oppressivo. Guardiamo gli attori, guardiamo il cielo, i fulmini che si avvicinano. Gli attori restano concentrati, un gruppo di cento spettatori folli, al bordo della tempesta, restano seduti su un muretto del Cimitero ad assistere a questo attimo surreale di recitazione, diventando parte della follia degli elementi.
Enrico Guidotti con espediente teatrale, recitando la sua parte, porta tutti al chiuso pochissimi istanti, roba di secondi, prima che il cielo abbatta sulla montagna incantata una tempesta perfetta, con colpi d’aria che frustano l’ambiente chiuso, da trincea impaurita nella quale gli spettatori rifugiano, ventre della montagna e del sacrario di pietre.
Come il protagonista dentro un bunker della mente a fissare radiografie, a capire quale male ammorbi l’umanità.
Sono fragilissimi questi spettatori, mentre la natura si scatena con violenza inaudita e la compagnia, dopo qualche attimo di organizzazione, riprende la recita come se nulla fosse, mentre fuori accade il finimondo. Lo spettacolo diventa a quel punto una continua relazione soggettiva e di gruppo fra il dentro e il fuori, a tratti ancor più surreale del clima del romanzo, mentre Diana Dardi dà vita alle maschere della Signorina Engelhart o della Superiora Von Mylendonk, il trio di giovani ma bravi interpreti Pouria Jashn Tirgan, Giuseppe Losacco e Andrea Maffetti (scuola Nico Pepe, Udine) fa da contrappunto e da umanità nosocomiale alla figura ieratica dell’umanista italiano Settembrini (Gianluca Guidotti), mentre Enrica Sangiovanni è la femme fatale della vicenda, Madame Chauchat. In scena, come nella miglior tradizione capocomicale, anche i tre figli di Guidotti e Sangiovanni (i maggiori Elio e Antonia, adolescenti, già da anni ben inseriti nei loro spettacoli, cui si aggiunge la piccola Ida, già incredibilmente autonoma in una parte singolare e straniante del protagonista da bambino).
La tecnica è di Andrea Sangiovanni, i costumi di les libellules Studio in collaborazione con Elena Fregni.
La tragica fragilità della vicenda umana portata in scena e andata avanti nella reclusione degli spettatori dentro questo ricovero coatto per due ore circa (invero volate), ha unito in un luogo concreto e allo stesso tempo astratto, assurdo e straniante, noi e gli interpreti.
Eravamo, esattamente come il protagonista, impossibilitati a fuggire, costretti ad un destino comune, ad ammalarci di fragilità, a perdere il senso del tempo per le quasi due ore che avremmo poi passato al chiuso, guardando ora lo spettacolo, ora il fuori furioso, fino allo spiovere, alle nuvole basse che avvolgevano la montagna e hanno fatto da magico fondale all’addio di Madame Chauchat al protagonista, alla fine di questo atto.
Se mai Archivio Zeta avesse pensato a un qualsivoglia effetto di scena, mai nulla sarebbe arrivato alla perfezione assoluta, cronometrica, pensata dalla Natura: per contro va detto che Guidotti e Sangiovanni hanno magicamente orchestrato una regia istante per istante di una replica indimenticabile senza scomporsi e con una professionalità robusta ma mai esibita o sfoggiata, tanto più percepibile quanto più agita con indicazioni date con lo sguardo, con silenziosi movimenti della testa alle spalle degli spettatori, perchè lo spettacolo arrivasse al termine.
Una pausa della furia degli elementi pochi minuti alla fine, con uno squarcio di sole a incorniciare in una finestra di luce il dialogo fra il protagonista e la dama; poi il finale, gli applausi interminabili e l’uscita dal Cimitero, nel buio del cielo oscuro.
Poi di nuovo la tempesta furibonda ad accompagnare gli spettatori in auto sulla via di casa, mentre tornavano alla mente i personaggi grotteschi, protagonisti nel finale della creazione, quasi emersi da visioni dovute all’impulso di una qualche droga ancora liberamente usata nel secolo scorso: costumi surreali, quasi oggetti di design, indossati dai giovani protagonisti della rappresentazione in una sorta di danza macabra, dove identità e tempo collassano in un buco nero dell’esperienza. E tutto finisce.
LA MONTAGNA INCANTATA | prima parte
liberamente tratto dal romanzo di Thomas Mann
drammaturgia e regia Gianluca Guidotti e Enrica Sangiovanni
partitura musicale Patrizio Barontini
con
Diana Dardi – Signorina Engelhart, Superiora Von Mylendonk
Gianluca Guidotti – Settembrini
Pouria Jashn Tirgan – Joachim Ziemssen
Giuseppe Losacco – dott. Krokowski
Andrea Maffetti – consigliere aulico Behrens
Enrica Sangiovanni – Madame Chauchat, Pribislav Hippe, Tous-les-deux
Giacomo Tamburini – Hans Castorp
Antonia Guidotti – Hermine Kleefeld (Associazione polmone unico), infermiera
Elio Guidotti – Rasmussen (Associazione polmone unico), portiere del Berghof
Ida Guidotti – giovane Hans Castorp
Francesco Canfailla – violoncello, orchestra del Berghof
costumi les libellules Studio in collaborazione con Elena Fregni
tecnica Andrea Sangiovanni
cura delle relazioni Rosalba Ruggeri
foto di scena Franco Guardascione