RENZO FRANCABANDERA | Un piccolo bar vicino a Piazza della Libertà, prestissimo. mi dà appuntamento prestissimo, Roberto Casarotto, alla direzione artistica di B.Motion Danza a Bassano del Grappa anche per l’edizione 2022, perchè poi ha riunioni, incontri con i team internazionali di artisti e operatori venuti qui numerosissimi anche quest’anno da mezzo mondo.
È una vera colazione, un vero caffè di prima mattina, quindi, quello che prendiamo.
Lui ha una giacca blu a disegno coreano: ha una vezzosa abbottonatura del bavero al collo con un alamaro, sul lato sinistro.
Gli avevo chiesto un dialogo avendo frequentato la rassegna negli ultimi anni, sempre colpito dal bellissimo clima internazionale, aperto, laboratoriale.
E così parto proprio su questo. E glielo dico.
Vengo sempre volentieri qui. C’è un bellissimo clima e un modo di vivere l’esperienza festival immersiva, fatta di dialoghi e confronti internazionali, prima ancora che di performance, spettacoli. Sembra davvero di entrare in un laboratorio, dove si pensa e si progetta già il futuro. È un modo invero un po’ raro di intendere lo spazio del festival, rispetto a quello che si vede in giro.
Quello che va considerato in questi casi è tutto ciò che si intende per lavoro di un festival, che non riguarda solo quello che succede a ridosso o durante il festival stesso, ma anche durante il resto dell’anno. È quello, prima di tutto, che ha bisogno di essere creato, condiviso, programmato.
In ottica di medio lungo termine, questo significa proprio programmare, perché permette, su un orizzonte temporale non di una singola edizione ma, diciamo, di …cinque, di piantare un seme oggi per raccogliere un frutto, ad esempio, nel 2027.
E allora cosa stai piantando in questi giorni? Il 2027 arriva in fretta…
Eh, la cosa è un po’ diversa… Sono i miei ultimissimi giorni di lavoro qui. Dal mese di settembre non programmerò più danza e cambierò lavoro. Con Elisabetta Bizzarro divento coordinatore di Aerowaves, un network europeo di promozione di artisti della danza a livello europeo. È una decisione che abbiamo preso insieme ad aprile scorso ed è stata poi confermata il 26 aprile. Ho subito comunicato la cosa qui e mi è stato proposto di continuare comunque a seguire la progettualità europea almeno fino al 2025 (qui il report presentato a Bassano del progetto Empowering Dance – The Soft Skills Teaching and Learning Approach per il triennio 2020/23 – ndr), ma non programmerò danza per evidente conflitto di interesse con l’impegno in questo network di 44 partner provenienti da 33 paesi dell’Europa geografica sostenuto dall’Unione Europea in modo importante con un finanziamento dedicato. Eticamente non vorrei mai trovarmi nella condizione di avere in programmazione un lavoro a Bassano tra quelli selezionati dal network perché sono io a deciderlo. Non si fa. E per questo faccio un passo indietro. E poi penso sia anche sano che dopo dei cicli arrivino altre persone con nuovi saperi, o che li costruiscano. Per quanto riguarda il mio nuovo lavoro, anche se la realtà giuridica è basata a Dublino, penso di rimanere in Italia, anche perché più che creare un network di per se stesso, si tratta come quasi sempre accade di creare innanzitutto un’ecologia, momenti di costruzione di pensiero, sui temi dell’equità, dell’ambiente e del rapporto con il mondo dei non professionisti, tutte cose che ho avuto il privilegio di sperimentare qua e che ora porterò a livello europeo.
Ma qui a volte si ha l’impressione quasi che gli spettacoli non siano il vero focus della programmazione e del progetto di B.Motion Danza.
Sì, in fondo alla fine non è nemmeno questione dello spettacolo che si programma. In questi giorni se fossi andato nella palestra Brocchi avresti trovato un centinaio di persone, molte fra loro comuni cittadini, accolti in una pratica di danza aperta all’esperienza di tutti ieri è arrivata anche una madre musulmana Con un figlio con alcune particolarità e le si sono riempiti gli occhi di lacrime a vedere realizzato il sogno del figlio che voleva danzare. Oppure tutte le persone che alla fine dello spettacolo allungo hanno circondato Daniel Mariblanca che è rimasto per oltre un’ora dopo la fine dello spettacolo a parlare con spettatori, artisti presenti, danzatori provenienti da accademie italiane e incuriositi Dal suo lavoro.ecco, per me il festival è quella cosa lì: la condivisione di cose, l’empatia, le domande. Da questo punto di vista si capisce che persino programmare un dialogo prima o dopo uno spettacolo, o considerare lo spazio di spostamento fra un teatro e l’altro, è qualcosa che dal mio punto di vista non va lasciato al caso, Permettendo sempre comunque a tutti di sentirsi accolti, senza che si abbia la sensazione di un’esperienza riservata a un gruppo di esperti.
A volte le comunità artistiche tendono a costituire piccoli gruppi e linguaggi troppo specifici, e forse negli ultimi anni la piccola comunità delle arti sceniche si è chiusa molto su se stessa, perdendo a volte il contatto con la società.
Sono d’accordo. È sempre importante tenere d’occhio il modo in cui ci esprimiamo, il nostro linguaggio. Il mio pensiero è sempre focalizzato su come tener vivo il rapporto con alcuni gruppi di persone anche quando il festival è terminato. Questa secondo me è la più grande responsabilità dell’operatore, che nel mio caso viene condivisa anche con tutti gli artisti, in modo che avvertano la responsabilità di qualcosa che non si apre e si chiude nel lasso di tempo dell’esperienza spettacolare nel festival.
In questo modo si creano occasioni per nutrire e generare, far sì che alcune popolazioni vivano esperienze che le portino poi a non voler più tornare indietro, esperienze generative e trasformative, processi multilayer, per dirla con una parola inglese, multistrato, con obiettivi ulteriori che spesso non vengono nemmeno esplicitati, che non mi piace dichiarare.
Come nasce allora la programmazione di un tuo festival? Come scegli gli spettacoli in questa logica di stimoli nascosti?
Molto spesso mi baso più su delle intuizioni che su dei razionali processi di pensiero. C’è un grandissimo livello di dialogo con gli artisti e con le comunità, e questo contribuisce a creare un grande livello di fiducia. Ci sono sempre, nei miei festival, finanche cose che non ho visto, mi piace averne almeno una che scopro anche io la sera stessa, insieme agli spettatori. Ovviamente c’è una conoscenza di questi artisti, magari c’è la condivisione per un anno del processo creativo. Sono intuizioni ma non parliamo di suggestioni da rabdomanti; piuttosto di sensazioni che forse mi nascono anche dall’aver lavorato nel mondo della danza, e quindi di riuscire a cogliere poi alcuni segnali specifici, particolari.
Pensi che la danza abbia a che fare con sensazioni speciali, ulteriori?
Con la danza si attivano aree e connessioni con il proprio corpo e il sistema delle sensazioni, si colgono cambiamenti di ciò che ci sta attorno, anche quelli nelle comunità, sociali, politici, prima che con ogni altro linguaggio. È straordinario vedere come alcuni segni contenuti in spettacoli di 3-4 anni fa, anticipino le questioni presenti nella nostra società, e mi interessa lavorare senz’altro con artisti orientati a sviluppare il proprio percorso professionale ma che siano anche aperti ad accogliere il confronto con tutto il mondo dei non professionisti, dei semplici cittadini.
Visto che però ora lasci questa funzione qui a Bassano, cosa pensi di aver costruito in questi anni? Quale tragitto pensi di aver compiuto dentro questa comunità e che testimone passi a chi verrà?
Premetto di aver da subito voluto lavorare per attivare in questa regione una conoscenza della danza contemporanea, che c’era, c’è, ma che fosse aperta al dialogo col mondo. Ho cercato di lavorare con dei principi etici e dei valori condivisi in modo da lavorare simultaneamente per dei pubblici, degli artisti e dei cittadini. Ho lavorato per generare un coinvolgimento attivo che portasse tutti a incorporare l’esperienza della danza, e a vedere come la pratica della danza cambi la vita, porti le persone a diventare consapevoli del loro corpo, e quando parlo di corpo non intendo solo corpo fisico.
L’ho fatto in una città che a tutt’oggi non ha ancora degli spazi specificamente dedicati alla danza, cosa per la quale mi sono anche molto battuto. In questi anni ho lavorato, spesso in maniera anche molto creativa per trasformare alcuni spazi in modo tale che fossero adatti ad accogliere la pratica della danza e questo è stato un modo per trasformare i limiti in opportunità, senza per forza creare un luogo deputato al linguaggio che poi corresse il rischio di non essere molto permeabile. Penso di aver contribuito a far entrare Bassano in una mappa internazionale dei luoghi della danza.
È anche il filo che lega programmazione, territori e linguaggi?
Penso di aver aiutato a costruire delle competenze sia negli artisti del territorio che in quelli nazionali, ho lavorato a diffondere questo sapere anche sul territorio e a livello nazionale, anche se temo di non esserci riuscito quanto avrei voluto, mentre sono sicuro di essere riuscito a farlo a livello internazionale, a livello europeo, in una logica generativa. Quando viene finanziato un progetto triennale, per me parte già il pensiero a quello che potrà essere dopo, a costruire su quello che potrà derivare dall’esperienza di questi primi tre anni, per infondere il valore delle relazioni e della sostenibilità nel lungo tempo, per dare spazio anche alla ricerca, al fallimento, al non voler valutare subito il risultato, cercando piuttosto di costruire un linguaggio comune specifico della danza, una stessa lingua parlata da operatori, pubblico, critici, perché si parte da ciascuno dalla propria e spesso nell’incontrarsi non è facile capirsi. Sono molto per la costruzione di glossari polifonici, per dar modo ai cittadini e a coloro che inglobano l’esperienza di dare parola “a quella cosa lì”.
Ci sono stati anche dei fallimenti, ovviamente, anche se ora non voglio parlarne; ma ho la sensazione che in qualche modo discendano, all’opposto, dall’abuso di parole, cosa che a volte paradossalmente non permette di comprendersi.