RENZO FRANCABANDERA | Da mercoledì 7 a domenica 11 settembre a Bologna va in scena la ventiseiesima edizione di Danza Urbana, il festival che fa dialogare la danza con gli spazi della città, fra luoghi storici, ambienti metropolitani e periferie.
Nato nel 1997 da un’idea di Massimo Carosi e Luca Nava (rispettivamente Direttore Artistico e Direttore Organizzativo della manifestazione), insieme a un gruppo di studenti del corso di Storia della Danza di Eugenia Casini Ropa al DAMS di Bologna, Danza Urbana è stato il primo festival in Italia con questo specifico focus e lavora lungo tutto l’anno per la selezione e il sostegno degli artisti ma anche per il recupero e la valorizzazione degli spazi cittadini, nell’ottica di una riconciliazione con i luoghi, della libertà della fruizione dello spazio pubblico e delle performance.
Fra piazze, cortili privati, palazzi storici e quartieri più periferici, , l’edizione 2022 conterà 14 appuntamenti con 18 fra artisti e compagnie al lavoro in 10 location urbane: tra i protagonisti Virgilio Sieni, Fabian Thomé, Gil Kerer, Irene Russolillo, Masako Matsushita, Alessandra Ferreri, Matteo Sedda, Joshua Vanhaverbeke, Luna Cenere, insieme ai lavori degli artisti selezionati da Danza Urbana (Pablo Girolami, Lorenzo Morandini, Elisa Sbaragli, Silvia Dezulian e Filippo Porro) all’interno del progetto Dancescapes con l’assegnazione di borse di mobilità internazionali a supporto della creazione di reti europee di programmazione negli spazi non teatrali.
Abbiamo intervistato Massimo Carosi.
Con quale geografia materiale e immateriale si confronta un festival che vuole occuparsi di danza urbana?
Danza Urbana è un festival di danza nei paesaggi urbani. Il paesaggio è testimonianza della continua negoziazione tra Uomo e Natura. È il disegno che il filo del tempo tesse, legando la trama dei saperi e delle attività di una comunità all’ordito dei luoghi geografici che essa abita. È il punto di sintesi tra una geografia materiale e immateriale, nel quale concorrono infiniti elementi: biologici, antropici, climatici, temporali, culturali, affettivi, percettivi. Si sottrae a qualsiasi traduzione cartografica, perché è innanzitutto esperienza soggettiva di un luogo.
Il paesaggio è, al contempo, creazione collettiva e costante, che ciascuna comunità attua nella creazione del proprio habitat, nella sedimentazione di opere, nell’elaborazione del proprio passato e nella proiezione verso il futuro.
Le riflessioni sul paesaggio in questi ultimi anni hanno avuto un’eco nelle arti performative, dando impulso a nuovi campi di indagine, all’elaborazione di pratiche artistiche e a sperimentazioni di linguaggio.
Il paesaggio interroga, infatti, gli autori della scena sulle possibili forme dell’evento teatrale e delle sue modalità di fruizione. È una parola-chiave che introduce nuovi elementi di grammatica nelle arti sceniche, soprattutto in ambito coreico, in quanto si contrappone al concetto di “spazio”, che tradizionalmente incardina l’atto teatrale dentro il meccanismo della rappresentazione.
Spazio, luogo, paesaggio: vengono spesso usati come sinonimi ma le differenze concettuali sono importanti, anche e soprattutto con riferimento all’arte.
Lo spazio è una costruzione intellettuale che consente di proiettare un luogo dal piano di realtà a una forma astratta, geometrica, misurabile, che ne è la sua rappresentazione.
Il concetto di spazio, così come quello di rappresentazione, confliggono con le pratiche performative che prevedono il coinvolgimento del pubblico nell’esperienza artistica come parte attiva della creazione. Tali pratiche, infatti, obliterano il dualismo soggetto/oggetto e la rigida gerarchia proprie della rappresentazione. Privilegiano il concetto di “luogo” che, al contrario di spazio, identifica un determinato punto geografico e per questo unico e non intercambiabile. Il luogo per esistere necessita di essere esperito, agito e pone l’atto performativo in stretta relazione con il dato di realtà.
Il paesaggio racchiude in sé differenti piani: il sensibile e il razionale, il naturale e il culturale. È una costruzione intellettuale che somma alla percezione del luogo, la sua elaborazione culturale.
Il concetto di paesaggio determina un rilevante cambio di scenario: apre all’elaborazione di nuove forme e modalità di relazione con lo spettatore, con il contesto nel quale si interviene, assumendo i connotati di un progetto politico e culturale radicale.
Un festival di danza urbana opera su questa stratificazione e complessità: l’elemento geografico, il dato di realtà, la percezione soggettiva e collettiva, la dimensione culturale e quella affettiva del luogo.
Come è stato costruito il programma di quest’anno e quali sono le determinanti artistiche e di pensiero che l’hanno alimentato?
Questa è un’edizione nella quale poniamo particolare attenzione alle autrici e agli autori giovani ed emergenti e alle loro proposte artistiche, che si confrontano con lo spazio pubblico o il paesaggio in modo consapevole e coerente. Le opere programmate sono per lo più esperienze in contesto, nelle quali si ricerca una relazione dialogica e orizzontale con il pubblico e con i luoghi.
Alcuni artisti hanno elaborato creazioni attente all’impatto sull’Ambiente, nella consapevolezza e nell’urgenza della crisi climatica, riducendo al massimo o azzerando gli allestimenti tecnici, privilegiando la luce del giorno e ricercando anche in fase di produzione una maggiore sostenibilità ambientale.
Attraverso spettacoli, performance, creazioni in fieri, dialoghi e testimonianze si vogliono indagare le pratiche artistiche e la varietà di formati, poetiche e estetiche, che questo ambito della ricerca coreografica sta sviluppando.
Nel programma, pur focalizzato sui giovani talenti, non mancano le creazioni di autori attivi già da molti anni sulla scena nazionale e internazionale. Il Festival mantiene, infatti, come proprio orizzonte d’azione il confronto fra generazioni, proponendo un caleidoscopio di visioni, luoghi, estetiche e poetiche che possano intercettare l’interesse dei cittadini e sappiano costruire anche nella visione e partecipazione agli eventi una trasversalità di sguardi e di pensiero.
Questa edizione-laboratorio è frutto dell’attività che l’Associazione Danza Urbana sviluppa durante tutto l’anno attraverso progetti e iniziative volti a sostenere e promuovere lo sviluppo della danza urbana in Italia mediante iniziative di scouting, promozione e supporto alla ricerca coreografica, nella convinzione che questo ambito della scena contemporanea possa esprimere quella tensione capace di offrire nuove visioni alle sfide che i tempi attuali pongono.
Negli ultimi anni i festival hanno avuto difficoltà di ogni genere a incontrare il pubblico. Ora pare esserci un eccesso opposto, con una continua chiamata alla relazione, all’intervento, al dover partecipare. Ma perché? È davvero utile e se sì, a cosa?
Gli spettacoli di danza urbana si offrono allo sguardo dei cittadini senza mediazioni, in modo inclusivo, accessibile e diffuso nei luoghi della città. Si sono rivelati un’efficace strategia di audience engagement, di promozione della danza presso un pubblico potenziale, che non va abitualmente a teatro.
Al contempo, la danza urbana, pur includendo anche forme più convenzionali di spettacolo, è il terreno fertile per tutte quelle sperimentazioni, che ricercano dinamiche relazionali tra artista e spettatore differenti da quelle che l’edificio teatrale porta inscritte nella sua forma spaziale e architettonica. Uscire dal teatro offre agli artisti la possibilità di creare al di fuori delle convenzioni e dei formati teatrali e di indagare una relazione attiva con il contesto nel quale operano.
Il paesaggio e i luoghi della città sono posti a fondamento dell’evento artistico, rompendo le convenzioni della scatola scenica per costruire un rapporto meno gerarchico con lo spettatore: il confine tra spazio scenico e spazio della fruizione diviene sempre più labile fino, talvolta, a sparire, includendo lo spettatore stesso nella scena.
C’entrano anche le storture indotte dalla sovraesposizione alla digitalità? E l’arte in che modo cambia la percezione del paesaggio?
L’uomo contemporaneo, sempre più immerso nell’infosfera attraverso apparati tecnologici e media sempre più pervasivi, vive una continua interazione tra la realtà materiale e analogica e la realtà virtuale e interattiva. Questa dimensione “onlife” è connotata dalla sovrapproduzione di rappresentazioni e rende l’individuo sempre più de-collettivizzato e de-relato dal contesto sociale. Le arti dello spettacolo dal vivo possono offrire un’alternativa alla mera fruizione di rappresentazioni: la condivisione di un’esperienza diretta e immediata. Ecco, quindi, che nella danza, così come nel teatro, il luogo, il paesaggio diventano strumenti per costruire una relazione orizzontale, collettiva, rituale, improntata alla condivisione di un’esperienza alla quale tutti partecipano e possono concorrere in modo più o meno attivo. La danza in particolar modo costruisce una relazione ancora più incisiva con il contesto. Un corpo che danza agisce lo spazio in modo creativo, non-finalizzato, disfunzionale; apre un varco rispetto ai comportamenti e alla disciplina che le disposizioni dell’Apparato Città prevedono; trasforma la percezione del luogo e lo risemantizza, offrendo un ampliamento delle sue possibilità di uso.
La ritualizzazione dello spazio pubblico, che l’evento produce, consente, quindi, una rinegoziazione continua rispetto ai protocolli e alle prescrizioni o ai semplici comportamenti d’uso dello spazio introiettati dai cittadini.
Il paesaggio, ovvero, l’incessante (cre)azione collettiva e individuale, che ridisegna e ridefinisce l’ambiente, si nutre dell’esperienza e della percezione quotidiana che ciascuno di noi ne fa. L’intervento artistico può produrre un cambiamento nella memoria dei cittadini, irrompendo nella dimensione quotidiana e provocando una percezione mutata dello spazio/tempo.
Riappropriarsi dello spazio urbano da parte dei corpi dei danzatori e degli spettatori diventa un atto politico, che reinterpreta e rivitalizza gli spazi. Dei luoghi ordinari si trasformano in spazi temporaneamente straordinari, spazi in cui la ri-semantizzazione appare come provvisoria, ma può invece incidere la memoria dei fruitori e mutarne gli schemi d’uso. In tal senso un corpo che danza riafferma il diritto alla città, come teorizzato da Henri Lefebvre.
Ma dopo tanto isolamento e distanza, questo processo di conoscenza e consapevolezza del rapporto fra spazio e società avviene attraverso il semplice fatto artistico o occorre pure altro, anche per gli artisti?
Dopo due anni di forti limitazioni nella fruizione dello spazio pubblico e delle occasioni di aggregazione sociale a causa dalla pandemia, si avverte la necessità di recuperare una consuetudine con i luoghi della città e creare occasioni collettive di incontro. Per questo l’offerta di spettacoli all’aperto e creazioni partecipative è cresciuta esponenzialmente.
Personalmente credo nell’utilità di ricostruire un tessuto relazionale che la pandemia ha fortemente messo in crisi. Tuttavia, molte proposte artistiche sembrano direzionarsi verso il coinvolgimento attivo del pubblico senza davvero interrogarsi sul tipo di esperienza che si vuole offrire e sulla sua reale necessità. Le creazioni negli spazi pubblici o in contesto hanno uno statuto differente da quelle in teatro e richiedono competenze e strumenti diversi.
Occorre colmare in Italia un gap culturale rispetto ad altre scene europee. Solo negli ultimi anni, infatti, il mondo accademico e della critica ha incominciato a osservare e studiare la danza urbana, mentre le istituzioni non l’hanno ancora riconosciuta.
È necessario offrire agli artisti opportunità formative e di accompagnamento ai processi di ricerca coreografica nel paesaggio o nello spazio pubblico, così come ai processi partecipativi. L’Associazione Danza Urbana promuove Dancescapes, un progetto triennale strutturato in diverse azioni, volto a offrire quelle competenze e quegli strumenti che consentano agli autori di comprendere la complessità e le potenzialità di questo ambito coreografico.