RENZO FRANCABANDERA | Il progetto Metamorfosi – nel labirinto della memoria avrebbe dovuto debuttare nel giugno del 2020. Dopo diversi Studi preparatori lo spettacolo aveva trovato la sua forma definitiva in un percorso labirintico dedicato a un piccolo gruppo di spettatori, ma l’esplodere dell’emergenza sanitaria rese subito evidente che sarebbe stato impossibile realizzare lo spettacolo per come era stato ideato da Massimo Munaro e gli attori del Teatro del Lemming di Rovigo. I loro storici allestimenti, centrati sulla ritualità esperienziale, sul coinvolgimento pieno dei sensi dello spettatore, costrinse a rimandare il debutto della versione completa. Ne fu proposta una prima versione, intitolata Di forme mutate di cui abbiamo dato testimonianza. Era una prima risposta alle limitazioni pandemiche, ma pur sempre un ripensamento della creazione originaria, ispirata alle Metamorfosi di Ovidio, e che comunque proponeva un’immersione intima in uno spazio oscuro, rituale, cui si aveva accesso in gruppi di soli cinque spettatori a replica.
Questa scelta è rimasta anche nella versione definitiva del lavoro, in scena fino a Domenica 25 settembre a Rovigo, presso il Teatro Studio.

Fedeli al precetto di Artaud che preconizzava la necessità di raggiungere da ogni lato la sensibilità dello spettatore, gli artisti del Lemming teorizzano lo spettacolo mobile, capace di fondere in un unico luogo simbolico palcoscenico e platea, non più visti come due mondi chiusi, ma come un’unico spazio di intenzione: i cinque spettatori vengono fatti preparare da Munaro in uno spazio anticamera, dove indossano una tunica bianca, quasi a voler anticipare l’accesso ad un evento che li pretende in qualche modo candidi, uguali. Via gli anelli, via i cellulari, via ogni orpello disturbante al contatto. Si entra, tenendosi per mano e si viene, con un passo assai svelto, portati in uno spazio illuminato da candele che ha un evidente rimando simbolico alla funzione religiosa. Attorno a questo spazio rettangolare centrale, cinque cerchi, in ciascuno dei quali, su indicazione perentoria del regista, gli ospiti prendono posto. A quel punto la costruzione si alimenta della presenza scenica di cinque performer che intervengono in dialogo fisico con gli spettatori, che vengono avvicinati e cui i cinque si rivolgono ora direttamente con una gestualità rituale, ora servendosi di un medium oggettuale. Al centro Munaro rompe un’anguria nello spazio rettangolare sacro delimitato da un lenzuolo bianco steso per terra e circondato da candele. L’odore del frutto si mescola alla terra che viene gettata sul telo, dando vita ad un miscuglio di vita e morte, un fango che una performer cosparge sul proprio corpo nudo e mascherato da ovino.

Una voce off con riverberi ed echi riporta alla testualità ispiratrice: alcune parole vengono ripetute dai performer, altre vengono anticipate, un gioco che tornerà nel finale, quando, dopo l’esperienza labirintica che di lì a poco gli spettatori vivono, gli stessi verranno ricondotti intorno a questo rettangolo, per così dire, sacrificale.
Tornano i simboli ricorrenti della poetica del Lemming, dal contrasto luce buio agli elementi delle prime forme filosofiche basate sugli elementi, aria, acqua, terra, fuoco.
Torna lo specchio, presente in non pochi lavori del regista, le bambole, e poi la corporeità, vissuta in modo libero e quasi senza barriere e inibizioni.

Lo spettatore inizia un vero e proprio viaggio dove l’unica regola che deve seguire è quella di non lasciare mai la mano di chi lo accompagna nel buio. Il gruppo si frammenta e in un vagare vorticoso ma che ha un suo tempo giusto, lo spettatore viene portato dentro una serie di ambienti/stazioni, inquietanti e coinvolgenti, in cui viene posto in relazione diretta, finanche intima, con i performer. La meccanica alla base della costruzione di Edipo, il grande classico del Lemming, torna qui con il viaggio misterico, il percorso iniziatico. Più che di labirinto della memoria, si dovrebbe parlare qui di viaggio nell’oscurità dell’inconscio psichico, che Jung divideva in due strati: quello individuale, che poggia su uno strato più profondo, personale e per certi versi innato, e quello collettivo, che ha contenuti e comportamenti che sono gli stessi ovunque e per tutti gli individui. Il labirinto della memoria messo in piedi dal Lemming, gioca su queste analogie costitutive dell’inconscio tra individui, nonché tra culture ed epoche diverse, che costituiscono il profondo strato comune alla psiche umana, costellato di ‟immagini dinamiche”, gli archetipi, i modelli funzionali innati che costituiscono la natura umana. E se è vero, come dice Hillman che ogni immagine è archetipica, il lavoro psichico è sempre un lavoro “imagistico archetipico” e tanto più forte affiora quanto più veniamo spinti in spazi in cui perdiamo il controllo di quello che ci succede, perchè ci troviamo al buio, o veniamo spinti velocemente in qualche direzione senza poter controllare noi il movimento, la velocità, o perchè dormiamo. E non a caso l’ultima delle stazioni di questo labirinto ha a che fare con il confine con l’esperienza del sonno. Ovviamente non entriamo qui nel dettaglio delle esperienze che lo spettatore vive nel labirinto anche per non togliere il gusto del vivere l’intensità dell’esperienza.

Si tratta di un ritorno al pensiero originario, proprio quest’anno che ricorre il 35esimo anniversario dalla fondazione del Teatro del Lemming, da quel 1987 in cui Munaro e Martino Ferrari diedero vita al sodalizio artistico a Rovigo. Dieci anni dopo sarebbe arrivato l’Edipo, costruzione centrale della loro estetica, i cui riverberi sono assai vivi in questa nuova creazione.
Questo debutto nazionale, che segue al Festival Opera Prima di inizio estate, è il primo di una serie di eventi che fino a dicembre alimenteranno un cartellone denso di appuntamenti, per festeggiare questa ricorrenza che dice tutto sulla costanza dell’impegno artistico sul territorio. La programmazione spazierà tra lavori storici della Compagnia e ospitalità di altri artisti della scena nazionale.
Talvolta come spettatori frequenti dell’arte dal vivo, si vorrebbe perdere la memoria, riuscire a ri-osservare le cose senza doverle per forza collegare ad un già-vissuto, al sistema ricorrente di segni che ogni artista alimenta nel corso della vita. Questo permetterebbe di guardare le creazioni con uno sguardo sempre stupito, specie per gli artisti, come Munaro, che abitano un sistema simbolico e di costruzione del fatto scenico che ha a che fare con il rito, con un codice piuttosto stabile di riferimenti iconici, tesi al coinvolgimento drammaturgico e sensoriale dello spettatore nell’evento scenico, in una sorta di rievocazione dell’antico che ci abita. E d’altronde Jung diceva: “Rendi cosciente l’inconscio, altrimenti sarà l’inconscio a guidare la tua vita, e tu lo chiamerai destino”.

Ma non c’è dubbio che il grande labirinto in cui è trasformato lo spazio del Teatro Studio, sfruttandone le potenzialità in ogni direzione possibile, rappresenti comunque per lo spettatore abituato alla tranquillizzante poltrona in sala e alla distanza dall’azione scenica, un elemento dirompente, un viaggio per dirla con Munaro “che prevede la presenza viva e concreta di attori e spettatori in uno spazio condiviso. A teatro si è presenti con il proprio corpo e con i propri sensi, …un incontro ravvicinato e una relazione, che può essere pensata come cura: il farmaco di cui abbiamo bisogno per restare umani.”