RENZO FRANCABANDERA | È con Assassinio nella cattedrale di Thomas Stearns Eliot per la regia di Guglielmo Ferro che Giancarlo Marinelli, cui per il quarto anno ne è affidata la direzione artistica, ha voluto aprire il 75° Ciclo di Spettacoli Classici al Teatro Olimpico di Vicenza, intitolato “Domani nella battaglia pensa a me”.
Un titolo senz’altro insolito: il dramma di Eliot non era mai stato rappresentato prima nell’ambito degli Spettacoli Classici al Teatro Olimpico, ed è invero titolo poco proposto in generale, che arriva qui grazie a una produzione ABC Produzioni in collaborazione con il Teatro Quirino di Roma, in prima nazionale dopo l’anteprima a Catania di inizio settembre, a sancire un legame fra i Classici all’Olimpico e i Teatri di Pietra siciliani.
Il dramma fu scritto nel 1935, in forma di tragedia classica, e in Italia ebbe fortuna abbastanza presto nel dopoguerra grazie all’allestimento che ne fece Giorgio Strehler nel 47-48 con un debutto nella chiesa di San Francesco a San Miniato, cui seguì nella stagione successiva quella in Sant’Ambrogio.
Arrivò poi una versione cinematografica nel 1966, per la regia di Orazio Costa con tanti interpreti diventati poi protagonisti del teatro italiano (da Herlitzka a Pagliai, Crast, Rigillo), anche questa versione girata in ambientazione ecclesiastica, a dimostrazione della forte vocazione del testo ad adattarsi, se non proprio a cercare, un allestimento fuori dallo spazio teatrale tradizionale, cosa che paradossalmente si dà in qualche modo anche per l’Olimpico di Vicenza, il primo e più antico teatro stabile coperto in Italia, ultima opera di Andrea Palladio, progettato in stile di un anfiteatro romano, con le sue celebri scene fisse opera di Vincenzo Scamozzi, unica testimonianza di scena lignea d’epoca rinascimentale ad essere giunta fino a noi, che donano però a questo sito un’atmosfera particolarissima e in qualche modo extrateatrale.
È in questo spazio che Moni Ovadia interpreta i panni di Thomas Becket, il celebre arcivescovo cattolico inglese proclamato poi santo per volere di papa Alessandro III nel 1173, soli tre anni dopo il suo omicidio avvenuto nella Cattedrale di Canterbury, e dovuto al conflitto con l’allora regnante Enrico II, di cui pure Becket era stato anni addietro un fedelissimo.
Ma come si arrivò all’omicidio? La parentesi storica risulta utile sia ad analizzare il fatto scenico che perchè la vicenda si inscrive nel quadro internazionale dell’epoca molto complesso con Becket stesso che ebbe un percorso di vita finanche controverso, come la drammaturgia pone solo in parte in luce.
Il culmine di questo percorso conclusosi tragicamente all’età di soli 52 anni si ebbe in meno di un ventennio: avviato alla carriera ecclesiastica diventò a 36 anni arcidiacono di Canterbury e quell’anno stesso, il 1154, fu nominato anche Lord e cancelliere del Regno d’Inghilterra, espressione della corona, custode del sigillo reale, ruolo che ricoprì con intensità tale da essere finanche accusato di trascurare i suoi doveri di uomo di chiesa. Anzi, contro le aspettative dell’episcopato e dei baroni che ne avevano sostenuto la nomina, una volta al servizio del regnante, ne assecondò l’opera riformatrice tesa a limitare l’indipendenza dei feudatari e a ristabilire l’ordine e l’autorità monarchica, scopo al quale fu funzionale la conoscenza di Becket del diritto romano. Ne derivò la creazione di una solida amministrazione centralizzata, controllata dal monarca e delle figure a lui più vicine. Dopo essere quindi riuscito nell’opera di ripristino del potere centrale su quello dei potentati locali, il re volle l’aiuto di Becket a completare l’opera anche verso la chiesa, tentativo a cui si stavano dedicando anche gli altri monarchi in Europa.
Dopo soli otto anni, nel 1162, quarantaquattrenne, venne eletto anche arcivescovo di Canterbury e primate d’Inghilterra. Ma qui ecco un’altra svolta: contro ogni aspettativa del re, che ne aveva appunto caldeggiato l’investitura ecclesiastica per completare il percorso di assoggettamento della chiesa, Becket, dalla nomina arcivescovile in avanti, divenne strenuo paladino degli interessi del clero, avviando una serie di dispute giurisprudenziali con la corona circa l’obbedienza che gli ecclesiastici avrebbero dovuto dare, per giuramento, ai costumi del reame. La disputa divenne talmente aspra da spingere Becket a fuggire in Francia, dove rimase per diversi anni. Siamo ai tempi di Federico Barbarossa e dei conflitti con il papa Alessandro III, uomo di chiesa dalle grandi capacità strategiche, fautore della supremazia del papato che difese strenuamente tessendo rapporti politici in tutta Europa, compresa la Francia, dove si dovette rifugiare anche lui, proprio fra il 1162 e il 1165.
Qui Alessandro III incontrò Becket. Tempi vivaci, di papi e antipapi, di lotte in tutta Europa fra papato-impero. E così fu anche in Inghilterra dove Enrico II e Becket si fronteggiarono a lungo a distanza, fino a quando all’arcivescovo non fu garantito, nel dicembre del 1170, una sorta di salvacondotto per tornare in patria. Qui però, in poche giornate di fuoco, si succedettero accadimenti molto convulsi, dovuti a vicende ulteriori legate sia alla corona (con la nomina del quindicenne Enrico III ad opera del vescovo di York) che alla supremazia dei vescovi in Inghilterra, e così nella messa di Natale, Becket denunciò pubblicamente sui nemici. A quel punto la sua presenza era diventata ingombrante e quattro militari decisero di ucciderlo il 29 dicembre, mentre era impegnato nelle sacre funzioni.
Tutta questa controversa vicenda, che si inseriva in un quadro geopolitico internazionale molto complesso, nell’opera di Eliot è ovviamente semplificata, se non quasi eliminata, per trasformare invece Becket nel paladino delle questioni dello spirito e della fedeltà alle istanze della sua missione spirituale, in contrasto con quelle del potere imperiale e per antonomasia dello stato, dei burocrati e dei militari. È una scelta che in scena anche la regia di Guglielmo Ferro enfatizza attraverso i costumi (Sartoria Pipi), distinguendo da un lato Becket, le tre pie donne (Marianella Bargilli, Viola Lucio, Alice Ferlito) e i frati (Pietro Barbaro, Giampaolo Romania, Plinio Milazzo), che indossano abiti d’epoca, e dall’altro i dignitari di corte tentatori e i militari, espressione del potere statale, della logica opposta a quella dello spirito in senso lato (Agostino Zumbo, Rosario Minardi, Giampaolo Romania, Giovanni Arezzo, Giuseppe Parisi).
Le scene di Salvo Manciagli, sono in realtà minimalissime, pochi oggetti, funzionali a rendere lo spettacolo trasportabile in qualsivoglia contesto (teatrale e non), cui adattare di volta in volta il disegno luci, per porre accento sui momenti più intensi dello spettacolo.
Gli stessi vengono enfatizzati anche dalle scelte musicali di Massimiliano Pace, che si affida per larga parte alle composizioni di Arvo Pärt, che fanno da sottofondo in particolare alla parte centrale e finale dello spettacolo, rispettivamente con Für Alina e My Heart’s in the Highlands.
La vicenda cui lo spettatore assiste è ambientata proprio nell’ultimo mese di vita del vescovo, allorquando la figura di Becket aveva assunto un’aura tragica ulteriormente nutrita, in questo allestimento, dal sembiante anagraficamente assai più maturo rispetto a quella che fu la realtà storica, con l’interpretazione dell’allora cinquantaduenne Becket affidata a un Ovadia di oltre vent’anni più adulto, e dalla fluente e sciolta chioma bianca. La scelta, tuttavia, nella finzione teatrale, si rivela funzionale a enfatizzare il cuore filosofico del dramma, che assume una sua dignità separata, disconnessa dall’originaria vicenda, per cercare finanche una sua drammatica attualità.
Se infatti in generale la drammaturgia ha al suo interno diversi e particolari tributi impliciti agli scrittori con cui Eliot si confrontò nella sua opera, fra cui Dante e Shakespeare (le tre donne all’inizio che ricordano le streghe del Macbeth, il discorso sul corpo di Becket morto, nel finale, che ricorda quello di Marco Antonio nel Giulio Cesare, rivolto direttamente all’uditorio), è soprattutto il pensiero di Seneca a leggersi in controluce in Assassinio nella cattedrale.
Negli anni precedenti alla scrittura di questo testo, che è del 1935, Eliot aveva dedicato nel 1927 al grande filosofo latino ben due studi, Seneca in Elizabethan Translation e Shakespeare and the Stoicism of Seneca.
Seneca è preso da Eliot a modello per il dramma moderno in versi, ma anche come riferimento sulla relazione fra filosofia e poesia, e ancor più come ispiratore della rappresentazione dell’eroismo davanti alla morte, che è di fatto il cuore di questo lavoro, perchè da subito la figura ieratica di Becket, cui Ovadia conferisce una particolare profondità spirituale, viene minacciata e spiritualmente tentata (bene la Bargilli che qui svolge anche il ruolo della tentatrice del desiderio carnale) dagli uomini dello Stato, cui il protagonista si oppone con un linguaggio stoico, che cerca una pace che non è sopportazione silenziosa, ma azione, azione che di per sè è sofferenza.
Le parole del testo hanno una capacità di risuonare di grande attualità in diversi momenti della rappresentazione: seppur dentro uno schema recitativo tradizionale ed enfatico, il pubblico assiste attento, e spinto a relazioni e pensieri sull’attualità, che testimoniano la potenza della scrittura. La regia, fedele al copione, indirizza la squadra di interpreti sul gioco della coralità e sul movimento di scena, mescolando attori di esperienza e qualche interprete giovane, e in questa mescolanza di esperienza e gioventù, appare di particolare vivezza e misura la prova mimica e fisicamente calibrata di Alice Ferlito.
Il cartellone dei Classici prosegue fino al 16 ottobre 2022, in scena al Teatro Olimpico e in alcune sedi storiche e monumentali della Città di Vicenza (la Basilica Palladiana, Palazzo Thiene e il suo Caveau, il Giardino del Teatro Olimpico, Villa Lattes). Sono previsti appuntamenti aperti al pubblico per aprire un dibattito culturale e affrontarlo con strumenti e visioni anche non convenzionali: la Biblioteca Civica Bertoliana organizza una serie di Incontri sui temi del percorso drammaturgico del Ciclo Classici 2022, di cui sono protagonisti studiosi, interpreti e registi teatrali, introdotti da giornalisti.
ASSASSINIO NELLA CATTEDRALE
di Thomas Stearns Eliot
regia di Guglielmo Ferro
con Moni Ovadia, Marianella Bargilli, Agostino Zumbo, Alice Ferlito, Viola Lucio, Rosario Minardi, Pietro Barbaro, Giampaolo Romania, Giovanni Arezzo, Plinio Milazzo, Giuseppe Parisi
scene Salvo Manciagli
costumi Sartoria Pipi
musiche Massimiliano Pace
produzione ABC Produzioni
in collaborazione con Teatro Quirino di Roma