LEONARDO DELFANTI | Si è da poco concluso Oriente Occidente Dance Festival, la storica manifestazione che porta a Rovereto la grande danza per raccontare quanto accade in Italia ma anche popoli e culture lontane, grazie al linguaggio più universale che ci sia, il movimento del corpo. Con novemila presenze registrate, tra spettacoli sold out e piazze piene, alle quali vanno aggiunte le partecipazioni gratuite offerte alla comunità, la quarantaduesima edizione del festival è riuscita a celebrare nuovamente il rito collettivo dello spettacolo dal vivo. “Siamo tornati alle presenze pre-pandemia. Per noi è la conferma che lo spettacolo ha senso solo dal vivo” ha commentato il direttore artistico Lanfranco Cis.
Forte della sua vocazione coreutica e multiculturale, quest’anno la manifestazione ha voluto proporre una nuova lettura dei molteplici Mediterranei che intrecciano e attraversano un bacino il cui nome vuol dire “in mezzo alle terre” e che sempre più si configura come uno spazio drammaticamente frammentato dalle molteplici identità che vi coesistono. “Un’immagine che mi accompagna da anni nell’ideazione del festival” rivela Cis “potrebbe essere quella dell’arrivo degli zingari a Macondo in Cent’anni di Solitudine. Nel romanzo di Márquez a un certo punto gli abitanti sentono dalle loro finestre il suono dei pifferi in lontananza. Sono gli stranieri che annunciano il loro arrivo in città: gente bella, nuova che parla un’altra lingua e che mescolandosi nelle strade crea un grande momento di festa condivisa”.
Ed è così che seguendo i tre nuclei tematici del mito da raccontare, delle nuove rotte da tracciare e delle voci da ascoltare, la direzione ha deciso di celebrare il fascino di un’identità che può costituirsi solo partendo dall’incontro con l’Altro. Aperto a più pubblici e attento tanto all’accessibilità quanto alla sostenibilità della manifestazione, Oriente Occidente da quest’anno vanta nel suo bilancio sociale anche l’entrata nell’Europe Beyond Access, rete internazionale dedicata a rendere lo spettacolo il più fruibile possibile, per tutti.
La scelta di fondare la politica culturale del festival sul rito politico del teatro dal vivo è inoltre valorizzata dalla partecipazione di Oriente Occidente all’European Dancehouse Network, la prestigiosa rete europea che lega 47 centri di produzione e ricerca coreutica, tra cui il Salder’s Wells di Londra e la Maison de la Danse di Lione, al fine di incoraggiare una cultura della partecipazione artistica a tutti i livelli della società.
“La cosa curiosa è che si è costituito uno zoccolo duro di pubblico che segue solamente alcune specifiche rassegne. Ciò vuol dire che c’è un bisogno di informazione specialistica capace di superare le notizie della televisione” spiega Cis.
Questi pubblici eterogenei li abbiamo incontrati nel nostro soggiorno a Rovereto e abbiamo notato che non solo appassionati di danza e operatori teatrali, ma anche intellettuali e cittadini sono attivamente coinvolti tanto nella creazione del programma quanto nella fruizione di un’attività che coinvolge la città di Rovereto tutto l’anno. “Ciò ci permette di lavorare bene anche con l’attuale amministrazione”, afferma Cis, storico direttore del festival.
Tra le voci da ascoltare in quest’edizione di Oriente Occidente, quella dell’Armenia è sicuramente una di quelle il cui grido si erge con più forza. Introdotto da una conferenza tenuta da Emanuele Giordana di Atlante delle Guerre, il concerto Odi e lamenti di pace dall’Armenia ha voluto raccontare della musica popolare armena e del suo massimo esponente vivente Devorg Dabaghyan, suonatore di duduk. È infatti lo strumento dal timbro caldo e leggermente nasale, divenuto recentemente patrimonio orale e intangibile dell’umanità UNESCO, a essere scelto per la sottoscrizione dell’Armenia al Memorandum di Pace della Fondazione Campana dei Caduti di Rovereto. Scelta quanto mai significativa visti i recenti sviluppi del conflitto nel Nagorno-Karabakh. Attorniato da un pubblico in religioso silenzio, l’artista ha suonato un repertorio raramente accessibile in Italia all’ombra della Campana dei Caduti, creata con il ferro dei cannoni del primo conflitto mondiale a perenne monito contro le guerre.
L’interesse per le nuove rotte della sperimentazione artistica è invece dimostrato dal desiderio di portare grandi nomi della danza contemporanea italiana e internazionale alla manifestazione.
È questo il caso della performance Made of Space, la quale chiude la trilogia dedicata al concetto di infinito della compagnia spagnola GM | MC. Dopo Time Takes The Time Time Takes e Sets of Sets, lo spettacolo è arrivato in prima nazionale al Teatro Zandonai di Rovereto. Osannato dal pubblico, che a fine spettacolo ha richiamato gli artisti in scena per almeno cinque volte, il lavoro si dimostra eccezionale nella sua semplicità compositiva: spirale e accumulazione ritmica sono investigati attraverso gli strumenti della contact dance dei coreografi Guy Nader e María Campos. Non a caso il lavoro è considerato tra le dieci coreografie più audaci del 2021 dalla rivista spagnola Susy Q che descrive la pièce della compagnia catalana come “abbagliante”.
Sullo sfondo di una scena minimalista dominata da una gigantesca spirale bianca sospesa a mezz’aria, le percussioni offrono appigli musicali, battute d’arresto e strategie di compensazione di volta in volta in perfetto dialogo con le necessità dei ballerini. Sin dall’inizio, ciò che cattura lo spettatore è la componente di rischio che i danzatori devono affrontare per tutti i 70 minuti dell’opera: i ballerini, infatti, fanno propri i fondamenti della danza contact a tal punto che spirale e spostamento di peso diventano metronomi capaci di misurare tanto il tempo quanto lo spazio scenico alla perfezione. La gravità dei corpi, mai abbandonati una volta inseriti nel vortice del movimento, è tale che si stenta a comprendere se il ritmo venga dato dalla battuta che i due musicisti (Miguel Marín e Daniel Munarriz) offrono ai performer o sia la partitura musicale stessa a definire la fluidità dello spostamento di peso tra lanci, prese e floor work. Un dialogo ininterrotto, talmente naturale da lasciar trasparire la passione con cui tutti in scena partecipano alle celebrazioni di un’estasi estetica interrotta.
Spostatici poi all’interno del MART di Rovereto, abbiamo assistito ad A E R E A + SILVER VIELD, spettacolo volto ad indagare le implicazioni estetiche e politiche della bandiera come vessillo e strumento coreografico. Ginevra Panzetti ed Enrico Ticconi hanno infatti deciso di indagare sulle qualità fisiche e allegoriche del grigio stendardo portato in scena. Vestiti da gonfalonieri ma privi dei classici stemmi araldici della tradizione medievale hanno sfruttato saggiamente le dinamiche cinetiche scaturite dall’uso della bandiera tanto al rallentatore quanto nel pieno della sua estensione. Sullo sfondo di un tappeto sonoro che rappresentava un’incessante carica di cavalli, il duo Panzetti/Ticconi ha riprodotto l’intera casistica in cui la bandiera può essere utilizzata: festa, manifestazione politica, parata militare e velo funebre sono solo parte della nomenclatura a cui il grigio vessillo si è prestato nelle mani dei due artisti capaci di trasfigurare un grezzo telo in potente strumento comunicativo tramite un ipnotico sbandierare.