ELENA SCOLARI | La catena di montaggio è qualcosa che la maggior parte di noi conosce grazie al capolavoro cinematografico di Charlie Chaplin Tempi moderni (1936), in cui era l’uomo stesso a finire dentro agli ingranaggi in una specie di danza assurda che rendeva macchina e operaio la stessa cosa, fusi in una folle unione che non dava scampo alla gestione del tempo e dell’autonomia. Il film è stato un modo, poetico e insuperato, di preconizzare la prevalenza del prodotto sulla forza lavoro.
Il Capitale, opera simbolo del filosofo tedesco Karl Marx, esce nel 1867 e – senza poterne fare un bigino decoroso qui – si può considerare una analisi acuta e approfondita e insieme una critica fortissima del sistema capitalistico. Secondo Marx è indispensabile eliminare le disuguaglianze, per un mondo giusto, e queste partono dalla proprietà privata dei mezzi che producono merci e quindi ricchezza e dunque “classi sociali sfruttate e classi sociali sfruttatrici”. Pertanto tutta la Storia dell’uomo si può, in buona sostanza, leggere secondo la logica della lotta di classe.
“La classe operaia va in paradiso”, sosteneva Elio Petri nel titolo del suo splendido film (1971) con uno straordinario Gian Maria Volontè, travolgente nel monologo che tiene in fabbrica “Io sono un bullone, sono una puleggia, una cinghia di trasmissione…“.
E “Io sono un semiasse” potrebbero dire gli operai della GKN Driveline di Campi Bisenzio (Firenze), che il 9 luglio 2021 vengono licenziati in blocco tramite una mail. 422 lavoratori messi alla porta (anzi, al cancello) con un clic di invio.
Alla GKN si costruivano appunto quei componenti che – più o meno – nelle auto trasmettono il movimento dal differenziale alle ruote. Se non siete meccanici, fidatevi.
Il Capitale – un libro che ancora non abbiamo letto di Kepler-452 ha finalmente debuttato (dopo le traversie dovute alla pandemia) al Festival VIE di ERT Emilia Romagna Teatro all’Arena del Sole di Bologna e racconta la storia di questi lavoratori. Anzi: la fa raccontare proprio a loro. In scena insieme a Nicola Borghesi (autore e regista con Enrico Baraldi) ci sono infatti tre operai della GKN e un delegato sindacale: Tiziana De Biasio, Felice Ieraci, Francesco Iorio e Dario Salvetti.
La compagnia bolognese si è fatta conoscere con Il giardino dei ciliegi – Trent’anni di felicità in comodato d’uso (premio Rete Critica 2018), in cui già avevano inserito due non attori che erano però i protagonisti della storia narrata e intrecciata con il dramma di Čechov: una coppia sfrattata dalla casa colonica dove vivevano fuori Bologna per far posto all’allora nascituro Eataly; in F. Perdere le cose la storia era quella di un immigrato senegalese che pure avrebbe dovuto essere sul palco ma le regole lo impedirono.
Dopo gli spettacoli pensati durante il lockdown e messi in piedi appena è stato possibile farlo (Lapsus urbano – il primo giorno possibile, Spedizioni e Coprifuoco) e dopo Gli altri, il gruppo torna a ragionare “insieme” alle persone che indaga.
Gli operai licenziati occupano la fabbrica toscana da quel 9 luglio e Borghesi e Baraldi hanno vissuto con loro, lì dentro, per un paio di mesi, in autunno. Hanno parlato, intervistato, domandato, osservato, mangiato e dormito con loro; per capire, per cercare di far dialogare quel volume capitale della Storia della filosofia economica con chi il capitale lo produce ma non lo possiede.
Il confronto avviene perché il collettivo accoglie con naturalezza e calore questi due giovani curiosi, nessuno ha da eccepire sulla loro presenza e viene condiviso anche il cinghiale della mensa occupazionale; certo, visto che fanno un sacco di domande vengono bonariamente soprannominati “quelli della Digos”, ma l’apertura è sincera e cordiale.
Da questa esperienza in una dimensione veramente estranea per i due teatranti, nasce lo spettacolo e la scelta – onesta – di tenere la separazione dei ruoli: Nicola Borghesi ci mette a parte delle sue sensazioni, del suo smarrimento, dello stupore di fronte all’estensione spaziale della fabbrica (“Il posto al chiuso più grande che abbia mai visto”) e lascia che siano Iorio, manutentore, Felice, operaio addetto al montaggio e Tiziana, addetta alle pulizie, a raccontare che cosa sono la vita nella fabbrica, i turni, le furbizie del mestiere, i rapporti che si stringono tra colleghi e la sensazione di vuoto quando uno di loro viene a mancare.
La scena in cui si muovono è delimitata sul fondo da una tenda composta da strisce di plastica, sulla quale vengono proiettate grandi immagini della fabbrica, ampi campi lunghi girati con ottima tecnica da Chiara Caliò e che immergono tutto il pubblico in quegli sterminati corridoi, in mezzo ai macchinari. Nello spazio agito ci sono due banchi da lavoro, con sopra alcuni dei “pezzi”, i semiassi sopra descritti. Rimane a terra dall’inizio alla fine, un megafono, oggetto metafora dei picchetti, delle manifestazioni, delle proteste gridate da quella voce amplificata che è la voce di tutti. Le luci (di Vincent Longuemare) sono curate ma semplici, non si fanno notare. La recitazione di Borghesi è maturata, disinvolta come sempre ma incisiva dove serve e non troppo colloquiale, e i quattro elementi esterni sono bravi, spontanei e molto ben diretti da una regia che non li fa (quasi) mai indulgere sul pedale del sentimento, che pure è giustamente presente perché in questa lotta ci sono le vite professionali ma anche – come viene detto in un punto particolarmente intelligente del testo – il tempo che queste persone si sono costruite sì in relazione al lavoro ma fuori da esso.
Il riferimento letterario all’opera di Marx è inserito nel testo ma rimane sullo sfondo, è il punto di partenza della riflessione complessiva ma gli estratti proiettati si leggono in velocità e danno un richiamo che ha in realtà il suo vero svolgimento nelle parole dei tre operai, ne è stata fatta un’applicazione pratica tramite le loro parole e la loro presenza.
Il senso dello spettacolo è dunque collettivo, come ha dimostrato, a sorpresa, l’arrivo del corteo della GKN nelle strade di Bologna, con lo striscione “Insorgiamo”, per assistere all’ultima replica del Capitale, che pare sia stata assai partecipata in tutti i sensi.
A fianco del racconto, umano e di documento, della vicenda GKN ci sono le riflessioni sull’incapacità di costruire un ‘sistema’ diverso da quello capitalistico, che tocca anche l’ambiente teatrale: l’ambizione è che questo spettacolo sia talmente bello da vendere tante repliche e consenta alla compagnia che il prossimo sia più ricco, abbia più luci (più pezzi, in gergo), venda più biglietti, vada in teatri più grandi… L’obiettivo è legittimo e non è da colpevolizzare, nemmeno davanti a chi fa un mestiere diverso, manuale. Più duro, forse, ma non più lavoro dell’altro.
Potrebbe essere un gesto d’astuzia, lusingare “chi lavora veramente”, ma nel compendio di uno spettacolo ben equilibrato suona come un irrisolto senso di inadeguatezza per il fatto di svolgere un lavoro intellettuale, ciò che invece ha permesso agli operai di porgere la loro storia agli spettatori e a questi di ascoltarla tornando a svegliare l’attenzione sul caso. Del resto, Marx ha fatto un imprescindibile e ponderoso lavoro di natura intellettuale analizzando il capitalismo e le sue conseguenze.
È un cortocircuito semantico: con l’azione teatrale Kepler afferma la sussistenza di ciò che fa, proprio perché ha messo ‘dentro’ al proprio fare teatrale il bullone di mondo che ha conosciuto e che costruisce parti diverse da quelle del teatrante. Che, per inciso, andava nelle fabbriche nei tesissimi anni ’70 e ci torna oggi, provocando una reazione tangibile e nutrendo un pensiero attivo.
E così fanno anche un po’ tenerezza le uscite a prendere gli applausi con i pugni chiusi, per la “sovrastruttura” ideologica di cui il gesto è rivestito; qui però esprime la volontà di unione, di essere insieme in una battaglia che si può combattere solo facendo fronte comune. Un fronte culturale comune, tra chi sta in fabbrica, chi sta sul palco e chi sta in platea. Che duri più del tempo passato in sala.
E se non andranno in paradiso, intanto saranno andati in teatro, gli operai.
IL CAPITALE
Un libro che ancora non abbiamo letto
un progetto di Kepler-452
drammaturgia e regia Enrico Baraldi e Nicola Borghesi
con Nicola Borghesi
e Tiziana De Biasio, Felice Ieraci, Francesco Iorio – Collettivo di fabbrica lavoratori GKN e con la partecipazione di Dario Salvetti
luci e spazio scenico Vincent Longuemare
sound design Alberto Bebo Guidetti
video e documentazione Chiara Caliò
consulenza tecnico-scientifica su “Il Capitale” di Karl Marx Giovanni Zanotti
assistente alla regia Roberta Gabriele
macchinista Andrea Bovaia
tecnico luci e video Giuseppe Tomasi
fonico Francesco Vacca
elementi scenici realizzati nel Laboratorio di ERT
responsabile del laboratorio e capo costruttore Gioacchino Gramolini
scenografe decoratrici Ludovica Sitti con Sarah Menichini, Benedetta Monetti, Rebecca Zavattoni
ricerca iconografica e immagine di locandina Letizia Calori
foto di scena Luca Del Pia
produzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale
Si ringraziano Stefano Breda e Cantiere Camilo Cienfuegos di Campi Bisenzio
Festival VIE – ERT Emilia Romagna Teatro | Teatro Arena del Sole, 8 ottobre 2022