ELENA SCOLARI | Il principe Amleto è stato incarnato in teatro da uomini (e donne) di ogni età, da quella effettiva nella tragedia di Shakespeare in cui è un ragazzo poco più che adolescente a quella ottuagenaria (come fu per Roberto Herlitzka in Ex Amleto). Siamo tutti Amleto, i suoi dubbi sono i nostri e un attore maturo ha attraversato nella vita molti dei travagli del giovane danese, nessuna meraviglia, dunque, se l’età dell’interprete non corrisponde a quella immaginata dall’autore.
Succede qualcosa di assai simile a Ivan Karamazov, il più razionale dei tre fratelli creati da Fëdor Dostoevskij e narrati nel grande romanzo familiare I fratelli Karamazov: Umberto Orsini lo impersonò nel 1969 nello sceneggiato tv Rai per la regia di Sandro Bolchi (lo stesso che diresse I Promessi Sposi con Nino Castelnuovo e Paola Pitagora), poi nel 2014 in teatro ne La leggenda del grande inquisitore (insieme a Leonardo Capuana, regia Pietro Babina) e oggi torna per la terza volta, a 88 anni, nei panni dell’intelligentissimo Ivan nello spettacolo che ha costruito con Luca Micheletti: Le memorie di Ivan Karamazov, andato in scena in prima nazionale al Piccolo Teatro Grassi di Milano.
Memorie perché sul palco c’è un Ivan anziano, non tanto per sovrapporre età scenica ad età anagrafica quanto perché l’idea “di cornice” del lavoro è proprio che la creatura del grande scrittore russo guardi all’indietro la propria vita – letteraria – e rifletta come osservandosi in uno specchio del tempo passato, sulle sue azioni e su ciò che l’autore gli ha concesso, in termini di personaggio, lamentando ciò che potrebbe lamentare una persona reale.
Il cuore dello spettacolo è – giocoforza – il monologo del grande inquisitore, qui inserito al centro di un testo che introduce la indistruttibile requisitoria collocandola tra una confessione ideologica del fatto criminoso, l’omicidio del padre, e una chiusa rivolta alla penna creatrice. Ivan ha lungamente esposto le sue elaborate teorie al fratellastro Smerdiakov, che ha finito per assassinare Fedor Pavlovic, essendone però solo l’omicida materiale, influenzato dal mandante Ivan, appunto. In realtà il fratello illegittimo ha – forse proprio per questa ragione – una sua diabolicità, non è solo “uno che si è bevuto le strampalate architetture dialettiche del fratello intelligente”, è un personaggio che si aggira, che sta spesso nell’ombra, dietro le quinte, è uno che parla poco ma lo senti sibilare. Aveva i suoi motivi per fare quello che ha fatto.
L’ambiguità è ciò che Dostoevskij ci insegna ad accettare, i tanti chiaroscuri di cui ogni uomo è composto, non solo luci e ombre (sarebbe banale) ma mezze penombre, lampi accecanti e tetraggini impenetrabili, crepuscoli repentini che trapassano nel dilucolo. L’ultimo passaggio di stato è quello che Ivan non ha potuto vivere fino in fondo, lo scrittore lo ha lasciato sospeso – in questa lettura di un Ivan invecchiato e cambiato nel tempo come gli umani – impedendogli di darsi il suo personale finale, il suicidio, dice. Per senso di colpa, per impossibilità di chiudere in maniera più logica, chissà.
Francamente è un’aggiunta che non ci dice niente di più sul personaggio del romanzo (anzi vi applica un’intenzione presunta), uno dei più complessi della storia della letteratura ma che si svela fin dove è giusto che si sveli e ogni lettore ne carpisce quello che Dostoevskij permette di intendere. La presenza di Orsini e la sua fisicità incanutita ma scattante (è ancora un ottimo tennista) sarebbero state più che sufficienti a suggerire una prospettiva di visione à rebours.
Il monologo dell’Inquisitore è un racconto che Ivan ha scritto e che legge (recita) per la prima volta davanti al fratello buono Alioscia. Ivan ha immaginato che Cristo si faccia vivo a Siviglia, durante l’inquisizione spagnola del 1400. Dopo aver resuscitato una bambina di 12 anni – con le parole “talitha kum” (“fanciulla, rialzati”) – Gesù viene arrestato dall’Inquisitore, sono soli nella cella e l’uomo incalza Cristo con un’arringa tesa, tagliente, costruita more geometrico per dimostrare che l’uomo non è in grado di sopportare la libertà che gli è stata data. La libertà è un peso, gli uomini vogliono essere guidati, hanno bisogno di un pastore e cercano l’autorità (quanta attualità…); la fatica di decidere, di gestire il libero arbitrio, di darsi un ordine di principi e priorità che aiutino a condursi è troppo, per un essere finito. E così Gesù sarebbe venuto a disturbare il lavoro della Chiesa, che con maggior realismo e minor idealità ha ben capito che agli uomini piace essere sudditi e in fondo basta sfamarli perché accettino di buon grado la gerarchia. Un sollievo, è per loro: “Non c’è nulla di più ammaliante per l’uomo che la libertà della propria coscienza: ma non c’è nulla, del pari, di più tormentoso.”, dice il Cardinale.
Gesù tace, non controbatte e la sua risposta divina sarà un bacio al suo accusatore. Così come quella dell’angelico Aleksej al fratello maggiore, alla fine della prolusione.
Il monologo è un testo di altissimo valore filosofico, una riflessione esistenziale acuta e dolorosa, impietosa e lucida, modernissima.
La straordinarietà di Umberto Orsini nel renderlo in teatro è la capacità di far sgorgare quelle idee come se gli nascessero in testa esattamente in quel momento, la sua recitazione è una vivissimo domino in cui sembra di toccare la materia del pensiero e vedere la tessera che provoca la riflessione successiva. La geometria del testo è mirabile e si rimane sempre ammaliati da un attore che tanto ha fatto sue quelle parole e quelle teorie da farle sembrare veramente impastate, plasmate e sfornate fragranti nel preciso istante in cui vengono pronunciate. Un dono raro.
Ecco perché questo talento infuocato non ha bisogno di pesanti scenografie (di Giacomo Andrico) non inadatte in sé ma che incombono, alti mobili di legno scuro come l’ebano per dare la gravosa impressione dell’aula di tribunale con giudici invisibili ma adunchi. Scale, pareti, banchi esageratemente foschi, risate diaboliche fasulle ed eccessive, un macchinario a mo’ di locomotiva che emette la voce del giovane Orsini/Ivan nello sceneggiato tv ma che soprattutto sbuffa vapore in troppi momenti.
La regia di Micheletti lascia però libero Orsini che si muove con agilità e disinvoltura in questo apparato, sulle spalle un lungo cappottone nero vagamente mefistofelico, indossa leggero la grazia luminosa di un attore cui il tempo ha regalato l’intelligente naturalezza di una signorile semplicità.
prima nazionale
dal romanzo I fratelli Karamazov di Fëdor Dostoevskij
drammaturgia Umberto Orsini e Luca Micheletti
costumi Daniele Gelsi
suono Alessandro Saviozzi
luci Carlo Pediani
assistente alla regia Francesco Martucci