RENZO FRANCABANDERA | In Forme di storia. Dalla realtà alla narrazione (pubblicato da Carocci nella collana Aulamagna) lo studioso americano Hayden White scrive: “La narrazione potrebbe benissimo essere considerata una soluzione a un problema di interesse umano generale, vale a dire il problema di come tradurre il sapere in racconto. Serve a modellare l’esperienza in una forma assimilabile a strutture di significato usate dagli esseri umani, specifiche della cultura di appartenenza”.
White spiega come la drammaturgia e la narrazione ci aiutino a comprendere la cultura umana, per quanto esotica e distante dalla nostra essa possa essere.
Una storia molto specifica e complessa può quindi veicolare informazioni e nuove conoscenze. Come può un video dentro uno spettacolo aiutare a elaborare un pensiero su un frangente così delicato come il fine vita?
Ha fatto piuttosto scalpore l’ultimo lavoro di Milo Rau, Grief & Beauty, il motivo essendo la riproduzione filmata della morte di una anziana signora, Johanna, che con lucida determinazione ha ritenuto, giunta all’età di 85 anni, di congedarsi dalla vita in modo sereno, circondata dai suoi cari, ricorrendo all’eutanasia. Nessuna malattia incombente, apparentemente una scelta inspiegabile. Eppure lei ha deciso così.
Dello spettacolo, che ha avuto diverse date in Italia e a cui personalmente ho potuto assistere in apertura della stagione 22/23 del Teatro Metastasio di Prato, abbiamo dato su Pac ampia analisi nella scrittura incrociata di Matteo Brighenti e Elena Scolari: si basa, con una tecnica lanciata ormai più di un decennio fa dalla regista Kathie Mitchell, su un intreccio fra drammaturgia, azione attorale e riprese, in parte registrate, in parte realizzate dal vivo in scena.
A differenza dei lavori della Mitchell che trasformano integralmente la parte recitata dal vivo in film, Rau fa un ricorso più moderato alle riprese dell’azione che si svolge sul palcoscenico, lasciando che l’occhio dello spettatore si posi tipicamente sul recitato in forma organica e distinta rispetto a quanto avviene sullo schermo, la cui presenza è comunque immanente, perché sovrasta l’azione attorale.
Al di là dell’interesse specifico di Rau per il tema della morte, che ha connotato quasi tutti i suoi recenti lavori, seppur letta da diverse angolature, lo spettacolo non può non riportare alla mente altre analoghe creazioni recenti, che avevano al loro interno una riproduzione della morte in scena, come i tre spettacoli dedicati da Pippo Delbono al tema della morte, originati da quella materna: Vangelo (2016), nato da una richiesta della madre in punto di morte, La gioia (2018) in parte riscritto a seguito della morte di Bobò, il suo storico collaboratore sordomuto, e l’art movie Sangue (2013) che ritrae senza filtri o censure l’agonia e la morte di sua madre.
Un analogo omaggio con la ripresa video degli ultimi istanti di vita, anche in quel caso di una donna (occorsi per morte naturale), è quello contenuto in Requiem pour L. di Alain Platel un commovente ricordo rituale, con la riscrittura in salsa afro-jazz del requiem di Mozart, realizzata da Fabrizio Cassol, e coreografata (oltre che suonata) da un gruppo di musicisti congolesi.
Per assurda combinazione la proposta di lavorare sul Requiem era arrivata all’artista quando la vita di Platel venne scossa dalla morte del padre, del fedelissimo cane e del suo mentore, il direttore d’orchestra Gerard Mortier, assistito da Platel fino all’ultimo istante. La creazione, molto semplice e pulita negli elementi coreografici ancestrali, porta sopra di sé un segno scenico molto forte: un filmato in bianco e nero che è la ripresa delle ultime ore della vita di L., un’amica di Platel e Cassol, che aveva evidentemente acconsentito all’utilizzo in funzione spettacolare del momento del suo trapasso. Di quello spettacolo, simile nella struttura a Grief and beauty, e presentato in Italia a Torinodanza nel 2019, scrivemmo su queste pagine, in una serie di riflessioni su scena contemporanea e realismo.
Il tema della rappresentazione della morte ovviamente ha sempre riguardato il teatro recitato, ma è sempre stato considerato, fino all’avvento del video in scena, come qualcosa di non rappresentabile in diretta. Eccezione a questa regola, ma con la morte di animali, è cosa cui di recente aveva fatto ricorso l’argentino Rodrigo Garcia, facendo bollire in scena alcune aragoste come rappresentazione emblematica della tortura. Non mancarono polemiche animaliste che impedirono le repliche di Accidens a Milano.
A ben ricordare, nel 1985 Magazzini Criminali invitò gli spettatori al mattatoio a Santarcangelo per uno spettacolo che prevedeva l’uccisione di una bestia in diretta, animale che comunque sarebbe stato destinato alla macellazione ma che, portato nel contesto della rappresentazione, suscitò una vasta eco di scandalo e repulsione. Uno degli eventi fu sospeso, mentre uno fu portato a termine con strascichi legali di vario tipo.
Tutto fondato sulle riprese dentro un mattatoio è Mephistopheles, eine Grand Tour di Anagoor che mette insieme, in versione tragicamente artistica, «il materiale video raccolto tra il 2012 e il 2018 da Simone Derai e Giulio Favotto in un unico viaggio per immagini attraverso la luce e il dolore del mondo, musicato in un unico live set sinfonico da Mauro Martinuz».
Il tema della rappresentabilità della morte, ovvero di una sua “spettacolarizzazione” (perché comunque di quello si tratta, ovvero di usare le tracce di un evento di quel genere dentro una creazione spettacolare), è sicuramente delicato e riguarda in modo cruciale la morale.
Diverso è il caso di artisti che per compiere la loro ricerca personale hanno voluto porsi a rischio della vita: da Houdini a Marina Abramovich, la storia della performance pullula di artisti che hanno portato fino all’estremo la loro ricerca sul limite del corpo e della resistenza psicofisica, per non parlare di grandi acrobati funamboli, come Philippe Petit, che hanno percorso lunghi tragitti sulla corda, sospesi a centinaia di metri d’altezza senza alcuna protezione.
Ma ciò a cui abbiamo assistito in questo caso ha caratteristiche diverse, che lo stesso Rau aveva spiegato in un’intervista concessa alcuni mesi fa a Sergio Maifredi e Corrado D’Elia. In questa videointervista il regista parla dell’incontro con l’attrice ultraottantenne che aveva progettato la sua morte e di come abbia deciso di creare questo lavoro non con un intento commemorativo, sebbene buona parte dello spettacolo sia comunque dedicata a ricordare la donna, la sua vita, e le sue scelte sul fine vita; bensì con una sorta di taglio filosofico, incentrato su quello che significa “conquistarsi la tomba“, visto come fine ultimo ed essenziale della vita umana, un approccio quasi stoico, coraggioso, di andare incontro alla fine del percorso senza paura anzi, riuscendo persino a decidere di porvi fine senza che sia la vecchiaia o il termine naturale a deciderlo per noi.
Grief and Beauty per altro risponde formalmente a tutta una serie di requisiti che il regista ha posto per le sue creazioni, caratteristiche diventate un manifesto artistico che egli stesso ritiene essenziale per l’arte contemporanea, e che prevede, fra le altre cose, la presenza in scena di non professionisti, una scrittura drammaturgica perlopiù originale e non basata su testi classici se non in una misura parziale e minoritaria, e la presenza di più lingue parlate in scena. Lo spettacolo quindi si situa chiaramente in una zona di cortocircuito, perché vuole unire la ritualità del commiato dalla vita a elementi che trasformano questo rito in un evento contemporaneo, in un fatto d’arte originale, specifico, attorno al quale si è creata una drammaturgia che ha accolto storie, vicende e persone, alcune non professioniste della scena, coinvolte nella creazione con l’andare del tempo.
Le vicende della vita della protagonista si mescolano a quelle degli interpreti in scena, che, l’uno dopo l’altro, intrecciano le loro questioni biografiche specifiche al percorso della donna che ha fatto la sua scelta di eutanasia.
Ma a differenza dello spettacolo di Platel, che è un musical coreografato in memoria di, in questo caso la protagonista, più della persona, è la scelta.
Ed effettivamente il paragone che viene in mente è una creazione di Katie Michell di più di un decennio fa: Wunschkonzert. Concerto a richiesta, su testo del drammaturgo contemporaneo Franz Xaver Kroetz, un atto unico costruito però in quel caso solo da azioni, quasi senza parole.
Il testo del 1973 corrisponde praticamente alle didascalie che descrivono con minuziosa ossessività una sera nella vita della signorina Rasch, impiegata tra i quaranta e i cinquant’anni, “ancora ben messa di corpo a parte le gambe che sono abbastanza grosse”.
Si ammazzerà a fine spettacolo assumendo barbiturici.
E tutto avviene in scena, filmato, e riportato sul grande schermo.
Assistiamo al suo vero finto suicidio, commesso in diretta davanti al pubblico, con tanto di rumoristi, quartetto d’archi dal vivo, controfigure per le riprese in campo strettissimo dei gesti che Therese Dürrenberg, la straordinaria interprete femminile, compie sul palco.
Anche nel caso di Rau siamo in una casa riprodotta con cura: non è quella di Johanna ma un luogo ugualmente realistico e di cui fanno parte anche oggetti lasciati alla compagnia dalla defunta.
L’anziano protagonista ha un catetere e muore (per finta) sul palcoscenico, riproducendo l’eutanasia, proposta in video (e avvenuta veramente).
In Concerto a richiesta la rappresentazione cinematografica, esattamente come da tradizione della regista, riprendeva in presa diretta l’azione dell’interprete che si svolgeva in basso sul palcoscenico, una tecnica che Milo Rau poi ha usato spessissimo nei suoi spettacoli, compreso questo.
La differenza fra quello spettacolo e questo sta nel fatto che nello spettacolo di Kathie Mitchell lo spettatore era al corrente che si trattasse di finzione, della rappresentazione di un suicidio, mentre in questo caso pur trattandosi in senso stretto della stessa identica cosa, lo spettatore sa che assiste a una morte successa veramente, riprodotta a ogni replica, con una inquadratura dall’alto del letto di morte della donna, la camera fissa sull’ultimo respiro della donna, sull’espressione che le si congeda sul volto nel passaggio verso l’oltre.
Ma prima di concludere con certezza che le cose siano diverse andiamo a raccogliere un ultimo pensiero circa la modalità con cui la mente umana percepisce il vero e il falso in relazione alla rappresentazione filmata della morte, o almeno distingue il reale dalla riproduzione.
Torna qui utile, in conclusione di questa disamina sulla rappresentazione della morte partita dallo spettacolo di Rau, un altro spettacolo, che a distanza di pochi giorni si è potuto vedere poco distante da Prato, al MAST di Bologna durante il Festival Vie.
Parliamo di The pixelated Revolution, un piccolo e intenso lavoro di Rabih Mroué, artista visuale, attore e regista che vediamo in Italia a dieci anni dal suo debutto (fu proposto anche a Documenta), una ancora attualissima lezione sulla rappresentazione della morte.
Mroué non recita, tiene una conferenza, seduto al computer, con tanto di fogli con la drammaturgia scritta che tiene a fianco, analizza, fotogramma per fotogramma, una serie di filmati registrati in Siria, durante le proteste del 2011.
Si tratta dei video che i manifestanti contro Assad mandavano in rete, spesso in presa diretta. Sgranati, registrati correndo o mentre avvenivano sparatorie. Non di rado questi video raccoglievano, tragicamente, gli ultimi istanti di vita di chi li registrava, perchè capitava che magari, mentre avevano il cellulare in mano, venissero colpiti.
Non entreremo nel dettaglio di questa interessantissima proposta, una delle vette di questa edizione del festival, ma la conferenza si conclude con l’analisi di un filmato, in cui una delle vittime, che sta sul terrazzo, affacciandosi al terrazzo stesso, guarda dal cellulare un cecchino. Lo riprende.
Il cecchino si accorge dell’uomo con il cellulare in mano e fulmineo gli spara.
Mroué attraverso una analisi quasi al fotogramma spiega perchè l’uomo sia morto.
L’artista libanese interrogandosi sul ruolo che hanno foto e video dei nostri cellulari nella documentazione della storia contemporanea e i video realizzati attraverso le telecamere, cerca di spiegare perchè quando l’inquadratura arriva sul cecchino, il siriano continui la ripresa, anche se il cecchino prende la mira per sparargli.
Non ha mai cercato di correre. Perché?
“Perché”, dice Mroué, “…l’occhio vede più di quanto non sia in grado di interpretare. Forse non capisce che sta per essere testimone della propria morte”.
”Sono molti i girati da telefono su scene di gravi ferimenti e morti come se la morte (quella vera, n.d.r.) accadesse solo fuori dal video” e quindi ciò che avviene nel filmato non potrà portare alla morte di chi lo registra.
In sostanza il video, il medium, che in senso letterale è via di mezzo, intermediario, per la nostra mente è sempre proiezione e mediazione, creatore di uno schermo, di una specie di protezione emotiva, un generatore di realtà finta.
Ed è per questo che l’uomo muore sparato dal cecchino: perchè guardando non il cecchino con i suoi occhi, ma attraverso il medium, legge quell’evento e quella geografia come un altrove astratto, quasi un videogame in cui non potrà morire mai.
Ecco che forse questa riflessione, riportata al discorso di Platel, e poi di Rau, e poi di Delbono, spinge poi questi artisti, profondamente, anche verso un inconsapevole, inconscio, profondo esorcismo: si prova a toccare da vicino qualcosa che in realtà si sa esser finta, anche quando vera.
L’occhio dello spettatore diventa tutt’uno con l’obiettivo del telefono, con la fotocamera, mentre fissa in una stradina un cecchino che fulmina la sua vittima. O con la telecamera che filma una donna che muore sul letto. A maggior ragione innocua. In fondo osserviamo fino all’ultimo respiro Johanna, sapendo che è un video.
Vero, ma è un video, ripreso da un medium, che crea una distanza, che ci sta separando, realmente e profondamente, da quello che vediamo. È altrove, non è avere la persona che ci muore davanti.
Abbiamo perso l’innocenza dei primi spettatori dei film dei fratelli Lumière, che quando videro per la prima volta il filmato del treno che stava arrivando si scansarono temendo che potesse essere vero.
Noi invece osserviamo Johanna morire, o inquadriamo il cecchino. E non fuggiamo, perchè in realtà, profondamente, ci rassicura che questa narrazione, per tornare a White, avvenga attraverso un medium, un filtro, una via di mezzo.
Al più cercheremmo di imparare, nel più comodo viaggio di sola andata dalla realtà alla narrazione.
Il cecchino alza lo sguardo, osservando il regista e il suo telefono con fotocamera. Sappiamo cosa accadrà dopo, ma i nostri occhi rimangono fissi sullo schermo mentre vediamo il cecchino mirare e sparare a che sta girando il filmato, il dispositivo di registrazione cade per terra, si sentono delle grida e il video si interrompe bruscamente.
Chi è il cecchino? Mroué nel video sgranato tenta di scoprirlo. Ingrandisce per vedere il volto dell’uomo, sempre più vicino, finché qualsiasi brandello di una caratteristica umana svanisce nell’astrazione.
Rimangono pixel di tonalità generate dal computer che riempiono i quadratini ingranditi. A ogni ingrandimento, il tentativo di rivelare la verità crea solo un’immagine più ambivalente. Ed è la nostra coscienza davanti alla morte ripresa.
Comunque e sempre con il biglietto di sola andata, che non prevede il ritorno dalla narrazione alla realtà.
Perchè la morte, dal vivo, è un’altra storia.
E solo l’aragosta può dircelo veramente.