EUGENIO MIRONE | Quattordici spettatori sono sparsi tra i sedili di una platea, un tappeto macchiato qua e là come il manto di un leopardo. Non c’è da stupirsi: per un mercoledì sera di una piccola sala teatrale della periferia milanese i numeri rientrano perfettamente nella media. Le regole del teatro sono chiare, a volte spietate, sia pure davanti a un solo spettatore pagante lo spettacolo deve andare in scena.
C’è una diceria diffusa, assurta a massima motivazionale, che solitamente viene riassunta in questi termini: il calabrone non possiede la struttura fisica per volare ma ignorando questo fatto vola ugualmente. Si tratta di un’immagine simbolica priva di fondamento scientifico, ma, in questo caso, permette di visualizzare un concetto per contrasto: al contrario del calabrone, infatti, ciascun professionista della scena è fortemente consapevole della fragilità in cui versa il sistema teatrale italiano, eppure, le città sono piene di uomini d’arte “appestati” – per dirla con le parole di Artaud – che vivono per condividere la luce del fuoco sacro che brucia dentro di loro.
Tra costoro c’è anche Carolina Cametti che con Bob Rapsodhy è riuscita a infiammare la piccola sala di Campo Teatrale, snodo creativo milanese che dal 1999 si occupa di formazione, produzione e diffusione di cultura teatrale nella zona di Lambrate.
Il testo scritto da Cametti e prodotto da Teatro dell’Elfo, con cui l’attrice diplomatasi al Piccolo Teatro di Milano collabora da lungo tempo, è stato segnalato al Premio Scenario 2019, come motivazione si legge: «un linguaggio che irrompe come pioggia intrisa di poesia». Ed è proprio il linguaggio drammaturgico, basato sulla tecnica narrativa dello stream of consciousness, la cifra caratteristica dell’opera.
In scena ci sono Carolina Cametti e una sedia, la performance dell’attrice ci ruota intorno, ma anche sotto e sopra. Sebbene la parola sia la componente predominante, la partitura drammaturgica si presenta come una tessitura di linguaggi tra i quali spiccano la danza, il design delle luci e il disegno sonoro. Il lavoro di amalgama tra i differenti codici comunicativi è lodevole.
Gianfranco Turco è autore di un commento musicale funzionale all’azione scenica. La dimensione sonora più di altri linguaggi aiuta a sottolineare i passaggi di ritmo all’interno della pièce oltre a svolgere un compito di sostegno per lo spettatore, costantemente abbagliato dalla forza febbrile dei movimenti e delle parole di Cometti. Il disegno luci vario e puntuale di Giacomo Marettelli Priorelli, invece, è l’elemento che permette di ampliare al massimo grado le potenzialità della scena, a testimonianza di come tramite un utilizzo intelligente delle luci anche uno spazio scenico di piccole dimensioni possa esser continuamente trasformato nei novanta minuti di performance.
Cometti comincia a raffica a sbobinare i primi centimetri del lungo nastro di parole che mettono a tema il desolante disagio dei tempi moderni. Non si tratta però di un cavallo senza briglie, una struttura sorregge intrinsecamente il testo e condivide alcuni tratti comuni al metro poetico della canzone. La partitura verbale, infatti, segue uno schema rimico ed è puntualmente inframmezzata da una formula che ricorre costantemente all’interno del testo, proprio come il ritornello di una canzone, in virtù della quale la pièce può esser suddivisa in strofe. All’interno di queste micro-sezioni del testo vengono espresse le immagini e i temi che contribuiscono al senso generale della performance.
Si è detto dell’inizio febbrile della pièce; bastano alcuni minuti, però, per far sì che il ritmo rallenti e l’emotività si ribalti. Si distinguono due storie, due variazioni sul tema dell’amore: dapprima l’amore ai tempi dei social network, quello in cui ci si giura fedeltà eterna tramite Skype, esplode in un’estasi incontrollata; in seguito, la scena si appesantisce di fronte al lamento sofferente di un innamorato.
Anche il pubblico viene interpellato in un momento artistico ben congegnato: nel buio della scena Cometti interroga gli spettatori sul tema profondo dell’amore inquadrandoli con il fascio luminoso di una grande torcia.
La costruzione scenica si adatta alla continua evoluzione del testo verbale. All’ingresso in una nuova sezione un gioco di luci intermittenti trasforma la scena nel basso di una discoteca. Mentre la musica tecno satura l’ambiente Cometti si lascia andare a movenze graffianti. Probabilmente, l’accento è posto sulla movida notturna intesa come uno degli strumenti giovanili più diffusi per attuare la fuga dalla realtà, e dalle tante incertezze del futuro. Poco importa perché il flusso di parole continui, l’unico elemento che fa da contrappunto alla fluidità della scena è la sedia, fissa al centro del palco.
Intanto un’altra micro-sezione si appresta a prender forma: un occhio di bue ritaglia un alone di luce fuxia dal fondo del palco in cui Cametti si muove in maniera sensuale. Tra versi di piacere e musica da strip club una giovane ragazza confessa a un ipotetico partner di aver rinunciato al proprio sogno. L’allusione è, forse, da riscontrare nelle vite delle numerose giovani – e non solo – che ricorrono alla prostituzione pur di garantirsi un sostentamento economico, mettendo in secondo piano l’amore e i progetti sul futuro.
La pièce si avvia verso una conclusione altrettanto suggestiva: un fascio di luce rossa fende l’aria appesantita dell’antro teatrale dove risuonano solitarie le parole dell’attrice pronunciate davanti a un microfono. Nel silenzio il rimbombo generato dallo strumento non amplifica ma fa risuonare la voce dell’attrice in una dimensione interiore. Le ultime riflessioni dello spettacolo sono espresse in un clima disincantato, simbolicamente rappresentato dalla performer per mezzo di un’impiccagione con il cavo del microfono.
In Bob Rapsodhy il corpo nervoso di Carolina Cametti è un prisma che riflette l’intero spettro delle ferite del tempo presente. L’innovativa partitura drammaturgica lascia lo spazio affinché un’anima irrequieta possa catalizzare in scena flussi, desideri, sentimenti e grida che puntualizzano sul grande paradosso della contemporaneità: come è possibile che nella società delle iper-connessioni donne e uomini percepiscano dentro di sé un enorme vuoto sintomo della solitudine che impera incontrastata?
Se esiste una risposta non è questa la sede per inseguirla; però, si potrà mostrare un fatto.: il vuoto di una sala occupata da quattrodici spettatori è stato riempito dalla carica adrenalinica di un’attrice desiderosa di esprimere la propria voce. Carolina Cametti insieme ai tanti artisti che continuano a metterci la faccia sono l’esempio di come il teatro possa continuare a essere uno dei pochi luoghi in cui sentirsi un po’ meno soli.
BOB RAPSODHY
testo e regia di Carolina Cametti
luci di Giacomo Marettelli Priorelli
suono di Gianfranco Turco
con Carolina Cametti
produzione Teatro dell’Elfo
segnalazione speciale Premio Scenario 2019
Campo Teatrale, Milano | 17 ottobre 2022