GILDA TENTORIO | Nell’intervallo sento mormorare accanto a me: “sono un po’ scioccato”. È la potenza di un classico, bellezza! Gli Elfi tornano a rappresentare Alla greca (1980) di Steven Berkoff (nella fluida e guizzante traduzione di Clerici-Manfridi), e lo fanno rivivere con lo stesso smalto di un tempo: è un magma verbale e anarchico che all’inizio ti scuote, ti travolge, ti stordisce. Ma devi abbandonarti al fiume, galleggiare fra le vivide immagini che parlano di vomito, scorregge, merda, fellatio, eiaculazioni, falli e vagine, farti prendere dalla mirabile inventiva oscena.
Accanto alla violenza linguistica c’è lo zucchero filato di una tenerezza a tratti malinconica, con quell’alternanza di toni in cui gli Elfi sono maestri: la crudezza viene infatti alleggerita dai toni parodici di un grottesco circense, espressioni da maschere e iperboli comiche. All’improvviso, quando meno te lo aspetti, ecco lampi di poesia e monologhi toccanti.
Gli attori storici Elio De Capitani (che firma anche la regia) e Cristina Crippa sono in gran forma, affiancati da una brillante Sara Borsarelli (Giocasta) e soprattutto dall’energico Marco Bonadei (Eddy-Edipo), che conferma il suo talento istrionico. Importante anche l’apporto della musica dal vivo (percussioni e sax), che crea svirgoli irriverenti, abbassamenti cartooneschi, commenti jazz o intensità emotive.
La ricerca degli Elfi prima e durante la pandemia si è volta a riscoprire Edipo, e adesso che forse cominciamo a vedere la fine del tunnel, ripropongono questa riscrittura irriverente del mito antico per tornare a un teatro sanguigno e vitale, che ti sferza con gli interrogativi fondamentali. Ci avevano già anticipato il potentissimo monologo della Sfinge (qui Cristina Crippa, in abiti etnici e dreadlocks), un femminile assoluto che urla contro l’uomo contemporaneo, un maschile pavido e passivo che sa soltanto macchiarsi di delitti e distruzione.
Forse i filologi storceranno il naso, perché Eddy scioglie il famoso enigma in senso fallocentrico e perché la risoluzione non è all’origine della catena di eventi che lo porteranno all’orrenda scoperta di essere parricida e incestuoso. Il testo infatti ci presenta la ribellione di un Eddy-punk alla ricerca della propria identità: è cresciuto con una coppia di genitori stanchi della vita, abbrutiti dalla miseria e dall’ignoranza (lui è fanatico di Hitler). Il suo mondo è dominato da corpo e parola, o meglio da un linguaggio che gronda corporeità. Lo senti nell’accumulo iperbolico di oscenità, lo capisci quando gli strani vaneggiamenti di uno zingaro hanno il peso di una profezia; lo vedi in scena quando Eddy “uccide” a parole il proprietario di un pub (in una spassosa sfida quasi da rap freestyle) senza sapere che è il suo vero padre e ne sposa la moglie, senza sapere che è la sua vera madre. La ferocia linguistica, domata da questi splendidi attori con bravura acrobatica, sa anche dispiegarsi in angoli di tenerezza e in vibranti dichiarazioni d’amore, dove il sublime confina con l’osceno e viceversa.
In questa resa cupa e giocosa degli Elfi l’orrore si stempera in ghigno amaro. A colpire è senz’altro l’energia di Eddy, un ribelle che vomita la sua inquietudine ma è capace poi di accomodarsi in una piatta vita borghese, da imprenditore di fast food. Eppure la tragedia è dietro l’angolo, e lo si sa, perché la città continua a rantolare: co-protagonista è infatti una Tebe-Londra quasi apocalittica, preda dell’inquinamento, della violenza degli hooligans e dei sanguinosi attentati dell’IRA, la metropoli convulsa di fine anni ’70 – inizio ’80, una gabbia vischiosa che ti avvolge e da cui non puoi uscire. Non è la polis antica di cittadini, ma una realtà frammentata in isole di solitudine e di egoismi violenti. La città è lacerata da una piaga purulenta e vermicosa, corrosa da miasmi, percorsa da frotte di grossi ratti.
Berkoff infatti immagina che la peste sia connaturata alla realtà urbana dell’uomo contemporaneo: esiste da sempre, non è un male soggettivizzato che dipende dalla colpa di Edipo, bensì un fattore strutturale che sgretola la società. È la malattia dell’individualismo spietato, del consumismo senza limiti, del tritatutto thatcheriano che in nome del benessere luccicante di pochi ignora e schiaccia i più deboli.
La sferzante denuncia di Berkoff assume oggi le ombre della “peste”-Covid, periodo in cui abbiamo vissuto un altro tipo di isolamento, restrizioni, solitudini…
Geniale è la scenografia su tre piani: Eddy-Edipo quando monologa si trova in basso, quasi a cercare un contatto con il pubblico, in una piattaforma che poggia sulla ghiaia, a indicare il lercio dei bassifondi londinesi; nel piano rialzato si dipana la vita di Tebe-Londra: nella prima parte è lo squallore della periferia in cui il protagonista si crogiola in giornate monotone scandite da birra, risse, volgarità, fra un’umanità derelitta, malata di solitudine e disperazione, poi sarà lo scintillante mondo del benessere borghese di Eddy self-made man. Una barra sospesa basculante (che è balaustra da cui affacciarsi, ma anche tavolo, bancone del pub, palo per la lap dance) segna il confine tra il mondo di Eddy e la girandola della vita che gli scorre intorno, di cui è spesso spettatore o ascoltatore.
Al piano superiore, i musicisti, che regalano un commento delicato, una valvola d’ossigeno e di auto-ironia.
Il finale è una cavalcata lirica che ti lascia senza fiato. Eddy finalmente ha scoperto la banalità della propria storia ma non può ripetere il modello antico. Perché accecarsi e privarsi della vista dell’amata, “sacra madre e sposa”, fonte di vita e abisso di piacere? In questo mondo senza più eroi, dove la tragedia sfuma nella farsa, si disegna il fragile orizzonte della speranza, che parla di un amore primigenio e ancestrale, un eros fluido che non conosce tabù e frontiere, un ricongiungersi libero alla carne della propria carne per riconoscersi finalmente.
ALLA GRECA
di Steven Berkoff
traduzione di Carlotta Clerici e Giuseppe Manfridi
regia di Elio De Capitani
con Elio De Capitani, Cristina Crippa, Sara Borsarelli, Marco Bonadei
costumi di Andrea Taddei
scene di Thalia Istikopoulou riprogettate e realizzate da Roberta Monopoli
musiche di Mario Arcari eseguite dal vivo da Mario Arcari, Tommaso Frigerio, Giosuè Pugnale
luci di Nando Frigerio
suono di Marco Sorasio
assistente alla regia Alessandro Frigerio
assistente ai costumi Elena Rossi
produzione Teatro dell’Elfo e Campania Teatro Festival
Milano, Teatro Elfo-Puccini, 29 ottobre 2022 – fino al 13 novembre