ELENA ZETA GRIMALDI | Si è conclusa da qualche giorno la prima edizione del Catania Off Fringe Festival che ha riempito la città siciliana di eventi, spettacoli, concerti, laboratori per quasi un mese, facendo incontrare (tra loro e col pubblico) più di cinquanta compagnie provenienti da tutto il mondo.
Dopo un primo giro di visioni che ci ha portati dalla Sicilia al cuore dell’Europa fino in Argentina, siamo tornati a curiosare nella programmazione della festa del teatro indipendente per eccellenza.

Lemour, Love’s left hand

Nell’attesa di entrare in sala la prima settimana, l’orecchio teso ha intercettato una conversazione tra alcune spettatrici che parlavano con entusiasmo di uno spettacolo: Love’s left hand, della compagnia austriaca Lemour – Physical Theatre. Cogliendo l’involontario consiglio, siamo andati a vedere la penultima replica in programma, capendo immediatamente il perché di tanto apprezzamento: Love’s left hand è uno spettacolo travolgente, dolce e ironico allo stesso tempo nel parlare di una tematica troppo spesso banalizzata, l’amore, senza utilizzare nemmeno una parola. È infatti il corpo dei tre performer in scena, le loro espressioni da cinema muto del secolo scorso e le musiche – a tratti di accompagnamento a tratti facenti le veci di vere e proprie battute – a raccontarci la storia di questa innamoratissima coppia (Sarah Kerneza e Ben Petermichl) che dopo una giornata di corteggiamenti, arrivata tra le lenzuola, si scontra con l’evidenza che l’amore reale non è come quello dei film: i tentativi di atteggiarsi a femme fatale o a macho che non deve mai chiedere falliscono in un’esilarante sequenza di acrobazie che finisce in un nulla di fatto e i due che si rifugiano sconsolati ognuno a casa propria. A venire in soccorso dei due amanti c’è un terzo eccentrico personaggio (una dirompente e metamorfica Miriam Kerneza), un po’ artista di strada e un po’ mago di vita, che li guiderà alla scoperta delle proprie possibilità e dei propri limiti, fino a sorpassare il concetto stesso di ‘stereotipo’. Ovviamente la storia ha un lieto fine – non potrebbe essere altrimenti – ma non è importante: la cosa più interessante è l’intelligenza con cui la compagnia gioca con il desiderio della convenzione, senza mai banalizzare né l’aspirazione di avvicinarvisi né il bisogno di non tenerne conto. Durante lo spettacolo, mischiando la vicenda verosimile con scene degne dei migliori sogni a occhi aperti, tutti gli attori cambiano sesso, tra burlesche esibizioni su tacchi invisibili e gruppi di amici che brindano con le birre in mano. Forse qualche raccordo narrativo risulta non indispensabile e fa calare un po’ l’attenzione, ma, d’altro canto, la riuscitissima prova fisica dei performer richiede uno sforzo non indifferente (anche se loro sembrano sempre freschi come rose) e qualche momento per riprendere – sempre relativamente – fiato è comprensibile. Apprezzabile come gli attori si cambino d’abito o facciano partire le musiche sempre rigorosamente in scena senza che diventino azioni di servizio, ma al contrario riuscendo a trasformarsi come per magia proprio sotto il naso del pubblico. Uno spettacolo ben pensato da una compagnia evidentemente affiatata in grado di gestire la scena con professionalità, apprezzabile da un pubblico più e meno abituato ad andare a teatro.

Officine Gorilla, Riportami là dove mi sono perso

Il secondo spettacolo nel nostro programma parla anch’esso d’amore, più precisamente di come la «società liquida» in cui viviamo, «che ci vuole produttivi e performanti, destabilizza gli equilibri di coppia di Emma e Theo», protagonisti di Riportami là dove mi sono perso, della compagnia Officine Gorilla.
Lei, ragazza determinata e precisa che pensa al futuro, ha un lavoro salariato che non la entusiasma ma che offre possibilità di carriera, lui, ironico e sognatore che vive il presente, lavora come freelance precario nell’editoria; da un’iniziale diatriba sul tenere in ordine gli spazi comuni, nel giro di un mese la loro relazione si frantuma, scoprendo alla fine che sotto c’è anche qualcos’altro. Tutto lo spettacolo si svolge nel salotto di casa, con un tavolo sommerso di carte al centro e tre porte disegnate con tubi bianchi, da cui i due raggiungono le altre stanze. Tutto l’impianto – registico e drammaturgico – mira a far sentire lo spettatore una sorta di voyeur che spia la realtà dentro la casa, ma a volte la verosimiglianza s’incrina, per esempio quando i due attori si muovo al rallentatore nel passaggio temporale che collega due scene, mentre in altri raccordi viene utilizzato un semplice cambio luci o soluzioni narrative più realistiche. Anche la drammaturgia sembra mirare alla verosimiglianza (probabilmente molti spettatori si saranno ritrovati nei dialoghi tra i due), con picchi di ironia e scambi di battute piacevoli e con un buon ritmo, ma che risultano spesso un po’ forzate proprio nei momenti più importanti, quelli dei litigi: si dicono in faccia tutto, hanno sempre le parole pronte per controbattere, niente sembra nascosto, trattenuto o dissimulato come normalmente accade in questi casi, pochi sono i momenti di esitazione, di metabolizzazione di ciò che sta accadendo; e questo si avverte anche nei due attori, che in questi momenti risultano meno convincenti rispetto al resto dello spettacolo in cui vestono a pennello i panni dei personaggi. I battibecchi tra i due segnano il tempo in cui la crepa nella loro relazione diventa uno squarcio irreparabile, tra alti e bassi in cui l’amore prende il sopravvento sulla ragione e viceversa, diventano in fondo l’impalcatura della storia che vediamo compiersi davanti ai nostri occhi.
Chi scrive è uscita da quella sala ponendosi domande che già si era posta durante la propria vita – e non ha la pretesa di essere l’unica ad averci pensato −: quanto le relazioni tra esseri umani (d’amore, amicizia, lavoro che siano) sono influenzate dalla società in cui avvengono? Viviamo in un tempo, sotto questo aspetto, eccezionale o è sempre stato così? Personalmente, l’impressione è che nello spettacolo non si trovino risposte a questi interrogativi – per fortuna –, ma nemmeno incipit di riflessione – purtroppo – che possano far vedere la questione sotto una luce diversa. Sicuramente l’idea è ammirevole, ma il rischio è che qualche intrusione in voice over di un telegiornale non basti a inserire a pieno l’argomento senza che venga surclassato dalla storia di un amore che finisce perché, pur a fronte di un profondo affetto, i partner hanno esigenze, prospettive e modi di vedere che non si soddisfano reciprocamente.

Bressan/Romondia, IDONTWANNAFORGET

L’ultimo spettacolo visto di questo primo Fringe catanese è IDONTWANNAFORGET, di Bressan/Romondia, liberamente ispirato all’opera The ballad of sexual dependency di Nan Goldin, fotografa estremamente prolifica che immortalava la sua vita in maniera quasi maniacale, senza mettere in posa nessuno e niente, fissando sulla pellicola «attimi quotidiani, volti che ha amato, momenti sgranati, sovraesposti, catturati per ricreare un album di ricordi».
In scena una spigliata Marina Romondia e Nicolò Sordo dialogano tra loro e con gli spettatori, parlano al pubblico di come hanno incontrato la storia di Nan Goldin, raccontano la vera e propria indagine che hanno condotto per rintracciare le motivazioni di tanti scatti, si confrontano sull’interpretazione degli indizi e si interrogano su quanto parlino a tutti noi. Alle loro spalle un muro di scatoloni che subito dopo l’inizio verrà distrutto e rimontato in diverse forme, trasformando i cartoni in palazzi, lapidi, muri. Lo spettacolo-narrazione diventa spettacolo-riflessione, utilizzando la storia di Goldin per (ri)pensare al valore della memoria e del ricordo, di cosa ricordiamo e cosa no, di quanto i nostri ricordi siano reali e se la verità delle immagini che abbiamo del nostro passato sia davvero importante. I dialoghi dei due sono intervallate da proiezioni delle foto della Goldin, durante le quali spesso vengono recitate al microfono le parole della fotografa, tra cui un autoscatto dopo essere stata picchiata dal fidanzato. Questo episodio dà l’assist per inoltrarsi a fondo in uno dei concetti chiave dello spettacolo: non è tanto importante se il ricordo è bello o brutto, doloroso o felice, di denuncia o di riflessione, l’importante è lo «sforzo umano, umanissimo, di non voler dimenticare nulla». E, a poco a poco, inoltrandoci sempre più dentro la figura della Goldin, verrà a galla anche il perché.

 

LOVE’S LEFT HAND

di Lemour – Physical Theatre
con Sarah Kerneza, Miriam Kerneza, Ben Petermichl
musiche Silvio Sinzinger
produzione LEMOUR – Physical Theatre
(durata 70 min)

 

RIPORTAMI LÀ DOVE MI SONO PERSO

regia e drammaturgia Luca Zilovich
con Maria Rita Lo Destro, Michele Puleio
luci Enzo Ventriglia
musica originale Dado Bargioni
costumi Alice Rizzato
produzione Officine Gorilla e Teatro della Juta
(durata 60 min)

 

IDONTWANNAFORGET

di Bressan/Romondia
regia Marina Romondia
con Marina Romondia, Nicolò Sordo
luci Andrea Berselli
produzione Bressan/Romondia
(durata 55 min)

 

Visti a Catania Off Fringe Festival il 28 ottobre 2022