RENZO FRANCABANDERA | Lo spazio è fin da subito, all’ingresso del pubblico in sala, movimentato da un vivo fuoriscena, visivo e sonoro sui lati destro e sinistro del palco, come a voler animare una narrazione che viene dall’esterno dello spazio ufficiale cui tipicamente viene riservata l’azione attorale.
Il teatro genovese Gustavo Modena, peraltro, liberato parzialmente delle quinte, offre allo sguardo di chi vi accede un’apertura davvero ampia. Sulla sinistra un pianoforte e poi, ancora oltre, una serie di oggetti che comunque l’occhio non distingue precisamente nella penombra, cosa che avviene identicamente nella parte destra del palcoscenico. La ragione di questa luce fioca in cui vengono accolti gli spettatori mentre una voce off parla in greco moderno, e soprattutto l’esigenza di avere sgombro lo spazio dell’azione si intuiscono di lì a poco, quando inizia Lemnos.
Dopo un avvio che chiaramente rimanda alle tragiche sorti di una vicenda della Grecia moderna di cui diremo oltre, lo spettacolo si sviluppa subito con una narrazione filmica in proiezione, che quindi richiede lo spazio vuoto per tutta l’ampiezza dello schermo a fondale.
Siamo in auto, di notte, per vie non trafficate di una strada periferica che costeggia, dall’alto, una costa frastagliata: il tipico paesaggio greco, con strade fatte di continue curve, e asfalto talvolta sconnesso illuminato dai fanali dell’auto. Due persone a bordo parlano: sono il maturo e cinico Ulisse e il più giovane insicuro e quasi complessato Neottolemo, il figlio di Achille.
Vanno a riprendere, con l’inganno, Filottete dall’isola di Lemnos per farlo tornare con loro a Troia, insieme alla faretra di Ercole che ha con sè.
La nuova regia di Giorgina Pi, andata in scena in prima nazionale al Gustavo Modena, prodotta dal Teatro Nazionale di Genova insieme a Emilia Romagna Teatro ERT e TPE, si intitola però come l’isola, non come il personaggio che la abitò per dieci anni secondo la leggenda.
Si tratta di uno spettacolo che vuole rileggere in chiave attuale il mito di Filottete a seguito di un’indagine letteraria, storica, antropologica e psicanalitica condotta dalla regista e Bluemotion insieme alla compagnia e al dramaturg Massimo Fusillo, in una serie di riverberi attraverso i quali la vicissitudine psichica dell’eroe, abbandonato ma resistente, si confronta con quella di chi lo ha condannato all’esilio, ricavandone un confronto eroico che passa per la storia della Grecia moderna e per il ruolo stesso del teatro.
A questa rilettura concorrono in modo vivo non tanto i basilari derivanti dall’archetipo drammaturgico sofocleo, quanto le riscritture del mito del secolo scorso, quando Filottete divenne emblema poetico delle vittime della brutalità umana, in riletture che ebbero a che fare con le vicende storiche di diversi paesi (nel caso italiano Dario Fo ebbe a paragonare Moro a Filottete, ad esempio).
Una declinazione in direzione ulteriormente differente dell’emarginato Filottete si ha del ‘77 in una poesia di Adrienne Rich allorché la poetessa femminista, resa pubblica la sua omosessualità, denunciò in quello scritto la propria penosa condizione di esilio dal consesso sociale.
Lemnos si fa contaminare da queste suggestioni letterarie e ideologiche in modo ampio: da Yannis Ritsos (che ne scrisse una versione teatrale fra il 1963 e il 1965 in un intervallo di tempo fra due periodi di confino), alle poetesse femministe Rich e Hélène Cixous, fino al Nobel Derek Walcott.
Quest’ultimo sia in Omeros, che in The Isle is Full of Noises, testo a lungo restato inedito, ebbe la volontà di coniugare mito e modernità, ambientando Filottete ai Caraibi; narrò nel dramma la vicenda dell’isolamento autoimposto da parte di un vecchio primo ministro delle Indie Occidentali, contro la corruzione della politica. La celebre ferita di Filottete ha in questo personaggio un’origine morale più che materiale, «segno della sofferenza del popolo, della corruzione del potere» e guarirà quando l’isola tornerà in mano agli onesti.
Ma chi è Filottete e perchè ha l’arco di Eracle e un vulnus che lo azzoppa?
La figura mitologica di Filottete, spesso rappresentata nell’iconografia pittorica ferita a un piede (e zoppa con la stampella è Gaia Insenga che interpreta l’eroe nello spettacolo), risultava nelle leggende tra i pretendenti di Elena e come tale si era unito alla spedizione contro Troia, alla testa di una non piccola armata (sette navi con cinquanta rematori e abilissimi arcieri – Il. II. 716 sgg.).
La vicenda lo faceva assegnatario di arco e frecce ricevute da Eracle, cui aveva praticamente dato la morte, su richiesta stessa del semi-dio, appiccando il fuoco alla sua pira, e così facendo, mandandolo nell’Olimpo fra gli immortali. A quel punto, per ringraziarlo, Eracle, gli fece regalo delle sue armi in punto di morte, chiedendogli di non rivelare il luogo del rogo.
Ma…
A mito si intreccia mito.
Era destino che Troia non potesse cadere senza l’uso di queste frecce, e i Greci spedirono ambasciatori da Filottete per sapere dove fosse avvenuto il rogo e dove fossero le armi di Eracle, e Filottete, non volendo violar la promessa né tradire i Greci, indicò con un piede la sepoltura. Come fatale punizione l’eroe non arrivò a Troia, perchè prima di giungerci fu morso da un serpente (secondo altri da una stessa freccia di Eracle avvelenata), e da quel momento ne ebbe una piaga incurabile e purulenta, talmente puzzolente da spingere i suoi compatrioti ad abbandonarlo su un isola deserta, Lemnos appunto.
Qui rimase dieci anni, costretto a cibarsi di uccelli che catturava con le frecce del famoso arco, in una desolante solitudine, mentre intanto la guerra degli Achei contro Troia continuava senza successo.
E qui arriva un nuovo colpo di scena nell’intreccio mitologico: il troiano Eleno (il figlio di Priamo, fratello gemello di Cassandra, capace di vaticinare il futuro) che era stato fatto prigioniero dai Greci, predisse che Troia non poteva cadere a meno che Filottete non fosse tornato a combattere con l’arco e le frecce avvelenate di Eracle.
A quel punto i Greci mandarono Diomede e Ulisse (o Diomede e Neottolemo, e da ultimo, nel Filottete di Sofocle, Ulisse e Neottolemo), a Lemnos, a riportare Filottete a Troia con l’inganno.
Giorgina Pi abbraccia la scelta di Sofocle e sceglie per il duo composto dal re di Itaca e dal figlio di Achille.
E qui torniamo appunto all’esterno notte in macchina con la coppia che all’inizio non vediamo, nel filmato che riprende l’auto per strada, ma che di lì a poco entrerà in scena.
I due uomini (un maturo e militaresco Giampiero Judica e un tormentato e insicuro Gabriele Portoghese) organizzano il piano, secondo cui il giovane dovrà ingannare Filottete facendogli credere di essere perseguitato da Ulisse e dagli Atridi. Il piano riesce, l’eroe malato consegna le armi prima di cadere addormentato per la febbre del male che lo divora.
Ma Neottolemo, preso da una crisi di coscienza, decide di non partire lasciandolo sull’isola e senza le armi per poter sopravvivere e a quel punto confessa la verità, alzando al rango eroico il valore della strenua e solitaria resistenza dell’eroe abbandonato e, di fatto, torturato con un esilio di privazioni.
Sono quindi sia Filottete che Neottolemo i protagonisti di queste riletture contemporanee del mito.
Lemnos, terzo atto di una ideale trilogia di Giorgina Pi che comprende anche Tiresias e Guida immaginaria, muove dal mito per arrivare alle vicende biografiche, i diari, le poesie, i racconti delle tante persone antifasciste greche che vennero confinate, torturate, uccise in Grecia dal 1946 al 1974. In questo legame con la storia greca più vicina, cruciale è la presenza in scena di Alexia Sarantopoulou, che non a caso apre (e chiude) lo spettacolo.
Come fa notare giustamente Dimitris Maronitis in un bel saggio a proposito del Filottete di Ritsos confrontato con quello di Sofocle, l’eroe esiliato, nella scrittura di Ritsos così come nel finale di questo Lemnos che di questa riflessione politica si nutre, trasforma l’abbandono violento sull’isola di Lemno in un ritiro solitario, scelto per riconquistare e preservare una dignità umana, sostituendo le chiacchiere vane con un silenzio pensoso. Così il mitico arciere che aveva le armi di Eracle è diventato nel secolo scorso asceta solitario, straniato da quanti lo hanno gettato su un’isola deserta e ora ne reclamano il ritorno per i propri fini, come salvifica icona da sventolare per consolidare il potere.
Nella sezione della trama che riguarda la riscrittura del mito, Giorgina e Bluemotion scelgono la strada di Walcott, che attribuisce a Neottolemo, come riscatto personale, un rifiuto nei confronti della politica dello scaltro personaggio che lo accompagna (che in Sofocle è Odisseo, in Walcott lo zio) fino a scegliere di ostacolare i progetti dell’uomo più potente, schierandosi nella lotta dalla parte dell’eremita.
Il giovane (e così Portoghese anche nello spettacolo) diviene così, via via, il vero protagonista del dramma: il rifiuto della propria natura per adattarsi al contesto sociale rappresenta la ferita di Neottolemo, che attraverso il suo riscatto e la scelta di rivelare a Filottete il piano di Ulisse, sceglie da che parte stare, se da quella del potere costituito e della ragion di stato, o da quella della resilienza morale, pur nella solitudine dell’abbandono, dell’esilio, del tormento.
Di converso, al Filottete walcottiano spetta più propriamente il ruolo di ‘protagonista morale’, icona anche delle battaglie sul genere nella società di oggi, sembra voler dire Giorgina affidandone l’interpretazione alla Insenga invece che a un interprete maschile, abbracciando così in modo ideale la lettura della Rich, anche con la presenza nella compagine attuale della femminilità ulteriormente diversa di Aurora Peres.
Tanto le oscurità scalfite con misura e attenzione delle luci disegnate da Andrea Gallo quanto il commento musicale di Cristiano De Fabritiis e Valerio Vigliar per il Collettivo Angelo Mai, costruiscono un buio spazio psichico, in cui avviene un confronto fra personalità profonde che si rivelano a se stesse prima, e alla società poi, rivendicando uno spazio identitario.
I costumi di Sandra Cardini raccontano in modo evidente questa dicotomia fra essenza dell’io e rappresentazione dell’immagine sociale: solo Ulisse non dismette mai i panni del militare, in una tragica coincidenza fra persona e personaggio, dove la prima finisce per coincidere con il secondo, come sembra esigere la ragion di stato.
In tutte queste scelte la regia di Giorgina Pi prosegue in quel progresso personale dentro la tessitura della complessità dei segni della scena, visibile in modo chiaro nelle creazioni degli ultimi anni, con un ulteriore slancio dato proprio dal nitore del confronto con il fatto storico, con la riscrittura dentro una vicenda reale.
Il segno con cui lo spettacolo inizia, una donna al piano che suona mentre sullo strumento c’è la bandiera del partito comunista greco, nella seconda parte dello spettacolo (e poi ancora più chiaramente nel finale), si avvinghierà alla vicenda del Filottete, alla questione politica enfatizzata da Walcott e Ritsos, ricordando in particolare i massacri e le torture sull’isola di Makronisos.
Il massacro del primo battaglione genieri è stato l’omicidio di massa di 350 combattenti greci, imprigionati nell’isola-prigione di Makronisos perpetrato dalle guardie del campo: ebbe luogo tra il 29 febbraio e il 1 marzo 1948, durante la guerra civile greca.
Dopo lo scoppio della guerra civile, infatti, l’esercito ellenico cercò di “ripulire” i suoi ranghi da personale “politicamente inaffidabile”. E così partire dall’estate del 1946, ex combattenti del fronte comunista e molte persone sospettate di nutrire simpatie di sinistra furono trasferite nel maggio 1947 alla prigione militare di Makronisos: furono poco meno di 10.000. Nel famoso massacro ne furono ammazzati 350.
In quel tempo nella prigione, furono detenuti molti artisti e teatranti che regolarmente continuarono ad allestire spettacoli, cercando con quella pratica di tenere viva la dignità personale e la resistenza. Provarono, come atto di protesta, a rappresentare anche il Filottete, sul tema dell’esilio e del confino politico, nel 1948, ma quella rappresentazione fu interrotta una volta che il senso dell’allestimento fu chiaro, e sullo spettacolo si abbatté la censura dei carcerieri.
In un pregevole volume intitolato Theatre of the condemned, Gonda Van Steen esamina gli allestimenti di tragedie classiche messe in scena dai prigionieri politici della guerra civile greca (dalla fine degli anni Quaranta agli anni Cinquanta), spiegando il contesto storico e politico in cui sono nate queste produzioni, le selezioni effettuate dai detenuti e le condizioni pratiche in cui sono state realizzate le rappresentazioni, dedicando attenzione anche agli atti di censura delle autorità penitenziarie.
Giusta enfasi, sia nel libro che nello spettacolo, viene posta sull’interpretazione che i detenuti politici hanno dato a questi atti creativi e sulla logica socio-politica alla base delle riletture specifiche. Dall’Antigone di Aris Alexandrou, uno dei prigionieri, alle testimonianze del regista Nikos Kondouros fino alla coreografia ideata da Ritsos per il coro de I Persiani nel 1951, si ricava testimonianza delle dure torture subite in quegli anni, in cui comunque gli artisti dissidenti si ostinarono al teatro: il memorabile allestimento del Filottete nel 1948, al cui ricordo questo spettacolo dedica il finale, è una pietra d’inciampo centrale in questo cammino.
Non a caso, quindi, il gruppo di artisti di Bluemotion ha scelto di ricordare nel titolo di questo spettacolo non il personaggio, ma l’isola di Lemnos, in modo da creare un parallelo ancora più evidente con la geografia emotiva del conflitto alle dittature che si ebbe sull’altra isola con cui lo spettacolo termina, quella di Makronisos, appunto.
I campi di prigionia furono chiusi nel 1957 mentre le carceri militari rimasero operative fino all’ottobre 1960.
Il primo resoconto del funzionamento della prigione fu pubblicato nel 1966 dall’ex detenuto Nikos Margaris.
Nel 1989, il Ministero della Cultura greco ha dichiarato l’isola di Makronisos un sito storico e tutti gli edifici del campo militare sono monumenti di rilevanza storica protetti. Fra questi il teatro, che in quegli anni continuò ad essere viva espressione della dissidenza e della resistenza culturale e psicologica di tutti i Filottete che dovettero esservi imprigionati.
Da questo punto di vista, la preziosa testimonianza e il lavoro compiuto della compagnia, ricuciti dentro una tessitura drammaturgica accorta del classico, aprono a considerazioni sull’obbligo di una tenacia del pensiero nel tempo presente, in cui ancor più rilevante è il ruolo dell’arte come vettore di messaggi di libertà e resistenza rispetto all’abbrutimento del genere umano: da Ritsos a Walcott, da Makronisos a Lemnos, attraversando sempre il medium del teatro.
LEMNOS
ispirato al mito di Filottete
drammaturgia Giorgina Pi con Bluemotion
regia, video e scene Giorgina PI
dramaturg Massimo Fusillo
con Gaia Insenga, Aurora Peres, Gabriele Portoghese, Alexia Sarantopoulou, Giampiero Judica
ambiente sonoro Collettivo Angelo Mai
arrangiamenti e cura del suono Cristiano De Fabritiis, Valerio Vigliar
costumi Sandra Cardini
luci Andrea Gallo
colorist Alessio Morglia
produzione Teatro Nazionale di Genova / ERT / TPE
in collaborazione con Bluemotion e Angelo Mai