RENZO FRANCABANDERA e GIAN LORENZO FRANZÍ | GLF – “Ho scelto di provare a porre lo sguardo sul tormento, in particolare su un preciso tipo di tormento, quello che può capitare di esprimere a un essere umano”: a parlare è Mariano Dammacco, che insieme alla sodale Serena Balivo da anni indaga i chiaroscuri dell’arte quando si intride nelle pieghe più profonde e oscure dell’animo umano.
E Danzando con il mostro nasce dalla loro felice, insolita e quanto sulla carta improbabile unione con Roberto Latini, uno degli autori di teatro contemporaneo più personali e innovativi per stile, ricerca e risultati.
Lo studio della loro rappresentazione, vista in anteprima a Primavera dei Teatri 2022, prima dell’inizio della tournée che sta già toccando altre città come Bologna in questo mese di Novembre, è un confronto diretto, incessante, ironico, spiazzante con i mostri di oggi. Che, indipendentemente da chi siano, ci guardano mentre nietzschianamente noi guardiamo loro per capirli e capirci.
RF: L’allestimento ha a che fare con stilemi drammaturgico-estetici che combinano la pratica del duo Dammacco-Balivo alla poetica di Latini, e infatti nella squadra di questa coproduzione entrano anche le musiche di Gianluca Misiti e il disegno luci di Max Mugnai, da anni impegnati con Latini nei suoi spettacoli. La scena si presenta come un antro buio, in fondo al quale, con luci intonate alla cifra calda ma fioche, si staglia una sorta di cortile interno con finestra, che ha molto le sembianze di un teatro nel teatro. In primissimo piano, in proscenio, una fila di bicchieri di cristallo in gran numero, perfettamente allineati. Sui due lati del palcoscenico, più vicini allo spettatore che al fondale, due gradinate, quasi a raccontare due tribune diverse. Ma che diventano comunque parte di un triangolo con un vertice silente, o almeno che resta tale a lungo.
GLF: “Ho provato a porre lo sguardo sul tormento di un essere umano fortunato, che vive in condizioni dignitose, che non conosca la schiavitù o la guerra o la malattia, che in teoria ha tutto per essere felice. Il tormento che una persona può dare a sé stessa e da sé stessa subire”
Con Roberto Latini, i ricordi prendono forma sulle ombre e si traducono in suoni, glotti, radici: le immagini vengono processate dal cervello, salgono alle gole e si mescolano con il presente.
In scena, una vetrata sta sullo sfondo: lastre decorate con stile liberty, una scala per raggiungere il balcone da cui accedere al retro dalla parte più alta, con una finestra.
E davanti, per terra, due corpi.
Che si alzano non appena si alza il sipario, circondati da una lunga filiera di calici di vetro vuoti e aste insolitamente alte.
Hanno delle bende sugli occhi, e sono vestiti in pieno stile anni ’30: lui ha un cilindro vistoso, le un vestito lungo che le lascia la schiena nuda.
I loro fonemi sono disciolti nel vissuto: parlano, emettono suoni che hanno un senso che non è logico, ma emotivo.
In scena sono Latini e Balivo: la rodata complicità di lei con Mariano si infrange per unire la fisicità e la vocalità malleabile di lei con quella altrettanto morbida e ruvida dell’autore di In Exitu. Che è una presenza dirompente, dal tratto vocale inconfondibile ma non solo. Perché quando Roberto Latini parla è un buco nero, risucchia tutto ciò che è intorno a lui e se lo fa gravitare addosso.
RF: I due nel loro farsi interpreti hanno a che fare con i personaggi che hanno attraversato nel recente passato. Latini ricorda quel mago che si esibiva in bilico sulla trave nella sua ultima regia. Ma anche un po’ Pinocchio, quando si porta, infreddolito dalla sua stessa fragilità, davanti a un faro che emette luce arancione e di fronte al quale prova a scaldarsi allungando le mani, un rimando che, seppur non esplicitamente, richiama alla memoria comunque l’iconografia cui l’attore ha dato vita in questi anni. Forse nel caso di Serena Balivo, invece, viene operato un più netto esercizio di distacco, anche mimico, dal canone dei personaggi attraversati di recente, dove lei, interprete feticcio di Dammacco, incarnava tutte le complessità che il drammaturgo-regista ricamava nei suoi testi.
In qualche forma, dentro questo antro buio di Danzando con il mostro, sembra di vedere qui e lì qualche voluto rimando, matrioske di identità, come se il linguaggio volesse e dovesse essere necessariamente processo di quello che si è stati. A volte lo è fino al punto da diventare processo a quello che si è stati, che è in fondo il cuore del testo.
In diverse sue parti, ma in modo chiaro fin dall’inizio, riecheggiano forti i temi cari alla poetica di Dammacco, quelli dell’incompiutezza, del fallimento, reale o percepito, quelli della fragilità, reale o percepita. O meglio ancora, quella auto-percepita. Una delle figure poetiche che si staglia non solo nella memoria ma anche nell’azione spettacolare è quella che riguarda un uomo, che si porta fin sulla soglia del suo finestrone, pronto a buttarsi giù. Viene salvato, racconta lei: riesce a trascinarlo al di qua, ma proprio in quella caduta di lui dentro uno spazio di salvezza, l’uomo si fa in mille pezzi.
La figura di cui si parla, il suo riflesso incarnato, il riverbero delle vicende, è la terza presenza in scena, quella dello stesso Dammacco, che non prende parte attiva a quanto avviene sulla parte prossima al pubblico del palcoscenico, abitata solo dai due attori, ma resta sempre chiuso dentro questa casa teatrino, la cui peculiarità è ovviamente la finestra stessa, su cui gioca a portarsi, come a voler dar vita, in diretta, a quell’atto conclusivo che invece non aveva il coraggio di porre in essere nel testo.
Un personaggio un po’ burattino di guarattelle, pulcinellesco, di bianco vestito e con la maschera a nasconderne il sembiante. Nella sostanza parrebbe una sorta di costellazione poetico teatrale sul tema dell’identità, che diventa quasi autobiografia nella parte in cui il regista, nel finale, si concede una sorta di invocazione, lamento, richiesta di perdono all’universo mondo in dialetto barese, terra di origine.
GLF: È per questo che il lavoro a sei mani diventa una collaborazione contaminata che pende inevitabilmente, in scena, dal mio personale punto di vista a favore di Roberto Latini, lasciando al duo l’apertura alla contaminazione e alla sperimentazione dei codici e dei linguaggi: e a lui, un monologo finale straziante, doloroso, prorompente, che travolge con la potenza della vita il petto dello spettatore.
Il tratto comune, ad ogni modo, rimane la volontà di tutti e tre gli autori di chiamare in causa il tormento senza nome che per Dammacco e Balivo è uno spettro che deforma la mente, per Latini è un enigma insoluto al centro dell’anima la cui soluzione può trovarsi solo indagando sulla sua specificazione fonetica.
La cornice di Danzando con il mostro è l’eco di un romanzo gotico, con lo slancio verso l’alto della vetrata ma anche delle aste: e soprattutto di una scala che non va da nessuna parte. In questo spazio circoscritto si muovono i due attori, mentre ogni tanto Mariano si affaccia dalla struttura sullo sfondo come un autore in cerca dei suoi personaggi, interrogativo. Ha una maschera, quest’uomo: è quella di Pulcinella, la maschera napoletana che ride delle nostre (e sue) miserie: ugualmente, lui ride delle miserie che mettono in fila i due corpi sotto di lui.
RF: …che nella mia lettura sono quelle di questo fantomatico personaggio silenzioso e presente per essere narrato. E difatti, questa impressione viene in qualche forma sostenuta dalla considerazione che Balivo e Latini concretamente non dialogano fra loro.
Ciò a cui si assiste non è la messa in scena di un testo in forma di dialoghi. Anzi, è come se fossero due parti di una stessa identità che monologano. Questa è una sostanziale caratteristica della scrittura di Dammacco per quella che è stata finora, e che a ben guardare, pur nella plurale presenza scenica, mantiene intatta la sua caratteristica anche in Danzando. Al più i due monologhi potrebbero essere interpretati come una sorta di esigenza di vedere l’indagine, su una specifica personalità, bipartita, affidata per giunta ad un’interprete femminile e a uno maschile. Se la presenza attorale non è una scelta casuale, occorre leggere anche questo come un segno, considerando anche che in realtà nessuno dei due personaggi muove un’esplicita caratterizzazione di genere in qualche modo. C’è un gioco a rivelare, a rivelarsi, a nascondere, a nascondersi, che, complice il teatro, attraversa lo spettacolo.
GLF: Le miserie umane sono i residui di ricordi lontani, obiettivi falliti, mire dismesse, infelicità frustrate: tutto nascosto dai dolci rimpianti di due personaggi che rievocano un passato lussureggiante e festoso che non c’è più.
“Benvenuti: questa è la nostra festa, è una fortuna che i vostri umani vi abbiano portato a teatro questa sera”: il gesto vocale è deformato come la lingua che sembra inventata con cui salutano un pubblico che assiste alle azioni di questa coppia malinconica, trasognata, enigmatica. Che sembra aver vissuto un passato da cartolina patinata, protesi ora verso un futuro che non possono vedere (perché bendati, perché non c’è -più-), tronfi e tristi nella loro aberrante difformità che però non è mai sfacciata, sempre segnata in punto di voce e di penna.
Questi due corpi che ora si levano le bende per capire dove sono capiscono di trovarsi al di fuori del tempo ma non dello spazio: in un purgatorio sdrucito, dove possono solo decidersi felici senza esserlo, rincorrendo una realtà che non c’è più perché sono statti loro stessi vittima del carnefice invincibile, il Tempo.
Non serve l’opulenza, non ha senso il lusso: il tuo mostro personale, il tempo, ti raggiunge e ti strappa anche gli occhi, resta solo una polaroid che non puoi vedere per inventarsi diversi e fintamente felici.
RF: Sicuramente i due Ginger e Fred che manco riescono a mettere in fila due passi di danza sono a lungo, in questo spettacolo, portatori di bicchieri non mezzi vuoti, ma totalmente vuoti: i due, che in abiti eleganti attraversano la scena, a più riprese rovesciano i calici che hanno in mano, confermandone l’assenza di qualsiasi liquido atto a un qualsivoglia brindisi di festa. Sarà solo nel finale che i due, dopo quella sorta di flagellante auto dichiarazione di fragilità nella lingua madre del Pulcinella barese, trovano il coraggio non solo di riempirsi il bicchiere ma addirittura, in spregio alla vita bastarda, alla vita beffarda, di spruzzarsene il contenuto a nuvola, correndosi dietro come i bambini, mentre le micro goccioline sputate l’uno verso l’altro, vivono nel controluce con cui si chiude lo spettacolo. Uno spettacolo in cui sono tanti i bui, i momenti in cui l’oscurità avvolge.
Il contrappunto musicale è invero misuratissimo e utilizzato per lo più nei cambi scena, almeno in questa prima versione ancora a cuore aperto, come spesso capita negli spettacoli di Dammacco, che continuano a mutare dall’esordio in avanti, quasi a voler cercare la verità dopo aver sentito addosso il respiro del pubblico, dopo aver capito in che modo atterra in platea questa auto dichiarazione di fragilità che, come sempre nei suoi testi, beccheggia fra il tragico e il comico.
GLF: Da dove viene questa predestinazione all’infelicità? Alla mancanza, allo spreco di sé, al poter essere felici solo in quella danza veloce e istantanea che possiamo ballare solo violentandola?
Danzando con il mostro serve per vedere quello che siamo: la misteriosa, inafferrabile unione tra gesto e parola, suono e sguardo, la nostra povertà e (dis)illusione all’ennesima potenza.
RF: È un lavoro sicuramente molto pensato e ben interpretato, che con l’andar delle repliche troverà quel necessario ritmo capace di spezzare realmente la ricorsività del monologo, dei monologhi, che nella parte centrale, complice il buio, crea un’atmosfera forse troppo densa. Al momento la funzione intervallare viene affidata alle epifanie dell’uomo nascosto, che interrompono la costruzione testuale: una scelta la cui reiterazione crea un gioco che diventa più prevedibile con l’andare della recita. Enfatizzano certo, queste interruzioni per lo più silenziose, queste apparizioni sull’orlo del baratro, l’imprevedibile finale in dialetto. Drammatico e profondo. Che riporta ad una appartenenza drammatica delle parole in scena di Dammacco a sè, come specificato anche nei crediti di locandina. E al ritratto di Dorian Gray che, sempre, complice il teatro, resta comunque il suo gioco preferito, in questo caso in una sorta di co-direzione aperta, in compagnia di ottimi interpreti e pensatori del fatto scenico
DANZANDO CON IL MOSTRO
uno spettacolo di e con Serena Balivo, Mariano Dammacco, Roberto Latini
concept e parole Mariano Dammacco
musiche e suono Gianluca Misiti
disegno luci e direzione tecnica Max Mugnai
scenografia e costumi Francesca Tunno
ufficio stampa Maddalena Peluso
produzione Infinito, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Compagnia Lombardi-Tiezzi
residenze artistiche presso Florian Metateatro, C.Re.a.Re Campania / Teatri Associati di Napoli, Dialoghi – Residenze delle arti performative a Villa Manin 2022 – 2024, Centro di residenza della Toscana (Armunia-CapoTrave/Kilowatt), Teatro Le Forche
foto di scena Luca Del Pia