GIORGIO FRANCHI | “Teatro” viene dal verbo greco ϑεάομαι (theàomai), “vedere, osservare”. Anche il mondo romano ci riporta una simile interpretazione: “spettacolo” deriva infatti da “spectare”, col medesimo significato. L’evoluzione delle lingue sembra aver sempre privilegiato l’aspetto visivo: in quasi tutte le parlate europee “teatro” viene applicato per estensione anche al luogo fisico, soppiantando “auditorium” (dal latino “audire”, sentire), che originariamente designava una sezione del teatro greco. Nel darwinismo linguistico, l’occhio è il re della foresta, e l’ascolto si relega ai margini.
Queste riflessioni affiorano durante la visione di A+A Storia di una prima volta, regia di Giuliano Scarpinato del testo co-firmato con Gioia Salvatori, produzione CSS Udine. “Visione” non a caso, perché il primo impatto con questo spettacolo avviene nell’iride: appena spente le luci di sala, il videomapping (a cura di Stefano Bergomas e Marco Falanga) ci mostra un cuore stilizzato che batte, mentre colori vividi e brillanti inondano la scena. Un portale diretto al tema dello spettacolo: l’adolescenza, una fase vitale già di per sé caotica all’inverosimile e oggi ancor più bombardata di stimoli esterni, in primo luogo dai social.
In questo piccolo Vietnam dell’anima, due liceali, interpretati da Emanuele del Castillo e Beatrice Casiroli, dovranno affrontare il delicatissimo impatto con la loro “prima volta”. L’impresa è resa tale da un’evidente difficoltà: quella di ritagliarsi, in mezzo a leggende metropolitane sul sesso, gossip che rimbalzano sui gruppi Whatsapp, foto di compagne di classe fatte circolare sui social senza permesso e educazione sentimentale made in TikTok, un angolo di silenzio e tenerezza. Di ascolto, appunto.
È proprio l’ascolto il motore di questo spettacolo. Se la componente stilistica mette il carico da novanta nel ricreare il caos dell’adolescenza (dialoghi serrati, scene in rapida successione, cambi di registro, approcci multimediali e un sottofondo noise rock per gentile concessione dei Melt-Banana), la drammaturgia dimostra un grandissimo ascolto verso le problematiche che tratta. Durante lo spettacolo vengono riprodotte le registrazioni di interviste fatte a giovani ragazze e ragazzi su cosa conoscano del mondo del sesso e come si aspettino la prima volta: non un espediente stilistico fine a sé stesso, modello quadro che copre la crepa sul muro, ma la restituzione diretta di un materiale di studio che lascia una traccia profonda nella drammaturgia.
Impossibile non ritrovarsi nei patemi esistenziali dei giovani protagonisti, già costretti dalla pressione sociale a confrontarsi con la pretesa di “fare tutto al meglio” durante la loro prima volta. Un parterre di approcci sbagliati si consuma nelle dinamiche fra i due, elettrica e tagliente lei, woodyallenesco lui. Una pentola a pressione grottesca, in cui cuoce l’atroce dubbio: ma ciò di cui noi spettatori ridiamo è l’ingenuità dei personaggi, che si pongono precocemente i dubbi amletici sulla depilazione o il ritardo dell’orgasmo, o il fatto che noi stessi non siamo ancora riusciti a liberarcene?
Anche il target primario (14-20) apprezza il lavoro. Per tutto lo spettacolo, i ragazzi che mi trovo intorno alternano risate e commenti con trasporto. Non sentono nemmeno il bisogno di evidenziare il medium di attori, drammaturgia, scelte registiche: ai personaggi ci si relaziona come nelle serie tv guardate sul divano, direttamente, come se fossero davanti a noi (“Ma no, c**** fai?”, “Ma quello è un pirla”, “No, va be’, lo amo”…).
E proprio pensando a questa fascia di pubblico viene in mente una terza parola, di origine non più classica, bensì anglosassone, inizialmente di uso giovanile, ma ormai transgenerazionale: “cringe”, dal significato originario di contrarre i muscoli per il freddo o per la paura, che nell’accezione comune indica il gelo causato da qualcosa di imbarazzante o repellente. Per chi fa teatro ragazzi, il “cringe” è una spada di Damocle delle più terrificanti. Scarpinato affronta la lama a testa alta. A tratti gioca col fuoco, addirittura chiedendo agli attori di realizzare dei TikTok da proiettare sulla scena, invadendo un territorio dove gli over 30 vengono solitamente presi a pietrate. E ne esce vincitore: i ragazzi nel pubblico trovano la scelta naturale, priva di paternalismo o “boomer humour”. Zero cringe.
L’unico appunto che si può fare al regista è, a tratti, la direzione d’attore. Sensazionali i due interpreti, capaci di far presa sul pubblico in maniera originale e autentica, ma spesso messi in difficoltà da un’enorme mole di azioni e movimenti da compiere. La scenografia (a opera di Diana Ciufo, assieme alle luci di Giacomo Agnifili) è una grande cascata bianca, che incarna due mondi dello spettacolo, compresenti e agli antipodi, diventando ora lenzuolo sotto cui sparire, ora parete da scalare. Abitarla saltellando sulle sue rocce sporgenti, alternando dialogo e coreografia (creata con la collaborazione di Gaia Clotilde Chernetich e Giulia Bean), in un susseguirsi frenetico di scene con interlocutori reali e immaginari: se, da un lato, i tanti compiti dati agli attori regalano al pubblico momenti pieni di significato, dall’altro rischiano di soffocare la recitazione e l’ascolto.
Le luci di scena si spengono: immerso nel buio, lo spettatore si trova a faccia a faccia con dubbi, domande, insicurezze che credeva sopite. Come ci è arrivato, tra risate e colori, tenerezza e imbarazzo, non lo sa. C’è una sola consapevolezza: quella che non siamo mai adulti, solo bambini e adolescenti invecchiati, e che siamo più smarriti che mai. Alla faccia del presunto didascalismo del teatro ragazzi.
(Immagine di copertina di Daniele Salaris)
drammaturgia Giuliano Scarpinato e Gioia Salvatori
luci, suono Giacomo Agnifili
assistente ai movimenti di scena Giulia Bean
video Stefano Bergomas, Marco Falanga
direttore di scena Mauro Fontana
con il sostegno di Istituto Italiano di Cultura – Parigi
in collaborazione con Coop Alleanza 3.0