RENZO FRANCABANDERA | La fascinazione che Romeo Castellucci ha sempre avuto per macchine in scena, specie quelle di grandi dimensioni capaci di catturare lo sguardo, di riempire l’accadimento, di avere movenze automatiche, auto narrative, riverbera in moltissime sue opere: non di rado si è avvalso della collaborazione di aziende operanti nel comparto della robotica per creare prototipi per le creazioni.
EL è una installazione meccanica presentata dal 5 al 20 novembre 2022 presso il Teatro delle Triennale in occasione della 23ª Esposizione Internazionale Unknown Unknowns. An Introduction to Mysteries (15 luglio – 11 dicembre 2022) che occupa completamente lo spazio visivo delimitato dall’arco scenico.
È il secondo intervento inedito (dopo l’azione performativa domani, presentata alla fine di maggio 2022) che Castellucci è stato invitato a creare per l’Esposizione Internazionale, confrontandosi con il tema dell’ignoto e interrogandosi su “quello che non sappiamo di non sapere”. L’artista, come noto, è associato a Triennale per gli anni 21-24.
L’installazione è piuttosto semplice nella sua meccanica: si tratta di un gigantesco pannello luminoso basculante, uno schermo retroilluminato, mosso da un meccanismo capace di inclinarlo in avanti nella parte superiore, portando indietro l’estremità inferiore, come un immane libro che viene chiuso davanti allo spettatore.
Tutta l’azione si gioca dunque nell’alternanza di luce, quando il pannello è sollevato, e buio quando il pannello è completamente abbassato. In entrambi questi stati della installazione performativa, lo spettatore è sottoposto ad alcuni piccoli stimoli sensoriali che nel caso dello stato illuminato sono perlopiù visivi, consistendo di microscopiche variazioni luminose capaci di modulare l’aspetto della grande superficie bianca in modo apparentemente impercettibile ma, nella realtà, visibile ad uno sguardo attento.
Gli spettatori sono seduti nella seconda parte della platea del teatro della Triennale, e vengono investiti, quando al buio, prima da un suono annunciatore delle tenebre e poi da un vento che, inaspettato, arriva dallo spazio di fronte a loro mentre i suoni di Gibbons arrivano addosso, coinvolgendo l’udito e il tatto in senso generale, anche in questo caso variando in modo impercettibile di intervallo in intervallo.
La durata della fruizione è lasciata alla volontà dell’individuo che ha accesso allo spazio teatrale. Si può stare dentro anche pochi minuti.
Chi ha, però, pazienza e accetta di affogare in questo alternarsi di luce e buio, cercando di raccoglierne le minime variazioni, si accorge che la sequenza completa di tali modulazioni dura all’incirca mezz’ora.
L’installazione dialoga con l’altra, che Castellucci aveva pensato in maggio, sempre ispirandosi all’arcano dell’ignoto, e che in quel caso vedeva interprete non una macchina ma un essere umano, la altissima Ana Lucia Barbosa che, nella grande aula del piano superiore, spingeva con la mano, cieca e in lacrime, un lungo ramo, quasi come l’indovino Tiresia. All’estremità del ramo c’era una piccola scarpa da tennis, da bambini, e la performer percorreva l’aula spingendo con forza il bastone fra pavimento e pareti, mentre la musica, anche in quel caso di Scott Gibbons, diventava un’esplosione di bassi a bassissima frequenza, tale da far quasi tremare tutta la struttura oltre ai corpi degli ospiti che nello spazio giravano intorno all’azione arcana.
Nella mezz’ora trascorsa in sala abbiamo visto diversi spettatori (si entra e si esce solo quando c’è luce) reagire in modo differente alla creazione: taluni meno inclini a immergersi in questa narrazione meditativa così tenue e fatta di variazioni marginalissime, e altri più inclini a cercare un sentimento simbiotico rispetto all’opera.
In diverse opere iconiche Castellucci ha affiancato il corpo vivente all’azione della macchina: lampadine che si illuminano fino al massimo della potenza per poi fulminarsi ed esplodere, giganteschi macchinari che producono suoni assordanti per lo spettatore, automobili che piombano in scena dal soffitto del teatro, addirittura nel Giulio Cesare la macchina entra nel corpo umano per raccontarne l’interno invisibile. Ma progressivamente le macchine hanno iniziato a prendere un tragico sopravvento sull’umano.
I temi della ciclicità, della ripetitività, insiti in talune opere e che pure parrebbero ispirarsi al ciclo luce buio della natura, lontani dal riferirsi a quella sorta di gara di resistenza fra performer e spettatore, come in alcune ricerche di Sciarroni ad esempio, paiono qui andare verso una progressiva distruzione dello spazio rituale agito dall’umano.
Nei primordi, la rappresentazione collocava l’uomo come simbolica via di mezzo fra animale e divino, rappresentazione in cui si anticipava l’exitus, la consapevolezza della morte e del ciclo del ritorno alla vita: erano le immagini della caccia disegnate nel buio profondo delle caverne, a contemplare le quali primitivi si recavano accompagnati da un sacerdote iniziatore, alla luce dalle fiaccole.
Questo teatro, invece, privato della funzione umana in scena, e lasciando alla macchina una rappresentazione senza fine, per un verso sancisce l’immortalità della macchina, per altro lascia un sentimento di caducità assoluta in platea, di vuoto.
Se il teatro è stato per millenni, attesa della conoscenza del come va a finire, ovvero rappresentazione della finitezza mortale dell’uomo, consapevolezza che lo distingue dall’animale, Castellucci in questa seconda parte del suo processo creativo, e proprio ragionando sull’ignoto, affida allo spettatore il compito di confrontarsi con l’immortalità del transumano, con la contemplazione della macchina universale per un verso, e con la meditazione su se stesso dall’altra. È per questo che per molti la visione è quasi intollerabile, noiosa, da rifuggire dopo pochi minuti, attesa e verificata la presunta ripetitività dell’evento.
Manca il sacro, l’evocazione rituale delle forze della vita, se non attraverso un soffio primordiale nel buio.
La funzione dello sguardo, su cui Castellucci ha costruito tanta parte del suo studio recente, qui lascia lo spettatore non alla contemplazione non del rabdomante visionario che incarna e rappresenta il divino come era nella performance domani, ma ad una macchina che come in Kubrick ne assume la funzione, come Dante nell’inferno dentro il buio, o nel Paradiso davanti alla luce, ambienti anche questi oggetto di indagine scenica dell’artista.
Lo sguardo dello spettatore passa quindi dall’osservazione per mezzo dell’occhio a quello del percepito nel pensiero.
E l’umano davanti a questo stato è impreparato, non riesce a contemplare, a perdersi nella meccanica, perchè l’inerte della macchina, funzione opposta al movimento dell’arte, fondamento della sapienza evocatrice, distrugge il teatro come spazio del rito umano; o meglio, rimanda al suo contrario, l’irrito, l’inutile, il vano, che non fa accadere nulla.
Non fa accadere il rito, non attribuisce valore: davanti a questa disperante considerazione l’uomo non riesce a contemplare, perchè si trova messo di fronte alla narrazione di un infinito, che però non lo riguarda più. Lo trascende.
E quindi l’umano lo rifugge, perchè la morte è tutta al di qua, dal suo lato, in platea, in capo a chi osserva.
L’immortale, l’eterno, è quindi incontemplabile, perchè non dice più del senso della vita, non sta più nel tempo del mondo, ne crea uno suo, proprio, che ci è estraneo, dolorosissimo, perchè esalta ancor più la nostra drammatica finitezza, come gli orologi che proseguono il loro ritmo che supera la vita umana, e va avanti da secoli.
Il tempo del rito, invece, è un tempo circoscritto, deciso dal sacerdote, che ha un metodo, una via, e ha un ritmo e un exitus.
Chi decide il tempo in EL? Lo spettatore? No, lo spettatore decide al più il tempo della sua contemplazione. Ma quando esce dallo spazio della rappresentazione, sa che questa continuerà all’infinito, senza procedure cerimoniali, senza modelli di appartenenza.
E quindi chi osserva ad un certo punto va via, desolato, spogliato della speranza rituale, della cerimonia sociale per dominare le forze della vita, abbandonato alla sua finitezza, senza la salvezza della finzione, che non significa fare finta ma, etimologicamente, plasmare, farsi dio, farsi eterno.
Ma andrebbe considerato anche forse lo squarcio e l’abisso che questa installazione apre sull’incapacità dello spettatore di stare in uno spazio meditativo; la possibile delusione sta anche nel rapporto del singolo con se stesso. Quando si è costretti a guardare se stessi, e quindi il buio che dobbiamo illuminare con la nostra fiaccola, a volte la delusione di non trovare nulla può essere drammatica.
Questo a volerla prendere tutta sul serio, e a voler continuare comunque a dare al sacerdote artista la funzione di iniziatore alla riflessione.
Ma potremmo anche dire che non abbiamo obblighi di meditazione davanti a ciò che decide Castellucci, ovviamente: non restare in contemplazione davanti al grande schermo basculante, al totem semovente, al grande monolite, non implica necessariamente che si abbiano problemi profondi con sé o con l’universo.
EL
Concezione: Romeo Castellucci
Musiche: Scott Gibbons
Production & visual art supervisor: Istvan Zimmermann, Plastikart Studio
Sound design, programmazione: Nicola Ratti
Progettazione ingegneristica: Franco Faggiotto con Amedeo Guizzi
Stage manager: Matteo Massocco
Coordinatrice di progetto: Valentina Tescari
Motori, rigging: Studio 2
Luci: NonSoloLed
Una produzione di: Triennale Milano (in occasione della 23ª Esposizione Internazionale Unknown Unknowns. An Introduction to Mysteries)