CHIARA AMATO | La Sala Shakespeare dell’Elfo Puccini di Milano ha ospitato per circa due settimane l’ultimo spettacolo firmato da Antonio Rezza e Flavia Mastrella, dal titolo Hybris.
Proprio al sodalizio professionale dei due artisti, che dura dal 1987, il Festival Internazionale di teatro della Biennale di Venezia ha attribuito il Leone d’oro alla carriera nel 2018. Rezza/Mastrella hanno firmato ad oggi una copiosa quantità di lavori: tredici opere teatrali, cinque lungometraggi, e numerosi corto e mediometraggi.
Hybris non è articolato in scene, ma in momenti, scanditi dal convulso movimento degli attori nello spazio. E forse proprio per permettere questa dinamica di corpi per traiettorie, e far focalizzare gli occhi dello spettatore, la scenografia pensata dalla Mastrella è ridotta all’osso: una sedia rossa con le rotelle, un grande attrezzo da palestra, una porta semovente e infine due elementi installativi a fondale, con cui gli attori non interagiscono mai. Predominano nei costumi, nelle luci (a cura di Daria Grispino) e nelle rifiniture due colori: il rosso e il nero, cui raramente si aggiunge il viola. L’unico elemento decisamente multicolore invece è costituito dal vestito di Rezza, in scena con altri sei attori, cui si aggiunge la presenza straordinaria di Maria Grazia Sughi, storica attrice di origine fiorentina.
Lo spettacolo inizia con una bara trasparente piazzata nel centro del palco: all’interno il protagonista, che gorgheggia sonoramente versi senza alcun significato, un grammelot che simula il parlato umano. Attorno a lui altri tre attori, due ai lati e uno sul fondo, con le donne vestite di una tunica rossa e un body nero, colori che tornano anche negli altri costumi di scena.
Rezza fin da subito ingaggia il pubblico con lo sguardo, sollevando la testa e rompendo la quarta parete, ricavando per risposta bonarie risate.
La scena evolve con l’uscita del protagonista dalla bara: inizierà a muoversi freneticamente nello spazio, spostando la porta semovente, gesto che connoterà le quasi due ore di performance, accompagnato a battute di spirito, giochi di parole e stangate verbali rivolte contro alcuni nemici ricorrenti. Gli argomenti intorno a cui ruotano principalmente le invettive di Rezza sono la violenza sessuale, l’eutanasia, la lotta proletaria e gli ‘Yankee di merda’.
Nell’azione, senza mai assumere un ruolo specifico, entrano ed escono da punti diversi del palcoscenico gli altri interpreti, che si aggirano sulla scena per lo più muti e vengono coinvolti nell’azione al muoversi della porta.
Le sequenze si prolungano e si sviluppano intorno a gesti insistiti come il menzionato aprirsi e chiudersi della porta o un successivo vorticoso giro di presentazioni della propria donna al parentado: ciascuno di questi nuclei, di queste situazioni, dura circa un terzo dello spettacolo.
Nel secondo, ad esempio, l’istrione simula l’introduzione della sua donna alla famiglia, elencando i nomi e nomignoli dei parenti in maniera ossessiva, rapida e con toni alti, deridendo i “cerimoniali” familiari e sociali. I sette attori in scena si muovono come marionette ubriache al suono delle sue parole: li chiama all’appello per decidere chi si deve presentare a chi, chi deve stringere la mano a chi. Sfida a lungo anche il pubblico dicendo ‘si me so sbajiato, me devi di’ anche quanno, però‘ e continua come un direttore d’orchestra nel suo numero.
Gli altri interpreti reagiscono spesso solo con la mimica alle parole, agli insulti e ai giochi da guitto, come se fossimo nelle sequenze di Amici Miei di Monicelli tra risate amare, derisione sociale, ribellione e rabbia, contro l’umano e il divino.
E d’altronde il titolo dello spettacolo rimanda alla parola greca hybris, l’orgogliosa tracotanza che porta l’uomo a presumere della propria potenza e fortuna e a ribellarsi contro l’ordine costituito, sia divino che umano, una protervia immancabilmente seguita dalla vendetta o punizione divina (tísis): si tratta un concetto di fondamentale importanza nella tragedia greca, specialmente in Eschilo.
Nello spettacolo questa superbia è incarnata fino al midollo dal protagonista, sia nell’esuberante velocità e irruenza verbale, sia nell’energia che esplode in tutta l’interpretazione, mentre attorno a lui il resto della compagnia, in modo efficace, sta come schiacciato in questo equilibrio, dove l’ego anarchico e indomabile di Rezza straborda.
Ci sono altri due momenti efficaci per rendere l’idea della hybris: in uno degli innumerevoli utilizzi della porta, questa diventa un varco aeroportuale che suona al passaggio del nostro protagonista, che si denuda di un capo dopo l’altro, finché una volta nudo, prende in giro tutti con un sonoro “ero io che facevo bzzz passando”.
L’altro nodo su cui stuzzica una reazione (mancata) del pubblico è nel simulare un contatto sessuale con un paio di spettatrici in sala: stupisce come questa provocazione, già utilizzata in altre sue performance, non ottenga alcuna opposizione, come se la funzione sciamanica del protagonista gli permetta qualsiasi libertà fino alla “violazione” della spazio intimo.
L’interpretazione di Rezza si conclude con una scena in cui il linguaggio si deforma in fischio. Un fischio del quale capiamo paradossalmente ogni “parola”: invettive al divino. A queste segue il finale, in cui ogni porta sbattuta ha il potere di una fucilata che stende, uno ad uno, al suolo, gli altri interpreti.
Una sensazione attanaglia per tutto lo spettacolo: per cosa ride davvero il pubblico, quasi adorante? La platea reagisce in maniera simpatetica e complice, sbellicandosi per quasi tutta la performance, e si respira quasi una conoscenza tra pubblico e attore, tra spettatore e creatore, come se a seguirlo ci fossero dei veri e propri credenti con il loro santone.
La personalità di Rezza indubbiamente crea una modalità dello stare in scena unica, per estro folle e sgarbata lucidità, doti che gli permettono di calibrare il tiro verso il pubblico, che viene soggiogato, quasi come fosse una sfida ad ogni replica. Anche nella sua precedente opera, Anelante (2015), si ritrovano i segni, la sua impronta, che tornano uguali a sé stessi perché lui è i suoi spettacoli, come gli habitat sono la Mastrella, in una fusione perfetta allo scopo, pensato e progettato insieme.
Il loro è a ben guardare un lavoro politico, in un mondo dove politico è arrivare a considerare come stiamo/siamo tra le mura domestiche e con lo Stato confinante, come ci rapportiamo con l’altro sesso, come viviamo la morte e, per fortuna, tanto altro, come restiamo in silenzio senza reagire a chi ci coinvolge in azioni insensate, come accade ai suoi performer. Rezza gioca a provocare, ma ancor più a mostrare come, tanto sul palco quanto in platea e quindi in generale nella nostra società manchi la reazione al sopruso: più facilmente reagiamo con una imbarazzata risata, piuttosto che una presa di distanza e una ferma protesta.
HYBRIS
di Flavia Mastrella e Antonio Rezza
con Antonio Rezza
e con Ivan Bellavista, Manolo Muoio, Chiara Perrini, Enzo Di Norscia, Antonella Rizzo, Daniele Cavaioli
e con la partecipazione straordinaria di Maria Grazia Sughi
(mai) scritto da Antonio Rezza
habitat Flavia Mastrella
assistente alla creazione Massimo Camilli
luci e tecnica Daria Grispino
organizzazione generale Marta Gagliardi, Stefania Saltarelli
macchinista Andrea Zanarini
una produzione RezzaMastrella, La Fabbrica dell’Attore – Teatro Vascello, Teatro di Sardegna
ufficio stampa Chiara Crupi – Ar7nconnessione