ILENA AMBROSIO | Che il teatro sia uno spazio di incontro non bisogna ribadirlo. E però se ne parla spesso come di un luogo quasi ancestrale di mistiche corrispondenze sensoriali, forse tralasciando che l’incontro più importante che può offrire è quello concreto e “terrestre” tra esseri umani, magari provenienti da realtà geografiche e culturali distanti e differenti. Teatro come zona di superamento dei confini, delle differenze, dei pregiudizi, in nome di un arte che sia davvero occasione di crescita.
È questo che sta sperimentando La luna nel Letto di Michelangelo Campanale che ha lavorato negli ultimi mesi a un Romeo e Giulietta in coproduzione con il Teatrul Excelsior di Bucharest. Un progetto appoggiato anche dall’ERT di Valter Malosti che fa uscire La luna nel letto dal recinto del teatro ragazzi per proiettarsi nello scenario del contemporaneo nazionale e internazionale. In scena alcuni degli attori storici di Campanale e la compagnia stabile del Teatrul Excelsior guidata dalla direttrice artistica Maria Rotar. Un lavoro avviato già nel 2019, interrotto bruscamente dalla pandemia ma mai abbandonato e ripreso nei mesi estivi con una fase di prove aperte nell’unenne teatro di Ruvo di Puglia. Proprio ieri, 9 dicembre, l’anteprima nella capitale rumena in vista del debutto a Cesena il 9 febbraio.
Sulla nascita del lavoro, sugli intenti e sulle identità delle compagnie abbiamo parlato con Michelangelo Campanale e Maria Rotar.
Prima di tutto, Michelangelo, come è nata questa collaborazione?
Era il 2019 e stavamo girando con Cinema Paradiso. Eravamo a Lecce in una delle tante repliche e tra il pubblico c’era Pietro Valenti che vide il nostro spettacolo e disse che voleva sostenerci. Conoscendo Maria Rotar, direttrice del Teatrul Excelsior di Bucharest ci consigliò di portare il lavoro in Romania. Pietro sapeva inoltre del mio desiderio di fare un Romeo e Giulietta. Quando siamo arrivati li e ho conosciuto i loro attori, sono stato impressionato dalla loro preparazione e così ho pensato a una coproduzione per la quale poi abbiamo avuto anche il sostegno di Valter Malosti con ERT.
Cosa ti ha colpito della formazione di questi attori e cosa ti ha guidato nella scelta di quelli italiani?
Della compagnia rumena ammiro soprattutto che possiede ancora una modalità di fare teatro che in Italia sta scomparendo, un modo che ritrovo un po’ solo nel mondo del circo e che ha a che fare con la fisicità. Credo che l’attore di prosa italiano sia spesso tagliato dalla testa in su e non capisco come è possibile che in Italia, patria della Commedia dell’Arte, sia stato totalmente abbandonato il corpo per affidare tutto alla parola. Il teatro non può essere solo parola e testo ma dovrebbe essere spazio nel quale unire tutti i linguaggi, anche i nuovi linguaggi. Quando sono arrivato in Romania ho trovato un teatro e degli attori capaci di fare questo, affidandosi ancora al corpo; attori che ringhiavano in scena, con il loro corpo. Inizialmente avevo in mente un Romeo e Giulietta che fosse quasi totalmente danzato, ma quando ho cominciato a lavorare con loro mi sono accorto che riuscivano a far danzare il testo, pur parlando in rumeno.
Così, tornato in Italia, ho accantonato l’idea di affidarmi a dei danzatori e pensato a un gemellaggio con i miei attori che conosco da una vita, chiedendo loro di crescere insieme facendo comunque anche un lavoro sul corpo per il quale abbiamo l’aiuto del coreografo Vito Cassano.
C’è da dire che gli attori del Teatrul Excelsior di Bucharest sono una vera compagnia stabile, stipendiata dal teatro. Questa differenza si nota sulla scena?
Sicuramente. I miei attori lavorano tanto perché giriamo tanto ma gli attori rumeni sono un vero gruppo. Il gruppo italiano si conosce perché ha lavorato nei miei spettacoli ma non lavorano sempre insieme e questa cosa la senti. Infatti ho dovuto insistere proprio su questo. Il tema della divisione dei clan è fondamentale a livello drammaturgico ma all’interno dei due clan si notato per molto tempo un amalgama differente.
Nella dinamica dei contrasti la differenza linguistica può avere un suo peso specifico. In che modo hai utilizzato la lingua come strumento?
In primis abbiamo l’inglese cui ho affidato il testo che fa da cornice alla rappresentazione. Ho letto Shakespeare come fosse un testo sacro e riportarlo in italiano non avrebbe avuto senso.
Poi c’è il rumeno per i Montecchi: quando sono andato a fare i primi provini a Bucharest ho pensato che non potevo perdere la potenza del loro dire in rumeno. Romeo parla in italiano, la lingua dei Capuleti, solo quando si rivolge a Giulietta e in quel caso è un gioco di seduzione rivolto a Giulietta stessa ma anche al pubblico che nel vedere un personaggio che mostra la propria fragilità in una lingua non sua si mette istintivamente dalla sua parte.
Successivamente, però, abbiamo lavorato per affidare più battute in rumeno a Giulietta in modo da creare un contrappeso linguistico anche dalla parte dei Capuleti. I due ragazzi sono le finestre che si aprono sul mondo dell’altro e ha senso che si scambino la lingua mentre le famiglie restano chiuse nel loro idioma.
Una volta impostate le forze in gioco, qual è stata l’idea centrale che ti ha fatto da guida per costruire lo spettacolo?
Di certo l’idea di fondere l’aspetto religioso con quello laico. Da qui la centralità della figura del prete e del testo iniziale che narra la vicenda come fosse la creazione biblica. Abbiamo accolto il testo di Shakespeare come se fosse un brano della Bibbia, come qualcosa di sacro… Dopo questa intuizione è venuto tutto fluido perché l’idea della creazione per me ha dato l’impronta definitiva
È stato questo senso del sacro che mi ha spinto ad andare nella chiesa ortodossa per capire anche quale potesse essere il collegamento tra le nostre culture. La loro cultura è stata devastata dalla dittatura, solo in chiesa io sono riuscito a intravederne un barlume, un punto dal quale poter cominciare a capire questo mondo. Nel segno del crocifisso ho ritrovato un legame tra la nostra cultura e la loro, un segno che infatti chiude il cerchio della rappresentazione.
Tutto questo alimenta un’idea di rito inteso come mondo che si riproduce, condannato alla ripetizione. C’è rito a più livelli: la festa, il corteggiamento, la preparazione del veleno, il matrimonio… Poi il prete condannato a ripetere sempre la stessa tragedia. E poi il teatro che è anch’esso luogo di un rito sacro. Credo che il testo iniziale abbia unito tutto questo e che tutto si riverberi nel lavoro.
Maria, l’organizzazione della tua Compagnia è molto differente da ciò cui siamo abituati in Italia. Raccontaci.
Dunque, innanzi tutto le istituzioni teatrali sono tutte statali. Quelle nazionali appartengono al Ministero mentre quelli municipali, come il mio teatro, sono interamente finanziate dal comune di Bucharest.
Il teatro ha 30 attori stipendiati a vita, una posizione alla quale si arriva dopo un preciso percorso di studi. Ma anche tecnici, personale amministrativo, ufficio stampa, sono tutti assunti a vita. Si fanno concorsi, banditi quando si libera un posto o quando c’è necessità di nuove figure e si accede così.
Chiaramente questo implica una differenza anche nella formazione degli attori…
Sì grandissima, anche di qualità ma non perché sono più bravi, perché c’è più allenamento. Considera che noi facciamo 30 se non 40 spettacoli al mese. Io ho 33 titoli in repertorio tra classici, moderni, musical: oggi recitano Shakespeare, domani Moliere… Ogni sera, da martedì a domenica, sono sempre impegnati.
È poi si formano continuamente in cose nuove: fanno lezioni di canto, di danza, acquisiscono abilità specifiche a seconda del testo che devono mettere in scena. È una fabbrica… e anche questo può avere aspetti negativi, dipende dalla capacità di far ruotare e non massacrare gli attori.
Alla luce di questa continuità del rapporto tra attori e con il teatro, che tipo di legame avete instaurato con il pubblico, con la comunità?
Noi siamo un teatro particolare: Bucharest è una città di tre milioni di abitanti e noi siamo l’unico teatro che parla agli adolescenti, un pubblico particolare, in formazione; saranno gli spettatori futuri degli altri teatri. Perciò siamo attenti sempre a formare il nostro pubblico, forti anche del rapporto con le scuole. I ragazzi qui si sentono a casa perché trovano un teatro nuovo, moderno, dove possono fare workshop, laboratori, discussioni post spettacolo. Molti frequenteranno le università vocazionali per fare regia, recitazione quindi hanno proprio il desiderio di fare domande, di confrontarsi. Inoltre abbiamo una grande offerta culturale, riusciamo a coinvolgere e formare il pubblico offrendo vari generi che ovviamente attraggono anche gli adulti.
È la prima volta a contatto così stretto con il teatro italiano? Come vi state rapportando agli attori di Campanale?
Noi invitammo Michelangelo perché avevamo visti dei suoi spettacoli all’estero e furono proprio alcuni degli attori a chiedere di lavorare in quel modo lì. Apprezzavano il forte impatto visivo, il fatto che l’attore è messo al centro non solo con l’uso della parola. Una cosa molto diverso da quello che si vede sui nostri palchi ed era interessante lavorare con qualcuno che viene da un altro ambito formativo: è una possibilità preziosa di confronto. Lavorare con Michelangelo è stato bellissimo perché usa mezzi diversi. Prima di tutto non sta al tavolino, noi stiamo due settimane a tavolino per qualsiasi nuovo progetto, invece con Michelangelo gli attori sono stati obbligati a fare da subito la memoria, mettendosi in gioco durante le prove. È stata una sfida e una grande opportunità per i nostri attori che sono giovani e hanno bisogno sempre di nuovi stimoli, altrimenti ci si appiattisce su quello che si conosce già e si diventa una macchina.
E poi c’è lo scambio continuo con gli altri attori
Cosa pensi si stiano scambiando reciprocamente?
I miei sicuramente stanno imparando a sviluppare delle cose dall’oggi al domani, senza una preparazione teorica preliminare; è tutto più incentrato sul fare: si va e si costruisce senza i lunghi periodi di preparazione anteriore alla produzione; si agisce con molta più velocità e questa è una cosa buona perché ci sono progetti in cui il tempo non è tuo alleato. In certi casi bisogna essere pronti a tutto e subito.
Il contrario dalla mia posizione è difficile dirlo ma quello che mi hanno trasmesso gli attori di Michelangelo è che a loro manca un po’ il senso del gruppo. I miei sono abituati a essere più complici, ad avere più fiducia reciproca, vivono sette giorni su sette insieme; sono molto uniti e complici sul palco ma anche nella vita quotidiana. Anche il processo di lavoro è molto collettivo, si sostengono, si chiedono consigli, si aiutano con le battute, non c’è spazio per l’orgoglio. Credo che questo sia il nostro vantaggio: abbiamo capito che l’uno senza l’altro siamo niente, che la mia bravura non è nulla se non c’è qualcuno che mi accende addosso un riflettore.
E in relazione al testo? È il vostro primo Romeo e Giulietta? Cosa pensi della lettura di Michelangelo?
Sì, è il nostro primo Romeo e Giulietta. Era un titolo al quale già pensavamo poi è arrivata questa occasione di unire due squadre. Un’occasione preziosa che ci ha permesso di capire anche che alla fine non siamo tanto diversi come immaginiamo, che le frontiere che ci inventiamo tra i popoli sono molto più permeabili di quanto immaginiamo, che viviamo solo di pregiudizi. E noi abbiamo il compito di dare esempi positivi che superino gli stereotipi. Siamo dei sognatori che vogliono cambiare il mondo con l’arte ma ci siamo e dobbiamo far sentire la nostra voce.
Quindi secondo me la lettura di Michelangelo è molto interessante e molto attuale soprattutto se pensiamo ai giovani che hanno bisogno di credere in qualcosa di più grande di loro. Per me come artista è importante perché mi riporta alla sacralità del nostro mestiere, alla potenza del teatro e a al credere che c’è qualcosa di superiore che mi dà tutte le cose che vivo in questa vita, a prescindere dall’essere credente o meno. Sono convinta che, essendo un lavoro indirizzato soprattutto alle nuove generazioni, è importante questo messaggio di speranza che si legge oltre le righe di Shakespeare: anche se siamo dei disgraziati, se accadono cose terribili, esiste una luce che ciascuno può trovare e per sé, e quella ci può salvare.