ENRICO PASTORE | François Tanguy è scomparso, proprio prima del debutto a Parigi della sua ultima creazione, Par autan. Con lui viene a mancare non solo un artista immenso, ma uno dei più grandi pensatori della scena contemporanea. François Tanguy e il suo Théâtre du Radeau hanno un lunga storia a partire dagli anni ’80, ma non voglio ripercorrerla in queste righe. Per questo ci sono svariati documenti, c’è internet e i numerosi interventi critici e accademici sul suo lavoro. Vorrei provare, piuttosto, a raccontare un barlume del suo pensiero e della sua persona come li ho recepiti da giovane artista quando ebbi la fortuna di incontrarlo e lavorare con lui. Non so se ne sarò in grado, perché la commozione è tanta e i ricordi si addensano come gocce di pioggia in un diluvio. Difficile distinguere, difficile estrarre qualcosa di condivisibile con altri. Non vi è la distanza che un critico dovrebbe avere con la propria materia, in questo caso intrecciata indissolubilmente con la vita.
Il luogo, per primo, come nei racconti vedici della creazione del mondo. Ho conosciuto François Tanguy nella mia giovinezza durante La Biennale di Venezia del 1999, in quello che fu Le campement al Galoppatoio del Lido, dove oltre alla tenda del Radeau, vi erano La Baraque di Igor Dromesko, Le Tonneau e La Ménagerie con i loro chapiteau. La prima trasformazione operata da François nel toccare il suolo veneziano è stata mutare di destinazione uno spazio anonimo, semiabbandonato, persino sconosciuto agli stessi veneziani, in qualcosa di vivo, pensante, creativo, attivo e aperto a chiunque volesse partecipare alla costruzione di una comunità temporanea intorno a diverse modalità di concezione del teatro.
Entrare in un prato spoglio e veder sorgere in una settimana non un circo, benché ne avesse in parte le sembianze, ma una piccola città, è stata la prima grande emozione che mi lega al Théâtre du Radeau e a François Tanguy. Poi ci fu Orpheon. Avevo paura alla generale, una paura matta e irrazionale che non mi piacesse, tanto avevo insistito con Barberio Corsetti per poter essere lì a lavorare con loro. Alla generale ero seduto da solo sulle panche di fronte a quello spazio teatrale così extra-ordinario, un’area in cui il pubblico era come schiacciato contro la parete di fondo per dare più spazio possibile alla scena. Da solo mi godetti la trasmutazione dei miei timori in quella che è stata senza dubbio la più grande emozione e fascinazione che il teatro mi abbia regalato. E tutto senza nulla capire.
In Orpheon (ma anche nelle altre creazioni, in Coda, in Cantates) non vi era logica razionale a governare lo sviluppo. Le scene si succedevano, così come le lingue parlate, in una catena come di sogno, in cui un’immagine travasa o si trasmuta nell’altra. Lo spazio in perenne trasformazione: le quinte, i tavolacci, gli oggetti, gli attori, la musica e le luci, tutto concorreva a mutare l’ordine delle cose creando meraviglia e pensiero, incanto e turbamento. Tutto giungeva come un turbine al di là del pensiero, in una forma originaria, quasi sciamanica, come da un tempo prima della filosofia e della religione. E mi innamorai perdutamente di quello spettacolo e lo vidi e lo rividi senza stancarmi mai. Dissolvenza.
La tenda da teatro si trasforma in un luogo del pensiero e del confronto. Sei giorni in cui artisti, accademici, pensatori diversi nei loro interessi e discipline, a confrontarsi sui fondamenti della scena. Non solo parlando e discutendo, ma agendo nello spazio della tenda. Il primo giorno fu per me e la mia giovane compagnia una sconfitta e una caduta. Provammo a imbastire una scena del Mavra di Stravinskij, opera su cui stavamo lavorando su commissione per La Fenice, e impreparati naufragammo in quella nuova vastità che stavamo scoprendo. François ci parlò a fine giornata. Provò a farci capire come l’intenzione doveva scomparire nella tensione, di come avremmo dovuto far passare l’aria tra le cose, le parole, le azioni. E nuovamente fummo sovrastati dalla profondità. Non fu un vero sconforto, quanto piuttosto un intravedere di lontano, ma esser certi di non esser capaci ancora, e forse mai, di afferrare.
Il giorno successivo partecipammo a un incontro dove tra i molti a parlare (Antonio Attisani, Jean Paul Manganaro, Virginio Liberti di Egum Teatro) mi colpirono come un sasso le parole di André Markovitz, magnifico traduttore di Dostoevskij. Parlò di Delitto e Castigo e dell’inadeguatezza costante dello strumento. Raskolnikov quando va a uccidere porta con sé un’accetta, ma la vecchia è troppo bassa e la sorella è troppo alta. Nell’agire sulla realtà, nel mettere in atto un pensiero, ci manca sempre qualcosa, vi è sempre uno scarto incolmabile tra il pensiero e l’azione. Ancora una volta l’inadeguatezza, l’incapacità, un vedere e sentire e non capire.
I pensieri si aggiungevano ai pensieri, come i chicchi si aggiungono ai chicchi in Finale di partita e alla fine il mucchio, l’impossibile mucchio. Fino all’ultimo giorno. La mattina entrammo nella tenda da soli e cominciammo a improvvisare, muovendo i tavoli, le quinte, gli oggetti, provando a scoprire lo spazio. Nella concentrazione non ci accorgemmo dell’ingresso di François. Ci osservò in silenzio fino alla fine e poi ci raggiunse, dicendoci che avevamo finalmente capito, che la strada per noi era iniziata. Non nascondemmo lo sconcerto, perché non stavamo facendo nulla, non c’era progetto, erano solo prove senza oggetto.
Raccontammo quanto era successo a Frode Bjornstad, un magnifico attore del Radeau, quello con cui più avevamo legato, e lui ci raccontò di quando aveva deciso di lasciare la Norvegia per lavorare con François Tanguy. Il suo primo lavoro con il Radeau fu Woyzeck. Durante le prove François lo lasciò sempre seduto su una sedia a far niente e Frode si chiedeva se non aveva fatto un errore a imbarcarsi in quell’avventura per non fare niente. Poi, ci fu il debutto, e lui ricevette grandi riscontri e non si capacitava perché non aveva fatto niente. Era quello il punto, ci disse. Bisognava fare niente. Sottrarsi, togliersi di mezzo. Lasciar parlare le cose, i corpi, le parole, senza fare niente.
Dissolvenza.
Siamo ora a La Fonderie, il luogo di creazione e d’azione del Théâtre du Radeau a Les Mans. François alla fine della Biennale ci aveva invitati per quello che oggi si chiamerebbe un lungo periodo di residenza. Tre settimane da condividere insieme. Ancora una volta provammo a mettere in piedi il Mavra di Stravinskij e ancora una volta rimanemmo impantanati. Ogni giorno, durante i pasti, nella sala teatrale, nei momenti di pausa François ci parlava, ci donava il suo pensiero, e ogni volta quella vastità ci imprigionava. Per due giorni ci chiuse in teatro e ci fece ascoltare le Cantate di Bach. Attraverso quella musica straordinaria sparata a tutto volume lui tentava di farci capire cos’era la composizione, come il linguaggio andasse oltre sé stesso, come tutti gli elementi concorrevano a superarlo.
Un giorno ci fece leggere un passo dell’Odissea. Provò a metterci sempre in una condizione di disagio, in cui la nostra attenzione fosse sempre disarticolata, dovendo occuparsi di altro al di là del dire. I fallimenti si aggiungevano ai fallimenti, finché intravedemmo, con la stanchezza, la qualità che lui voleva farci scorgere. Un farsi dire, un farsi attraversare, senza intenzione alcuna, un lasciarsi dire dalle parole. E ancora una volta ci mise sulla soglia e ancora una volta, come nella tenda a Venezia, stava a noi trovare la strada.
Dissolvenza.
Siamo ancora a Les Mans, a La Fonderie. Seduti a un lungo tavolo negli uffici insieme a André Markovitz e François Tanguy. Si legge il Canto XXVI dell’Inferno dantesco. André stava traducendo la Divina Commedia senza sapere l’italiano, basandosi sui suoni, forzando il francese per far risuonare la lingua di Dante. Tradurre è tradire e noi dovevamo aiutarlo nella congiura. Voleva sentire il suono vivo dell’italiano per capire la composizione sonora di Dante. Ancora una volta bisognava far tacere le intenzioni. Andare oltre la volontà di dire. Sentirsi per far sentire. E François ci parlò dello stare sulla soglia, in equilibrio tra due mondi, senza voler appartenere a nessuno, per lasciar passare. Era sempre qualcosa di inspiegabile. E per lasciarci intravedere ciò che intendeva, parlava in poesia, per immagini, con l’esempio. Non era in gioco la razionalità, il pensiero, ma la sensibilità, la comprensione con il corpo e l’anima. Fu l’ultima volta a La Fonderie. Con la compagnia decidemmo che per arrivare dove ci indicava François dovevamo staccarci da lui. Dovevamo lasciare il maestro e trovare il nostro modo al di là del suo modo. E la strada fu lunga e senza sapere come, per altre vie, giungemmo su una soglia, la nostra.
Lunedì 12 dicembre 2022 sono tornato dopo più di vent’anni a La Fonderie. Questa volta non più per ascoltare le parole di François, ma per rendergli omaggio in un ultimo saluto. Una folla ha trascorso insieme un lungo pomeriggio a ricordarlo. Non solo i grandi artisti e pensatori che sono stati suoi amici, non solo coloro che a vario titolo hanno frequentato La Fonderie, ma anche il suo pubblico, gli amanti ignoti del suo linguaggio, coloro che costituiscono i veri destinatari di ogni creazione teatrale. Lo abbiamo ricordato come forse avrebbe voluto: bevendo, parlando, continuando a riflettere ponendosi domande. Infine, è giunto il tempo del saluto quando la sua bara, dalla camera ardente allestita in quella stanza che è stata l’origine del Radeau e de La Fonderie, si è mossa per lasciare la sua casa per sempre. Un lunghissimo applauso lo ha salutato, l’ultimo e il più sentito.
Il Théâtre du Radeau ha finito il suo percorso. Quando finiranno le date fissate di Par Autan, il gruppo si scioglierà. Nel mio cuore rimarranno per sempre le parole di François Tanguy, fondamentali per la mia formazione, per il mio modo di vedere e pensare il teatro. E resteranno le immagini dei suoi spettacoli, dei suoi straordinari attori, soprattutto Laurance Chable, Frode Bjornastad, Erik Gerken, e quella sensazione di spaesante unità tra sublime e tremendo.
Se il Théâtre du Radeau e François Tanguy hanno terminato il loro percorso, resterà La Fonderie. A chiunque avrà l’onere e l’onore di continuare a far vivere quel luogo auguro di avere la forza di portare avanti quell’idea di spazio-soglia dove molte cose potevano accadere. Sarebbe il miglior modo di ricordare un grande uomo di teatro.