SARA PERNIOLA | La prima edizione di Lucy, festival di arti performative e linguaggi della scena technologically oriented, ha preso forma grazie alla creatività visionaria delle direttrici artistiche Ivonne Capece – attrice, performer e regista – e Micol Vighi – scenografa e costumista. Creata dall’associazione culturale (S)BLOCCO5, nata a Bologna nel 2016 proprio per volontà del duo Capece/Vighi e della cui poetica abbiamo parlato qui (la poetica di (S)Blocco5), la rassegna ha abitato gli spazi dell’Auditorium DAMSLab di Bologna e del Teatro Testori di Forlì dal 2 all’8 dicembre, puntando sulla multidisciplinarietà e sull’intenzione di essere un autentico atto poetico.
Lucy ha un’immagine grafica impattante: i piedi della prima donna avvolta in un cappotto di pecora e il logo insanguinato, i quali raccontano il momento in cui ci siamo alzati per la prima volta, andando incontro al nostro destino, e quale impronta vogliamo lasciare sul mondo. Costruire o distruggere? Il sangue è, infatti, il simbolo della vita, come anche quello della morte.

La cultura umanistica si combina, così, con il sapere scientifico sulle nuove frontiere del contemporaneo, generando un ponte culturale su cui incrociare contaminazioni di pensiero e interconnessioni, riflessioni sull’umanità e realtà simulate, mentre si guarda a un passato archetipico, a un presente urgente e a un futuro fantascientifico. In questo universo polifonico di forme e generi troviamo anche la sezione “Politically connected”, aperta dalla compagnia ErosAntEros – fondata nel 2010 dalla dramaturg, attrice e teorica Agata Tomšič, e Davide Sacco, regista teatrale – con lo spettacolo Libia, tratto dall’omonimo testo di Francesca Mannocchi, giornalista d’inchiesta, e Gianluca Costantini, attivista e disegnatore, con la sceneggiatura di Daniele Brolli – edito da Mondadori per la collana Oscar Ink nel 2019. Una potente e necessaria opera di graphic journalism che racconta la Libia, immersa nel caos e nel vuoto politico, ricchissima di risorse energetiche e gente disperata. Un testo da cui straborda una grande verità storica ed emotiva; verità udita, esperita ed incarnata dai suoi autori.
É la Libia che non viene descritta dai telegiornali o dai post sui social, ma la Libia dei libici, quella «delle code fuori dalle banche per procurarsi una moneta che non ha più valore; dei ragazzi che hanno combattuto il regime di Gheddafi e ora lo rimpiangono perché almeno, “quando c’era lui”, si sentivano sicuri e non mancavano i soldi. La Libia delle madri ferme alla finestra in attesa di figli che non torneranno, e quella degli anziani che hanno attraversato decenni di dittatura e ora si guardano sempre le spalle. La Libia della gente comune che subisce ogni giorno ricatti dei militari, abusi, rapimenti, e vive perennemente nel terrore», secondo l’introduzione e la descrizione del volume stesso. Persone che soffrono per l’ingiustizia e per la consapevolezza di un desiderio o rimpianto infinitamente struggente e inappagato.

La messinscena ideata dalla compagnia è profondamente innovativa e creativamente intensa: sul grande schermo posizionato al centro del palco scorrono le immagini fumettistiche del testo, rese animate da Majid Bita e Michele Febbraio, mentre Agata Tomšič e l’attore Younes El Bouzari rappresentano i temi della graphic novel con sbalorditiva intensità, con caratteri vocali che è come se venissero percepiti attraverso un tono muscolare.
Questa tensione, infatti, sale e scende lungo tutti i muscoli del corpo; vibra in onde progressive di empatia e rabbia, commozione e drammaticità, ascoltando i due performer che recitano dialoghi e flussi di coscienza. Simulano anche urla soffocate con i visi segnati da un’afflizione senza consolazione, reinterpretando la stessa grande attenzione rivolta alla resa dei volti e delle espressioni nelle tavole di Costantini, in una dinamica di alternanza e sovrapposizione con le musiche dell’impeccabile ed eclettico Bruno Dorella eseguite dal vivo.
Gli strumenti che riproducono gli spari della guerra, gli esperimenti musicali e la climax sonora che diventa sempre più acuta con l’intensificarsi dei momenti drammatici, ispessiscono il carattere tragico e catartico della pièce, a cui contribuisce anche la voce calda e densa di Tewa Hanen Shushan che ascoltiamo come sottofondo e nel fluire delle animazioni video. 

Foto di Dario Bonazza

Lo spettacolo inizia con l’interpretazione della prima sezione del testo, Abu Salim, la prigione del pensiero. Qui Hussein, silenzioso e ombroso, e fumando il narghilè, ricorda che cosa è stato quel massacro nel 1996, a Tripoli: 1270 detenuti uccisi in due giorni, quasi tutti prigionieri politici o accusati di eresia, internati senza processo. Chiedevano solo condizioni di prigionia migliori, più umane: la possibilità di vedere i propri familiari, ottenere un procedimento penale, uscire dalle celle ogni tanto per respirare un po’ di aria fresca o avere semplicemente più acqua.
Grazie al coinvolgente adattamento dei performer riceviamo il materiale narrativo in maniera vigile e profonda, in una dinamica di risonanza che genera anche dissonanza, rappresentativa del dualismo di fondo che impera sui fatti narrati e che concerne la geografia di riflessioni esistenziali. Insomma, quando Agata Tomšič riproduce il carico di decenni di storia libica di cui parla Hussein, è impossibile sentirsi assolti. 
Coinvolti, ascoltiamo e vediamo quanto e come ci si siede scomodi sulla Libia liberata. Entriamo nella storia di Hussein, che rimuove con delle omissioni di sopravvivenza il ricordo di essere stato uno dei detenuti di Abu Salim, nel timore di essere ancora controllato, spiato, «ché la dittatura, anche quando per il resto del mondo è caduta, resta con te».
I volti delle tante madri, vedove e figli degli imprigionati uccisi nel piazzale della prigione sono vividi nella sua testa; ricorda i sacchi di vestiti, deodoranti, medicine, dolci e fotografie che portavano a dei parenti già morti, attraversando tutto il paese. Se chiude gli occhi sente ancora quel nauseante odore di morte. Un’importante tema di attualità storica che assume un’incisiva forma estetica in questa drammaturgia intima e universale, pregnante e solida. 

Seguono, poi, le narrazioni teatrali delle altre parti del libro: La nebbia libica, sul traffico di uomini e sulla figura dello scafista, «dove chiaro e scuro si confondono e i ruoli e le alleanze si ribaltano, con la velocità di un battito d’ali»; Isaa, la guardia costiera di Garabulli, con la descrizione del sistema di potere legato al business dei migranti; la storia di abusi e violenze di Wered, ragazza eritrea che passa da un inferno all’altro. Poi Un’altra rivoluzione?, sul mercato nero dei traffici illeciti e il controllo delle banche da parte delle milizie; e infine La dittatura dell’abbondanza in una terra ricchissima dove «il denaro narcotizza e ha il colore nero opalescente del petrolio». Dove i terroristi sono invenzioni che servono per coprire l’occupazione, in un balletto di alleanze in cui i nemici di ieri sono gli amici di oggi. 

Il ritmo del lavoro è fluido e incisivo, dovuto al perfetto allinearsi della narrazione all’interno della narrazione. Le voci e i gesti degli attori sono in completa simbiosi e riproducono sul palco la descrizione di reali persone che sono all’interno e al centro di un determinato mondo, nel tempo come nello spazio, acquistando una corposità specifica. Ed è possibile registrare una così elevata celebrazione di questa concretezza nel notare come vengano sottolineati alcuni elementi narrativi, drammaturgici e scenografici, col fine di intensificare il carattere eminentemente drammatico dello spettacolo.
Frasi, infatti, come «Tu puzzi», «La Libia sembra un cibo andato a male», «Il vero bancomat della Libia sono diventati i migranti» sono sapientemente ripetuti, permettendo di entrare ancora di più nel vortice dell’azione, contribuendo alla definizione dei personaggi e della realtà rappresentata. La narrazione di tanti eventi drammatici in un breve intervallo di tempo accentua, poi, l’impressione tragica, così come il potenziamento dei suoni e dei lampi di luce che scoppiano nei momenti più significativi. Il palcoscenico è spoglio e scuro, e gli abiti dei performer anche: d’altronde nero è il conflitto che si racconta, nero il colore della morte senza giustizia.

Disegno di Gianluca Costantini

Assistiamo, quindi, a una sorta di catarsi aristotelica che trova nella drammaturgia una sua applicazione pratica, poiché evoca tormentosa compassione, conducendoci a una commozione verso una terra che dovrebbe essere fraterna, con cui abbiamo sbagliato e continuiamo a sbagliare. Il teatro ci restituisce una Libia dagli smalti puri e velenosi, dall’aria inebriante e irrespirabile, con vecchi difetti e naturali ambizioni e universalità. Ci getta nel disturbante intrappolamento di quella realtà, che indigna, rispettandone tutta la complessità e la grandezza, la lontananza e la vicinanza. 

Una Libia che è in mezzo a noi, che esce per prima dai propri confini e che rivendica la propria storia per desiderio e giustizia, per politica e senso morale. A noi, disperati del benessere, spetta distinguere in questo impasto gli aspetti sinceri di una faccenda così intricata, accrescerli e alimentarli con la fiducia nei confronti della memoria e con la pietà per le illusioni o gli ideali. La salvezza, per i libici e per le nostre coscienze, non ha altra via.

LIBIA

ideazione e spazio Davide Sacco e Agata Tomšič / ErosAntEros
testo Francesca Mannocchi
disegni Gianluca Costantini
con Younes El Bouzari e Agata Tomšič
musiche ed esecuzione dal vivo Bruno Dorella
drammaturgia Agata Tomšič
regia Davide Sacco
animazioni video Majid Bita e Michele Febbraio
voce di Tewa Hanen Shushan

produzione ErosAntErosPOLIS Teatro Festival
in collaborazione con ARCI
con il supporto di Elsinor Centro di Produzione Teatrale / Teatro Cantiere Florida e R.A.M.I. Residenza Artistica Multidisciplinare ILINXARIUM nell’ambito del progetto CURA 2021 e di Centro di Residenza della Toscana (Armunia – CapoTrave/Kilowatt), Comune di Castiglion Fiorentino (AR)
con il sostegno di Ministero della Cultura, Regione Emilia-Romagna e Comune di Ravenna 

Teatro Testori, Forlì, in occasione del festival “Lucy”                                                                       7 dicembre 2022