RENZO FRANCABANDERA | Cosa resta, cosa resterà? Il 2022 con le sue commemorazioni per la figura di Pier Paolo Pasolini, del cui ricorreva il centenario dalla nascita, ha portato anche a interrogarsi sulla eredità del suo pensiero, sulla sua effettiva attualità.
“Saremo in molti a chiederci, anche dopo il centenario dalla nascita, quanto attuale rimarrà Pasolini, cosa di lui sarà ancora vivo e cosa ingiallito, cosa ancora portabile e cosa riporre nell’armadio in attesa di tornare in auge come modernariato”. Così Marco Tullio Giordana spiega nelle note di regia le spinte originarie che hanno dato vita allo spettacolo Pa’, prodotto dallo Stabile del Veneto e pensato insieme all’attore Luigi Lo Cascio, che ne è ormai da anni “compagno di ventura”, come Giordana stesso lo definisce.
Si tratta quindi, per dirla con Recalcati, di attribuire al pensiero nostalgico verso il protagonista, una direzione capace di rivelarne una particolare attualità, che promani non solo dalla figura stessa dell’artista ma anche da chi ne fa novazione del pensiero.
“Io sono stato uno di quei ragazzi che lo chiamavano Pa’, che lo pensavano come contemporaneo, uno che avresti potuto avere a portata di mano se non l’avessi considerato un maestro irraggiungibile. Nella sua poesia ritrovavo le stesse provocazioni, gli stessi stimoli, ma come se tutto fosse stato risolto in una Forma e apparisse perciò meno doloroso, meno disperato di quanto trapelava negli articoli o nella prosa militante. Quanta rabbia in lui a scrivere, quanta in noi a leggerlo, strana la sensazione di intimità e irritazione, come davanti a un fratello maggiore infinitamente dotato, amatissimo e indisponente”.
Recalcati, rivolgendo la sua indagine proprio alla figura di Pasolini e al rapporto con il suo tempo nello studio Pasolini. Il fantasma dell’Origine, attribuisce alla figura del regista e pensatore una specie di rousseauismo di fondo, che si individua nel suo voler cercare le origini mitologiche del consesso umano alienato e corrotto nella nostra epoca dallo “sviluppo senza progresso”.
Pasolini restò per tutta la vita in un rimpianto nostalgico per la vita del popolo che precedeva il suo essere “classe”, per la natura della campagna friulana e per le borgate del sottoproletariato romano che precedono l’industrializzazione, per le lingue dialettali che precedono il conformismo della lingua nazionale imposto dalla televisione, per il corpo innocente dei ragazzi del popolo che precede quello stereotipato richiesto dal “nuovo fascismo” della società dei consumi.
Che tipo di racconto quindi viene fuori da questo spettacolo? Cosa ci dice la regia attraverso i segni scenici, di Pasolini?
Il conflitto fra stato di natura primario e deturpazione di questo universo idilliaco in cui il pensiero trovava una sua forma primigenia è una delle idee fondanti dell’allestimento di Giordana/Lo Cascio: la forza e l’originalità di Pasolini si basano, per un verso, sulla consapevolezza della trappola nostalgia-rimpianto e, per altro, sulla considerazione che il mondo sacro su cui ci affacciamo non appena aperto il sipario è un mondo ormai irreversibilmente perduto.
Ma questa prima versione della nostalgia, di “passione per l’immobile” in cui il soggetto nostalgico vorrebbe contrastare il divenire del tempo, impedire l’allontanamento dalla propria madre, dalla propria casa, dalla propria terra, dalle proprie radici, è il fulcro della prima parte dell’allestimento di Giordana.
Innanzitutto in scena c’è una persona sola, quindi la rappresentazione fornita attraverso il corpo e la voce di Luigi Lo Cascio è quella di un individuo in solitudine, che si rivolge non esplicitamente alla platea, ma a una generica funzione di ascolto. L’interprete non indirizza la sua parola in maniera univoca oltre la quarta parete, ma sembra quasi chiuso dentro una propria dimensione, un proprio luogo, uno spazio che non comprende gli altri.
Il linguaggio con cui questo avviene è la lingua poetica delle riflessioni più ermetiche e critiche di Pasolini, non quella delle chiacchierate colloquiali con gli amici, ma quella dell’analisi politico-sociale e più genericamente filosofica sul senso della vita e della missione dell’essere umano. Il paesaggio scenico che si apre con l’aprirsi del sipario a comando del poeta è un piccolo prato di erba verde finta, inclinato in modo assai ardito.
Ricorda uno degli ultimi allestimenti di Massimo Castri, il suo Porcile (anche in quel caso Pasolini), per il quale Maurizio Baló pensó a piano inclinato, a un prato verde finto, su cui si svolgeva l’azione, e dentro il quale crescevano giganteschi fiori finti.
Questo disegno scenografico di Giovanni Carluccio, forse un omaggio nostalgico a quella scenografia, si arricchisce qui di una serie di ulteriori elementi dinamici che letteralmente entrano in scena attraverso meccanismi di semovenza. Tra questi, una gigantesca parete obliqua che emerge dal fondale e si solleva per quasi tutta l’altezza del fondo, lasciando esclusivamente una striscia in cima che rimane, grazie al disegno luci dello stesso Carluccio, minima finestra di cielo. Trasforma quello spazio idealmente sconfinato in una piccola prigione dal tratto urbano, rinchiude il vissuto, il pensiero, in una costrizione carceraria.
L’intellettuale Pasolini, in abiti anni Settanta, entra sul palco dalla platea per andare alla sua scrivania posta a sinistra sul palcoscenico e per poi aprire con gesto magico della mano il sipario: sembra dall’inizio idillicamente muoversi in questo prato di memorie e visioni, che partono dalla sua gioventù a Casarsa in Friuli. In particolare nella drammaturgia viene menzionato l’episodio che portò poi Pasolini a partire alla volta di Roma, ovvero l’indagine a cui fu sottoposto per sospetto di atti sessuali omoerotici. All’epoca non fu sostenuto nella battaglia giudiziaria e di opinione dal partito comunista della locale sezione di cui era attivista e segretario, cosa che lo portò di lì in avanti ad assumere posizioni critiche e non più organiche rispetto alla militanza nel partito.
E si trasferì in città. Quanto la città diventò luogo di reclusione del suo mentale idilliaco non possiamo saperlo, ma di certo originò il corto circuito che generò il pensiero politico di Pasolini.
Alcune memorie riferite alle sue relazioni umane vengono incarnate dalla presenza di Sebastien Halnaut che di tanto in tanto entra da un lato della scena per attraversarla con lentezza, senza mai proferire parola, prendendo le sembianze di questo o quel fantasma della vita del protagonista: non rappresenta mai una alterità dialogica ma al più un’incarnazione delle questioni umane che vengono evocate nel flusso di coscienza del pensatore.
Tutta la vita, la militanza, l’arte, sono un tentativo di Giordana-Lo Cascio di superare il vincolo nostalgico-infantile generatore di fantasmi e che condizionò la lettura pasoliniana del tempo storico: dovrebbe trattarsi di quella che Recalcati chiama nostalgia-gratitudine, che emancipa la nostalgia da ogni atteggiamento luttuoso, e al centro della quale non c’è semplicemente il rimpianto inesauribile rivolto al passato – idealizzazione, conservazione, venerazione – perché questa nostalgia esclude ogni possibile ritorno.
Dalla consapevolezza per la quale la stella morta non può essere recuperata, non può essere restituita alla vita, che la perdita è senza possibilità alcuna di rimedio, questa forma di nostalgia, che non è di Pasolini ma di chi lo rilegge attraverso il teatro, vuole in un certo senso analizzare la novità antieroica e umanissima della sua figura. Mentre il nostalgico che vive di rimpianti è colui che resta aspirato dal passato, spogliato dell’avvenire, situando in ciò che è già stato la sola salvezza possibile, il nostalgico-grato evoca l’assenza non solo come il luogo inconoscibile della morte, ma come la matrice di una vita ancora sconosciuta, come una pietra di confronto per un tempo, come il nostro, inquinato, offuscato, sommerso dall’inutile.
E così Pasolini, che sembra parlarci da una specie di Purgatorio di luci fioche, mai dirette, abitato da anime dolenti, assume un connotato di purezza, in contrasto con il mondo che incarniamo, quello della società consumistica, evocata per la sua produzione di scarti, di rifiuti. In questo senso la nostalgia diviene gratitudine nei confronti di una luce che, pur provenendo dal passato, irradia in modo sorprendente il nostro avvenire. Un’anima morta che invece appare in modo perturbante anche tra noi vivi, fatta non solo di tracce del passato, ma di “cose” ancora vive che insistono nell’affacciarsi prepotentemente alla nostra mente, che non smettono di ritornare, di rifarsi presente.
Questo è anche il finale dello spettacolo che rievoca il trauma della morte di Pasolini, con la celebre vettura che fu il paesaggio attorno al quale si costruirono gli ultimi attimi di vita del poeta: cala dall’alto a mo’ di telo, testimonianza quasi da indagine criminale che rivela come ciò che è accaduto nel passato non cessa di accadere, e anzi ci insegue, incalza, tormenta, suggestiona. La memoria spettrale è costituita da un passato che non passa e che, anzi, ritorna insistentemente come se non potesse essere mai del tutto assimilato dalla nostra coscienza. Questa la lettura che viene favorita per il pubblico borghese che assiste in teatro alla rappresentazione, che si stringe attorno ad un rito commemorativo lento, complesso, per molti versi anti-spettacolare e anti narrativo, fondato sulla reincarnazione affidata alla corporeità e alla mimica di Lo Cascio, al proferire di una parola anch’essa quasi anti-spettacolare, non mediata, volutamente scelta per la sua faticosa comprensibilità.
In questo mondo soffuso, arrivano parole e gesti dal passato, che appare davvero come uno spettro, dunque come qualcosa di morto e vivo nel medesimo tempo, amletica ferita che non smette di spurgare, che ambisce a costituirsi come memoria del futuro: non culto passivo del passato, ma strumento per creare il nostro avvenire.
Riscopriamo Pasolini, pare dirci Giordana, solo se e quando riusciamo a liberarci dall’ammasso di inutile, dalla pioggia di detriti consumistici che, come una colossale installazione di Tony Cragg, piove dall’alto nel finale, quasi fossimo un fondale marino inquinato da una cascata di rifiuti.
Da questa apocalittica visione paesaggistica rimaniamo con la sensazione che quello che è stato non è un cimitero dei ricordi, né un luogo dal quale ritornano gli spettri, ma un tempo che possiamo e dobbiamo risignificare, bonificando il nostro ecosistema di segni, nel quale la parola pasoliniana rischia di diventare noiosa profezia autoavverantesi.
Quali parole abbiamo capito? Quali ci sono rimaste? Da quelle occorre ripartire, per non cadere in ciò che Pasolini a più riprese evocava come il vero grande rischio della nostra esistenza: morire da vivi, essere noi dentro il Purgatorio grigio, mentre lui, semplicemente, ci metteva davanti uno specchio per poterci osservare meglio.
PA’
drammaturgia Marco Tullio Giordana, Luigi Lo Cascio
da testi di Pier Paolo Pasolini
regia Marco Tullio Giordana
con Luigi Lo Cascio
e la partecipazione di Sebastien Halnaut
scene e disegno luci Giovanni Carluccio
costumi Francesca Livia Sartori
musiche Andrea Rocca
aiuto regia Luca Bargagna
direttore di scena Federico Paolo Rossi
macchinista Gianluca Quaglio
elettricista Nicolò Pozzerle
sound Andrea Lambertucci, Giuseppe Lo Bue
sarto Gabriele Coletti
amministratrice di compagnia Federica Furlanis
foto e video Serena Pea
produzione TSV – Teatro Stabile del Veneto
Si ringraziano gli eredi di Pier Paolo Pasolini Maria Grazia Chiarcossi e Matteo Cerami, la casa di moda Missoni e Maurizio Donadoni