RENZO FRANCABANDERA | Chille de la Balanza è una delle realtà storiche italiane di militanza teatrale, nata come gemmazione filiale dall’esperienza di una delle più importanti famiglie capocomicali napoletane, la famiglia Ascoli, diversi decenni fa, e attiva nell’arte dal vivo con forme e intenzioni molto definite e connotate dalla presenza geografica a Firenze, nel perimetro di San Salvi: si tratta di un’area che adesso pare finalmente oggetto di un piano di recupero organico dopo aver dismesso anni fa la sua funzione di struttura manicomiale. È proprio questa recente destinazione ad aver rafforzato anni fa in chi ha la direzione di Chille, ovvero il regista e artista teatrale Claudio Ascoli, la determinazione per costruire attorno e dentro questo luogo lo spazio fisico e creativo per sviluppare le proprie direzioni di intervento sul territorio del capoluogo toscano. Lo abbiamo intervistato.
Claudio, un fine d’anno 2022 importante per Chille, ma un 2023 che si affaccia denso di impegni e di eventi per la vostra realtà.
Il 2023 sarà un anno, per molti versi, straordinario. Segue un 2022 già magico che ci ha visto realizzare emozionanti, importanti e spesso imprevisti progetti. Uno su tutti La Periferia al Centro, all’interno di Autunno fiorentino, progetto speciale del Mic e del Comune di Firenze. Nella Periferia abbiamo creato una Caccia al tesoro con interviste dei cittadini confluite poi in un Libro sulla memoria del quartiere e costruito un vero Teatro all’aperto in via Canova, sotto il murale del volto di Gramsci disegnato da Jorit. In questo teatro abbiamo poi presentato ai tanti abitanti delle case popolari del quartiere 4 Il mondo è una unità, dialogo-confronto proprio tra Antonio Gramsci e Franco Basaglia.
Ma torniamo al 2023. È per noi prima di tutto anno di progetti per anniversari straordinari, te ne indico almeno quattro: il centenario della nascita di Don Lorenzo Milani, il 50° della creazione di Marco Cavallo, scultura-simbolo del superamento dei manicomi in Italia, il 25° della chiusura definitiva del manicomio di San Salvi e l’ultimo, strettamente personale, il 50° della nascita di… Chille de la Balanza. Sì, proprio così, la nostra compagnia è nata il 13 ottobre 1973 a Napoli. In quel giorno inaugurammo compagnia e spazio teatrale: il Teatro, Comunque. Si trattava di una piccola cantina teatrale in pieno centro storico, in via Port’Alba, antica strada dei librai della città partenopea. Già allora eravamo alla ricerca di un teatro necessario: l’avverbio “comunque” lo precisa oltre ogni ragionevole dubbio. E se non bastasse, pensa che lo inaugurammo appena due mesi dopo l’epidemia di colera dell’agosto 1973!
Un anniversario importante che sono sicuro festeggerete in modo significativo! Vi siete fatti un recente regalo con il progetto su Il Brigante di Walser. Come è nata questa idea poetica? È un po’ una follia questo allestimento, come in fondo è anche il testo.
Com’è nata questa follia? Mi sono innamorato de Il Brigante! È forse l’opera più incredibile di Robert Walser, scrittore svizzero adorato da Kafka, Musil, Benjamin ma a lungo relegato tra i folli, gli eccentrici, i diversi che, in quanto tali, non meritavano attenzione letteraria e critica. Solo a partire dagli anni Settanta, è stato appassionatamente letto e studiato, soprattutto per i suoi microgrammi: 526 fogli di carta riciclata su cui – durante l’internamento nella clinica psichiatrica di Waldau negli ultimi anni della sua vita – ha scritto a matita con grafia minutissima divertenti racconti, romanzi, annotazioni, componendo in modo assolutamente disinvolto e involontario gioielli di prosa perfetti. I microgrammi, tra cui Il Brigante, erano illeggibili allo stesso autore che dopo la prima stesura – e fatta in quali condizioni! – non li poteva più correggere! Sono un flusso di situazioni, un racconto spesso non conseguente che narra la vita di un anti-eroe, un uomo “gentile”, forse lo stesso Walser. Il Brigante fu scritto fra il luglio e l’agosto del 1925, scoperto dodici anni dopo la morte di Walser e decrittato, pensa, solo nel ’68.
Me ne sono proprio innamorato e ho sentito la “necessità” di fare qualcosa, di esserci. Ne è nata l’idea di uno spettacolo a partire dal finale del romanzo, forse l’unico momento in qualche modo comprensibile: sembra che Walser l’abbia scritto di getto. Ho scelto una scrittura scenica libera, che affiancasse linguaggi e situazioni apparentemente tra loro distanti (teatro, danza…) con un uso spregiudicato dello spazio scenico per creare uno spettacolo che non cercasse la comprensione dello Spettatore, ma il suo amore!
Sì, in fondo, ho solo provato a far sentire a Walser il mio infinito amore per questa creazione riservata, adorabilmente pudica che è Il Brigante. Così io, regista in scena, accompagno lo spettacolo come un padre che amorosamente avvia alla vita il suo bambino.
Questo 2023 come accennavamo sarà l’anno del ricordo per la figura di Don Milani. Cosa nella tua pratica artistica ti lega a lui? Hai già idee precise su chi sarà coinvolto con voi nell’operazione?
Anche in questo caso parlerei di… amore. L’incontro con il priore di Barbiana è per noi Chille, per me, innanzi tutto generazionale. Sono entrato in Università nel ‘68 e Lettera a una professoressa era un po’ il nostro libretto rosso. Ma la tua domanda apre altri mondi e percorsi davvero nuovi e stimolanti. Sì, i legami con Don Milani sono soprattutto nella pratica artistica. Non tutti sanno che Lorenzo – non ancora ordinato sacerdote – ebbe una importante formazione artistica. Nei primi anni Quaranta, appena diciottenne, venne a Milano per studiare all’Accademia di Brera e lo fece dopo aver appreso i rudimenti della pittura da un artista tedesco stabilitosi a Firenze, Hans-Joachim Staude. Questi non aveva troppa fiducia nel talento acerbo di questo giovanotto, ma riconobbe in quelle sue prime prove «una forza tutta sua», il tentativo di andare «all’origine delle cose».
Il nostro studio su Don Milani, che nasce oltre dieci anni orsono, svela che tutta l’opera milaniana, e soprattutto Lettera a una professoressa segue un percorso di meticolosa creazione artistica. Abbiamo pensato di dar vita con lo Spettatore a un momento di (artistica) scrittura scenica collettiva, con accumulo e successiva sottrazione, così come avvenne tra Don Lorenzo e i suoi allievi per la “Lettera”. Nasce così un evento che si compone, sera dopo sera, con il pubblico… comunità partecipante.
Mi chiedi se so con chi realizzerò il progetto Don Milani. In parte lo so, anche se sono aperto, come sempre, agli incontri che troverò nel cammino. Negli anni di lavoro su e per Don Milani ho avuto la felicità di vivere gli occhi e i sorrisi di tante Persone: innanzi tutto degli allievi di Barbiana, e poi di studiosi, esperti di cose milaniane, ma soprattutto di Persone che hanno condiviso momenti del suo cammino. Devo però dire che oggi sono particolarmente interessato a quanti, per privilegio d’anagrafe direbbe Pasolini, ne hanno solo sentito parlare. È a loro, ai più giovani che mi rivolgerò quando, sera dopo sera, proverò a comporre la nostra Lettera a una professoressa, costruendo con loro e fisicamente la stanza di Barbiana (tavolo, panche…); soprattutto scegliendo storie tra parole e oggetti (la mia valigia del priore ne contiene per una narrazione totale di quasi 8 ore!) da far vivere nell’incontro con lo Spettatore.
Per meglio spiegare la centralità della partecipazione nel nostro progetto milaniano te ne racconto in poche parole il primo (imprevisto) momento. Appena nato il nuovo governo, apprendiamo di un ministro all’istruzione (non più pubblica) e al merito (ma quale?)… che addirittura invita gli studenti all’umiliazione! Decidiamo di “levare le mani di tasca”, direbbe il priore. Consapevoli dell’importanza della Costituzione per don Milani, invitiamo a San Salvi cittadini a dipingere manifesti numeri unici dagli articoli della Costituzione per costruire tutti insieme grandi manifesti di m. 6 x 3, che poi affiggiamo per la strade di Firenze. Una partecipazione e un successo al di là di ogni aspettativa! “Sortirne insieme è la politica, sortirne da soli è l’avarizia”. La nostra “Lettera” debutterà a fine maggio, all’indomani del giorno di anniversario milaniano.
E arriviamo a San Salvi quindi, area da sempre al centro della tua scommessa nella permanenza in territorio fiorentino. Adesso pare sia definitiva l’approvazione del progetto di riqualificazione. Ne sarete in qualche modo coinvolti? Non temi che possiate soccombere di fronte a idee e progetti speculativi?
Proprio in questi giorni il Comune di Firenze con il determinante apporto dell’assessora all’urbanistica Cecilia Del Re, la Regione Toscana e la Asl, proprietaria di gran parte dell’area, hanno messo a punto un Piano Urbanistico che raccoglie per San Salvi molti dei suggerimenti nati e messi a punto a casa Chille. Anni fa collaborammo a un progetto dello studio di architetti Guicciardini-Magni che si intitolava “San Salvi riparte dalla cultura”. In esso si ipotizzava il recupero del cinema-teatro ormai abbandonato da decenni, la nascita di un Centro Culturale-Museo di Art Brut e di una piazza intitolata “13 dicembre 1998” (cioè il giorno in cui l’ultimo matto uscì da San Salvi) e infine la trasformazione in Parco pubblico del parco dell’ex-manicomio.
Questo studio è stato poi approfondito e arricchito negli anni con le creazioni del giovani Artisti che hanno partecipato a SPACCIAMO CULTURE INTERDETTE: un bando Festival di rigenerazione urbana, la cui edizione 2023 è in partenza in questi giorni. Tutto ciò, ma proprio tutto, è all’interno del nuovo Piano. Possiamo quindi esser contenti, allora? Sì, ma con qualche riserva, non tanto per il rischio di un mancato coinvolgimento considerata la forte spinta dal basso che accompagna i nostri progetti, né tanto meno per possibili inserimenti di progetti speculativi, e sempre per la ragione di cui sopra. Temiamo piuttosto l’infinito allungarsi dei tempi per il reperimento di tutte le risorse necessarie per il completamento del Piano. Ma, almeno in questo momento, lasciamoci invadere – dopo 25 anni di lotta – da un minimo di ottimismo!
Sei destinatario e parte di una storia di famiglia. Una tradizione secolare. Cosa significa per te oggi questa cosa, e in che modo si allunga sul tuo futuro artistico. È qualcosa su cui pensi mai?
L’essere figlio di una delle famiglie storiche del Teatro napoletano è stato per me, per molti anni, quasi un peso. Sentivo la necessità di prenderne le distanze. Non è un caso che dopo Uè, Pulecenè, spettacolo del 1975, ben poche siano state le occasioni di avvicinarmi nuovamente a Napoli e alla sua cultura. E l’arrivo in Toscana nel 1985 ha rafforzato questa tendenza. Ma dentro, nei ritmi-odori-colori, sono sempre stato napoletano e teatrante napoletano figlio d’arte. Negli ultimi anni, la distanza mi ha fatto guardare con nuovi occhi di bambino Napoli, la mia famiglia artistica. Così mi sono incontrato idealmente di nuovo con mio padre Antonio, che aveva accompagnato con amore i miei primi momenti teatrali e personalmente con mio fratello minore Dario, musicista, e fondatore dei Chille nell’ottobre del ’73: con lui ho tra l’altro messo in scena L’ammalato immagginario, opera buffa del ‘700 napoletano dal capolavoro di Molière. Ma soprattutto ho ritrovato mio nonno Giuseppe, capostipite della famiglia teatrale Ascoli. Devi sapere che io sono nato pochi mesi dopo la sua morte e in famiglia i tanti fratelli di mio padre (era il sedicesimo figlio!) erano ben convinti che nella mia generazione fossi io a dover continuare la tradizione familiare e… fare Teatro. Erano così decisi che andarono all’anagrafe del comune di Napoli per farmi cambiare il nome da Claudio a Giuseppe. Ovviamente, non avendo l’assenso dei miei genitori e soprattutto di mia madre, non vi riuscirono e infatti mi chiamo Claudio. Per molti anni fui come allontanato dal ricordo di nonno Peppino, di cui la nonna e soprattutto gli zii e le zie, non perdevano occasione di raccontarmi aneddoti e storie talvolta romanzate. Ma nel 2019 mio cugino Franco, figlio del primogenito Nello e ultimo custode di copioni e disegni di nonno Peppino, decise che fosse giusto consegnare a me quest’eredità, in quanto unica persona che avesse scelto di fare Teatro. Riflettendo alla cosa, mi chiedo se 70 anni fa non avessero visto giusto i miei zii e le mie zie?! L’anno dopo, il 2020, dai preziosi documenti ereditati è nato lo spettacolo Napule ‘70: un viaggio sui miei settant’anni e sulla Napoli degli anni Settanta. Da allora penso spesso alla mia storia di famiglia, anzi, ti confesso, ho la sensazione che nonno Peppino mi accompagni, con rigore e amore, nel mio quotidiano lavoro di teatrante.
Cosa ti fa davvero felice del tuo lavoro oggi?
Due cose. La sensazione precisa, direi la consapevolezza, di avere a 72 anni un cassetto con tanti sogni ancora da realizzare e che, nonostante lavori senza sosta, si riempie ogni giorno di più. E soprattutto gli occhi di molte persone e di tanti ragazzi che incontro ogni giorno e che mi confermano la “necessità” del Teatro. È principalmente per loro che noi Chille inventiamo occasioni per fare teatro, come avviene in questi giorni con il Bando SPACCIAMO CULTURE INTERDETTE. Sono loro, allo stesso tempo destinatari e soggetti, che faranno di San Salvi, un tempo manicomio fiorentino e città negata, finalmente una città aperta. Non è un obiettivo facile e semplice, ma noi Chille pensiamo che bisogna sempre correre il rischio di esser felici!