RENZO FRANCABANDERA | È tornato in Italia al Teatro delle Muse di Ancona nell’ultimo weekend di gennaio 2023 grazie alla volontà di Velia Papa e alla direzione artistica di Marche Teatro, l’ultima creazione di Wim Vandekeybus, Hands do not touch your precious me / The mingled universes of Wim Vandekeybus, Olivier de Sagazan & Charo Calvo.
Lo spettacolo unisce la ricerca sul codice della danza del coreografo ai percorsi mistico-creativi ottenuti attraverso l’uso performativo delle creazioni artistiche con l’argilla di Olivier de Sagazan, e alla musica di Charo Calvo.
Vandekeybus, è coreografo, regista e filmmaker molto legato alle Marche: a Velia Papa deve la sua prima produzione internazionale, ormai diversi anni fa, grazie al Festival Inteatro di Polverigi. In questa creazione dal tratto artistico assai particolare si condensa la volontà di collaborare con la compositrice Charo Calvo, otto danzatori e per la prima volta con il performer e artista visivo Olivier de Sagazan, un’idea nata proprio dalle suggestioni della poetica di quest’ultimo.
De Sagazan, con un suo originalissimo e potente lavoro di quasi trent’anni fa, Transfiguration, ospite l’anno passato di Inteatro, ha creato un mondo di particolarissime epifanie creative sul tema dell’elemento magico e spirituale, quasi animista, dove il corpo, scultura vivente ricoperto di materiali organici come appunto la terra, la stoppia, i colori rosso e nero, diventa rappresentazione simbolica in continuo mutamento del rapporto fra vita e morte, rimanendo in bilico tra utopia e turbamento, tra forza e fragilità.
Quello di Hands do not touch your precious Me, è quindi un racconto mitologico di confronto e trasformazione, luce e oscurità, morte e rinascita sul tema del viaggio nell’Ade, un tema mitologico ricorrente in molte culture antiche, tra cui quelle greca ed egizia, ma che ha suggestioni ancora precedenti, come nella cultura sumera, a cui alcuni specifici riferimenti alludono. Il viaggio nell’Ade rappresentava la discesa nella terra dei morti per scopi vari, come la salvaguardia della vita o la ricerca di conoscenza. Nelle rappresentazioni artistiche, questo viaggio è stato spesso associato a immagini di tenebre e mistero, con la rappresentazione di creature terrificanti e figure demoniache che ostacolano il cammino, un viaggio simbolico verso la conoscenza interiore ed emozionale.
La discesa nel profondo, come quelle raffigurate nella decorazione delle grotte di Platone a Cnosso, in Grecia, e nei dipinti delle tombe egizie, o anche in forme narrative a noi più vicine come la “Divina Commedia” di Dante Alighieri, rappresenta in fondo un’esplorazione simbolica della natura umana e della condizione morale.
Se in alcune culture tradizionali come quelle africane o aborigene il viaggio agli inferi può essere rappresentato attraverso danze rituali che celebrano il passaggio dalla vita alla morte, nella danza contemporanea l’argomento è stato interpretato in modo più astratto, esplorando temi come la sofferenza, la paura e la disperazione attraverso movimenti e gestualità.
Il titolo piuttosto misterioso della coreografia rimanda a un verso tratto da un inno alla dea Inanna scritto dalla alta sacerdotessa sumera Enheduanna intorno al 2300 a.C. ed è considerato il primo inno conosciuto della storia scritta. Esso celebra la dea sumera dell’amore, della guerra e della bellezza, e si concentra sulla sua potenza e sul suo ruolo nella vita del popolo sumero. L’inno è stato ritrovato su tavolette d’argilla e rappresenta un importante contributo alla comprensione della religiosità e della cultura sumere, incarna le contraddizioni che ogni persona è costretta a superare nella vita ma ha dentro anche un modernissimo senso della pluralità delle identità racchiuse in ciascuno, come si evince chiaramente da alcuni passi del testo:
- resa potente da tutti i suoi sette me…
- mia regina! Tu sei la custode di tutti i grandi me!
- Tu che hai preso i me, tu che hai tenuto i me nelle tue mani
- Tu hai riunito i me, tu li hai tenuti stretti al tuo petto.
Enheduanna organizzò e presiedette il complesso templare della città di Ur e non abbandonò il padre neanche durante un tentativo di colpo di stato. Continuò poi a scrivere poesie e a ricoprire il ruolo di sacerdotessa anche durante il regno del fratello Rimush. Proprio quest’ultimo ispirò la poetessa nello scrivere l’ “Esaltazione di Inanna“, dea dell’amore e della distruzione, poema che ha permesso di salvare l’affascinante culto della divinità femminile per le generazioni future.
E se nel 2023 d.C. quindi millenni dopo la fine di questa vicenda umana, siamo qui a testimoniare un atto artistico che da quelle parole si è originato, dobbiamo ritenere che effettivamente in qualche forma questo sia avvenuto.
Lo spazio scenico ideato per lo spettacolo ha un ampio vuoto centrale mentre in senso orario, da sinistra, si dispongono in proscenio una postazione con un piccolo muretto alto pochi centimetri fatto di argilla, materiale di vocazione per l’artista De Sagazan. Sempre sul lato sinistro ma in fondo alla scena sono disposti un tavolino con una sedia e dietro, in diagonale, una sorta di simbolica selva di aste di legno, spoglie, essenziali, senza fronde. Sul lato opposto, quindi a destra in fondo, è posizionata una sorta di scatola di legno, un parallelepipedo da cui nascerà l’azione. In primo luogo perché il coreografo stesso vestito tutto di nero ci si affaccerà come a guardare dall’alto di un castello cosa accade sotto, e poi da dietro di esso verranno fuori progressivamente le figure dei danzatori coinvolti nell’azione performativa.
La prima figura a uscire da questa scatola gigante è proprio quella di una bambina con una candela sul capo, un’iconografia che per un verso ricorda questa candida divinità sacerdotale sumera, e per altro rimanda all’immagine dell’arte, del culto dei morti, della dea Proserpina perché intorno a lei è tutto oscuro, salvo il centro del palcoscenico, illuminato di una luce abbastanza diffusa ma pallida.
Il movimento che i performer daranno di qui in avanti alle azioni è circolare, esplorando in scena la loro stessa identità e la possibilità di mutarla o riplasmarla, come se anche quella, come le maschere di argilla che de Sagazan (in queste repliche sostituito un altro performer) applica al suo volto e modifica, costruendole e distruggendole, corrispondessero a forme del proprio essere. Sono quasi corazze di creta, applicate su corpo e sul volto, dentro un fluire di immagini sia gestuali che digitali in continuo scorrimento.
Con riferimento alla resa spettacolare ma anche al tentativo artistico, il percorso concettuale è quello di trovare la forma per elaborare due percorsi rituali: uno incentrato sulla ancestralità gestuale del performer francese, caratterizzata dagli elementi naturali in dialogo con i quali si sviluppa un animismo magico; l’altro è quello del linguaggio visivo contemporaneo che cerca di fissare identità, bloccare espressioni, momenti, gesti, cristallizzati in primi piani, raccolti in presa diretta con la telecamera in scena.
Diversamente dalle performance in cui De Sagazan è solo e quasi in sfida con se stesso e con il proprio daimon personale, in questo caso l’azione con l’argilla coinvolge, corrompe, sporca progressivamente gli altri coreografi coinvolti: è come se il rito si compisse attraverso il tatto, proprio quel tatto che invece viene menzionato nel titolo come elemento legato all’intangibilità.
La postazione magica posta sulla sinistra del palcoscenico, quando avvicinata dagli altri danzatori, altrimenti coinvolti in un vorticare di anime dannate, li attira e li segna. Vandekeybus puntella con riprese dal vivo che lui stesso genera in scena, occupando anche il tavolino e che si condensano in fermi immagine, di tono seppiato, bianco e nero, polaroid sganciate dalla realtà e proiettate sulla superficie in fondo a destra dello spazio scenico, opposta in diagonale rispetto alla stazione magica che invece è quasi in proscenio e dove, come è solito per l’artista sciamano, si dà seguito al rito del fuoco che in questa coreografia viene illuminato da un puntatore violaceo che sviluppa un’incandescenza poetica assoluta.
Di bellezza particolare questa visione come la stupenda danza finale in cui i danzatori si muovono a ritmo di musica intorno ai corpi di due di loro ricoperti di argilla e fermati in un abbraccio immobile che dura diversi minuti, e che ricorda quasi le figure rinvenute a Pompei.
Lo spettacolo si risolve in uno stranissimo banchetto che si svolge intorno al cubo rettangolare di destra, trasformato in tavola imbandita da una proiezione in cui i commensali, tutti illuminati da candele, mangiano un cibo pappa, equivoco, che vuole evocare sensazioni di ulteriore inquietudine. Le candele si spengono portandosi dietro questa visione di segni e profondità non narrabili, quasi indescrivibili se non in questi pochi cenni che provano a mettere assieme elementi logici in una visione che invece chiede allo spettatore di lasciare all’esterno il paradigma logico e di affidarsi al proprio inconscio profondo. Da vedere!
HANDS DO NOT TOUCH YOUR PRECIOUS ME
The mingled universes of Wim Vandekeybus, Olivier de Sagazan & Charo Calvo
regia e coreografia Wim Vandekeybus
creato con Olivier de Sagazan
interpretato da Matteo Principi, Lieve Meeussen, Wim Vandekeybus, Maria Kolegova, Mufutau Yusuf, Borna Babic, Maureen Bator, Davide Belotti, Pieter Desmet e Anna Karenina Lambrechts
creazione artistica con l’argilla Olivier de Sagazan
musica composta e prodotta da Charo Calvo
musica originale aggiuntiva (red dance) Norbert Pflanzer
telecamera live Wim Vandekeybus
assistente artistico Margherita Scalise
drammaturgia Erwin jans
costumi Isabelle Lhoas
assistente costumista Isabelle De Cannière
accessori Cèline De Schepper
disegno luci Wim Vandekeybus & Thomas Glorieux
fonico Christian Schröder
coordinamento tecnico e direzione di scena Thomas Glorieux
assistente coordinamento tecnico Benjamin Verbrugge
produzione Ultima Vez
coproduzione KVS Bruxelles, Teatro Comunale di Ferrara
con il sostegno del Governo Federale Belga, Casa Kafka Pictures, Belfius
Ultima Vez è sostenuta dalle autorità fiamminghe e dalla commissione della comunità fiamminga della regione di Bruxelles Capitale