CHIARA AMATO | Un efferato omicidio avvenuto nel 1998 a Laramie, Wyoming, attirò l’attenzione della compagnia Tectonic Theater Project che, guidata da Moisés Kaufman, seguì i fatti accaduti subito dopo la morte di Mattew Shepard, ucciso a 21 anni, a sangue freddo da due compagni di scuola, a causa della sua omosessualità.
Kaufman, il suo fondatore, è un regista e drammaturgo che nella sua carriera è stato nominato ai Tony e agli Emmy ed è stato premiato da Obama come vincitore della National Medal of Arts, e la sua compagnia newyorkese, dal 1991, ha creato e messo in scena oltre venti opere teatrali e musical utilizzando il metodo di produzione teatrale Moment Work™, e un processo di ricerca e creazione laboratoriale.
A The Laramie Project era seguito, dieci anni dopo, un secondo intervento sullo stesso tema, The Laramie Project: Ten Years Later, una sorta di sequel del primo.
Quello stesso progetto è stato rielaborato nel 2020 dalla Ferdinando Bruni e Francesco Frongia, due artisti legati nella pratica artistica oltre che umana, fin dal loro SdisOrè di Testori (2003). Diverse le loro regie congiunte negli ultimi anni, fra le tante produzioni firmate Teatro dell’Elfo, dove è appunto andato di recente in scena per quasi tre settimane Il seme della violenza – The Laramie project.
Lo spettacolo si apre su un campo da basket che vede posizionato sullo sfondo, in alto, due enormi schermi e in basso degli armadietti da college americano; a destra e sinistra abbracciano il palco due gradinate, dove gli attori (Margherita Di Rauso, Giuseppe Lanino, Umberto Petranca, Marta Pizzigallo, Marcela Serli, Nicola Stravalaci, Umberto Terruso, Francesca Turrini) siedono all’alternarsi dei ruoli in scena, come dei giocatori in panchina, in attesa di entrare in campo.
La vicenda è divisa in due atti, dove, nel primo, viene raccontato cosa accadde i giorni prima dell’omicidio, in quella notte violenta e l’arrivo della compagnia in quelle terre del Wyoming; nel secondo, invece, il processo e i lasciti, sulla quiete cittadina, dal periodo appena passato.
Il ritmo, con il quale gli attori escono ed entrano dal cono di luce che li avvolge, nel momento in cui sono in scena, è molto rapido: simula la velocità delle notizie emesse da un telegiornale e l’informazione dei mass media in genere. Cambiano continuamente i loro panni in scena, nascosti all’occhio del pubblico grazie al gioco di ombre, per ricreare un numero altissimo di comparse e ruoli minori, che affollano questa collettività.
Nel cedersi la parola, gli uni con gli altri, viene sempre preannunciato chi stia per parlare, come se assistessimo ad un vero e proprio reportage, quasi didascalie per rendere più fluida la comprensione degli eventi.
Agli interpreti vengono richieste in questo spettacolo spiccate abilità di trasformismo: variano tono di voce, mimica e ruoli diversi ad ogni cambio dialogo.
Si occupano inoltre di spostare in scena oggetti per simulare location diverse: continuamente tavoli e sedie entrano ed escono dal palco, sotto gli occhi del pubblico, diventando aula di tribunale, pub per adolescenti, chiesa di paese.
Il tema più ostico trattato dal testo paradossalmente non è quello dell’omofobia, ma l’operazione di rimozione dei fatti, occultati dall’ignoranza: traspare infatti dalle interviste fatte sia agli abitanti di Laramie che ai conoscenti della vittima e agli imputati, un atteggiamento che sminuisce la gravità dell’accaduto, una voglia di nascondere i dettagli per mantenere il buon nome della città, per proteggere la reputazione della “sana” educazione cattolica dei propri giovani.
Le parti in campo, infatti, sono rappresentate su due poli opposti, chi in difesa e chi in attacco, delle scelte di vita e ai gusti sessuali della vittima; un dettaglio risuona però su tutti e cioè la giovane età di Mattew e il diritto di sperimentare, conoscere, sbagliare e osare. Il protagonista è un fantasma che aleggia, è una presenza/assenza nella rappresentazione: nessuno degli attori veste i suoi panni, ma il pubblico ne sente solo parlare.
Molto suggestiva e di grosso impatto visivo è la scena in cui, sul palco, una nevicata copre gli attori, come all’epoca aveva coperto Laramie, durante i funerali del giovane Shepard: tutti armati di ombrelli, sono sopraffatti da questo lutto che, come una delle compagne di scuola afferma, è una sconfitta collettiva, non ha solo a che fare con chi fisicamente lo abbia ucciso, ma con chi ha educato all’omofobia questa giovane generazione.
Le scelte nei costumi non hanno a che fare con il teatrale o con la finzione, anzi puntano ad una verità quasi documentaristica e da reportage, restano semplici e attuali. L’unico momento nel quale il costume diventa simbolo è sul finale, quando, alle grida di una manifestazione di omofobi ed estremisti cattolici, si oppone un coro di angeli che vuole pace, uguaglianza di diritti e libertà sessuale: gli interpreti allora indossano delle grosse ali bianche e portano cartelli per manifestare e urlare il loro pensiero, per portare un messaggio di speranza.
L’elemento video invece ha un ruolo fondamentale nella scenografia, implementandola con immagini di quei paesaggi, con stralci di giornale dell’epoca, con frasi che si ripetono: una su tutte ‘Vivi e lascia vivere’, principio base della tolleranza e dell’accettazione dell’altro, che avrebbero evitato tutto questo dolore. Il dolore di una comunità e di un padre che, nel monologo finale, lascia in silenzio la sala, partecipe e coinvolta dallo spettacolo.
Il teatro così si fa strumento vivo di confronto con la realtà e come catalizzatore di dibattiti: dalla lotta e dalla perseveranza dei genitori della giovane vittima è nata, negli Stati Uniti, una legge contro i crimini d’odio che porta il nome di Shepard. Questo caso come tanti altri ci fa pensare a quelle famiglie, come a quella di Cucchi che hanno investito la loro vita trasformando il dolore in sete di giustizia, in voglia di rendere migliore la società, con il lutto capace di andare oltre il dolore per diventare lotta culturale e politica.
IL SEME DELLA VIOLENZA – The Laramie project
di Moisés Kaufman e dei membri del Tectonic Theater Project
regia Ferdinando Bruni e Francesco Frongia
traduzione Emanuele Aldrovandi
con Margherita Di Rauso, Giuseppe Lanino, Umberto Petranca, Marta Pizzigallo, Marcela Serli, Nicola Stravalaci, Umberto Terruso, Francesca Turrini
luci Michele Ceglia
suono Giuseppe Marzoli
produzione Teatro dell’Elfo e Fondazione Campania dei Festival in collaborazione con Festival dei Due Mondi di Spoleto
in accordo con Arcadia & Ricono Ltd
per gentile concessione di CAA CreativeArtistsAgency
3 febbraio 2023 | Teatro Elfo Puccini, Milano