ENRICO PASTORE | Teatro dei Venti il 3 e 4 febbraio ha portato in scena nella Casa Circondariale di Modena una versione di Giulio Cesare di Shakespeare. I temi di riflessione sono così tanti che si affollano alla mente come i personaggi di Pirandello.
La tragedia si incentra su una questione oggi quanto mai pregnante e insistente: può un gesto puro, pur efferato come l’assassinio di un possibile tiranno, essere una soluzione al decadere delle istituzioni democratiche? Roma, dopo la guerra civile, è nelle mani di Cesare il quale è, per i difensori dei valori della repubblica romana, un pericolo, benché rifiuti ripetutamente la corona. Bruto, figlio adottivo di Cesare, decide di partecipare alla congiura dopo molte esitazioni, non per ambizione di potere, ma perché lo ritiene giusto verso un ideale di cosa pubblica. L’assassinio, però, non salva Roma. Marco Antonio cavalca il vuoto di potere e si giunge a una seconda guerra civile (preludio a una terza di là da venire). Bruto e Cassio muoiono a Filippi, ma le nubi restano fosche su Roma.
Shakespeare rappresenta in questa tragedia le inquietudini sulla successione della sua Inghilterra, i pericoli e le congiure che gravano sul regno di Elisabetta I pronto a ricadere nella guerra civile e di religione. La regina vergine non ha eredi e questo terrorizza, dopo il sangue versato durante i regni precedenti. La successione è un rovello costante per il Bardo. La troviamo in Re Lear e in Riccardo III per esempio, ma non solo.
Stefano Tè e i suoi attori riportano alla luce questo timore e ci ripropongono la durezza della vicenda shakespeariana nell’asciuttezza di una versione ridotta all’essenziale. Le scene, i monologhi, le invettive, tutto assume un’importanza e una necessità senza mai debordare nell’ampolloso o nel ridondante.
La scena si apre su un Cesare di una corpulenza buddica e massiccia, fisicamente emblema dell’enormità del personaggio. Troppo grande per Roma, troppo pericoloso.
Assiso su un trono incontra l’indovino che, con un incedere misterioso, ma inesorabile come il destino, gli paventa il pericolo delle Idi di marzo. L’indovino ha una presenza inquietante. Ogni suo minimo gesto, come le dita che si stringono sul vincastro, sono carichi di un ferale vaticinio. Cesare non ha paura.
Il buio scende e appaiono Bruto e Cassio. Il secondo cerca di guadagnare alla causa il primo, vincendo le sue remore nei riguardi del proprio benefattore. La secchezza di Cassio, non solo fisica, ma nell’eloquio, i ricci e la barba incolta di Bruto che ricordano Gian Maria Volonté in Giordano Bruno, sono emblemi del rovello interiore che li accomuna: tradire il padre per onorare Roma, uccidere il proprio benefattore per salvare la democrazia.
Si giunge all’assassinio di fronte al coro in ombra, folla anonima e pronta a cambiar partito come bandiera al vento. Ma quel gesto puro, perché disinteressato persino nella sua ferocia, viene subito cavalcato dalla doppiezza di Marco Antonio: il coro passa rapidamente dall’assoluzione alla condanna, trascinato dall’eloquio del tribuno. Quel coro inneggiante non comprende che sta accelerando la caduta di quelle istituzioni che si volevano salvare. Uccidere il tiranno non porta, dunque, alla ribalta un altro possibile tiranno? La presenza dell’indovino, terribile e misteriosa, ci paventava proprio questo: le idi di marzo si ripetono ancora e ancora. Il potere genera invidia, il vuoto di potere genera guerre fratricide.
Bruto si sente in trappola e arriva ai ferri corti con Cassio, lontano dal suo disinteresse e già pronto a vendere cariche pubbliche ai suoi amici, anche quelli di dubbia fama. La lotta tra i due è cruenta, benché stilizzata, quasi fosse un’arte marziale. Si avverte la tensione tra i due, che sfuma nel nome dell’amicizia. Ormai, siamo alla notte che precede la battaglia di Filippi, i giuramenti di amicizia sono funestati dai presagi di morte. Lo scontro avviene nell’ombra, in una corsa circolare simile a una danza. I corpi cadono uno a uno. Anche Bruto e Cassio. Marco Antonio giunge sul campo da vincitore e rende gli onori a Bruto ormai cadavere. Ottaviano è solo nominato ma già incombe nell’ombra.
La tragedia shakespeariana ha nella regia di Stefano Tè un incedere rapido, quasi fosse Macbeth, pur nella sua lentezza. Sembra aver fatto propria la massima latina Festina lente, affrettati con lentezza. Tutto precipita, ma piano piano, quasi dolcemente. Anche l’assassinio di Cesare, la sua caduta, avviene come al rallentatore. I movimenti degli attori, tutti molto efficaci nel dosare gesti e parole, usando le giuste pause, sfruttando i silenzi e le immobilità, conducono lo spettatore nell’abisso del caos di una guerra civile e di una crisi istituzionale. Questo incedere quasi rituale cattura l’osservatore. La massima attenzione e l’ascolto vicendevole degli attori aiuta a far crescere la tensione. Tutto avviene in un silenzio carico di attese e in quel mare di silenzio e di ombre sorgono le domande che afferrano l’animo dello spettatore e non lo lasceranno con la fine dello spettacolo.
Tutto questo è Giulio Cesare del Teatro dei Venti. Un spettacolo a tutto tondo, impreziosito dalla musica dal vivo di Irida Gjergji, che il pubblico merita di vedere ancora. Soprattutto merita di gustare la bravura di questi attori, e sottolineo la parola attore in tutta la sua valenza di veicolo di voci e presenze. Potrebbe apparire ridondate questa sottolineatura, ma non tutti gli attori sono di questa specie. Vi sono quelli che ostentano sé stessi o la propria bravura, quelli abili nel proprio mestiere, tanto da galleggiare sulla parte senza parteciparvi fino in fondo, quelli poi che arrancano nonostante la tecnica. E poi ce ne sono di una specie rara, che si sottraggono, svaniscono per fare spazio, per lasciar trasparire i volti delle ombre che sanno evocare. La loro non è parola, ma canto, il loro gesto è pensiero e non sottolineatura del già detto. Gli attori di Stefano Tè hanno saputo appartenere a questa specie. Il fatto che siano dei detenuti ci dice soltanto che il teatro, quello le cui funzioni sono ben attivate, ossia azione e parole generanti pensiero di fronte a una comunità riunita di fronte a un’urgenza comune, appare in qualsiasi luogo, quando viene agito con una certa ragione, visione e coscienza.
É allora che il contesto svanisce e resta la scena. Tutto quello che abbiamo dovuto fare per entrare e partecipare a una rappresentazione in carcere, una trafila burocratica che inizia bene prima del debutto dello spettacolo con la consegna dei documenti all’autorità di polizia penitenziaria, e in seguito, tutte le procedure di controllo, i cancelli che si aprono e poi si chiudono dietro le spalle, rendendoci per qualche ora reclusi con i reclusi, tutto questo sparisce di fronte alla scena in quell’area formata da un semplice assito poco rialzato dal piano di visione, spazio in cui tutto può accadere.
Non è superfluo ricordare che questo Giulio Cesare è parte di un progetto che prevede per il biennio 2022-23 una trilogia dedicata al Bardo: un Amleto con i partecipanti al laboratorio teatrale nel carcere di Castelfranco Emilia, e un Macbeth, in forma di radiodramma, con la partecipazione di attori di entrambi gli istituti di pena.
Segnaliamo anche l’avviamento del progetto AHOS All Hands On Stage – Theatre as a tool for professionalisation of inmates sostenuto dal programma Europa Creativa, il cui scopo è cercare di fornire una formazione nelle professioni tecniche teatrali al fine di agevolare un inserimento futuro nel mondo lavorativo. Questo per ricordarci che il carcere dovrebbe avere come primaria finalità il reinserimento e non essere un luogo discarica dove ci si dimentica del male che alberga nella natura umana e di cui tutti siamo partecipi.