GIORGIA VALERI* | Dal 2010, MTM – Manifatture Teatrali Milanesi ripropone in stagione un adattamento teatrale del capolavoro di Amos Kamil, Il venditore di sigari, in scena anche quest’anno al Teatro Litta nelle date prossime a quelle della giornata della memoria.
Il progetto artistico di Manifatture torna quindi a riflettere su un testo che chiama in causa il Vergangenheitsbewältigung, quel complesso di colpa storico che scontano i popoli tedesco e austriaco dal dopoguerra a oggi, ma che può essere esteso a numerose altre situazioni e contesti al di fuori dalla questione nazista.
Il testo di Kamil, presentato per cinque mesi consecutivi off-Broadway dieci anni fa e poi portato in giro per tutto il mondo, conserva una forza dirompente, fa leva sull’urgenza di espiare quei sensi di colpa ereditari che si stratificano sul patrimonio genetico di ciascuno e che ne amplificano l’eco tragica.
Nel buio della sala, l’imponente tabaccheria (realizzata da Ahmad Shalabi e ideata da Francesca Pedrotti) lascia poco spazio alla fantasia: grossi scaffali impolverati, vetri unti e un bancone d’epoca intarsiato occupano tutto il palcoscenico, lo inglobano e proiettano ombre lugubri sulle assi del pavimento.
L’attesa viene interrotta dallo scricchiolio dell’incedere pacato del venditore di sigari Herr Gruber (Paolo Cosenza), che accende man mano le luci e mette sul giradischi un brano di Bach, che detterà la chiave di lettura dello spettacolo. Siamo nella Berlino del 1947 e alle 6.30 del mattino fa il suo ingresso il professore universitario Doktor Reiter (Gaetano Callegaro, attore nonché direttore e fondatore storico del Teatro Litta), in cerca di un sigaro particolare, l’ultimo sigaro tedesco prima della sua dipartita dalla Germania verso la fondazione dello Stato d’Israele.
Le incongruenze nelle personalità carismatiche dei due personaggi vengono subito messe in luce da uno scambio dialogico lento, cadenzato sulle riflessioni filosofiche del professore che, con grande retorica, vuole dichiarare a ogni costo, a se stesso più che al pubblico, i propri buoni propositi. Si muove freneticamente tra uno scaffale e l’altro, preso dalle sue riflessioni, si siede, alza le braccia al cielo e le incrocia sul petto, estrae persino una sedia nascosta tra gli scaffali.
Le affabulazioni tuttavia si infrangono contro un muro di reticenza e omertà. Il presunto negoziante tedesco si barrica dietro la galanteria e la gentilezza di costume oltre che dietro il proprio bancone, svia i discorsi e rifugge domande scomode sul proprio passato. Il linguaggio forbito del professore, quasi caricaturale e macchiettistico, incalza la conversazione mentre si allunga sempre di più sul bancone. Vengono scomodati Spinoza, Cartesio e Nietzsche per argomentare quella che Hannah Arendt definì lapidariamente come “la banalità del male”. “Quanto abbiamo sofferto. Ma alcuni più di altri.” è la frase che echeggia al termine di ogni sua speculazione, come a sancire un giudizio sentenzioso sul suo interlocutore, assunto come portavoce universale di una nazione criminale.
L’accusa non cade nel vuoto, si fa pretesto per il disvelamento finale dell’identità del negoziante che, scostando il bancone e aprendosi un varco attraverso gli scaffali, rivela essere anch’egli un ebreo sfuggito all’Olocausto. Nel dialogo quindi viene stabilito finalmente un ponte comunicativo, un terreno comune dove rinfacciarsi reciprocamente colpe e responsabilità mai affrontate: da una parte si apre il paradosso di un uomo di cultura che è vigliaccamente fuggito dalla “sua Germania” per evitare l’orrore del genocidio, dall’altro il martirio psicologico di un soldato che ha combattuto per la nazione che ha sterminato la sua famiglia.
Alberto Oliva, giornalista e regista dello spettacolo, che da anni collabora con il teatro Litta, spezza il ritmo della narrazione lasciando spazio al dolore sordo di Gruber che, all’interno di un occhio di bue melodrammatico, racconta la storia della sua famiglia. Bach si interrompe, la musica non scandisce più il ritmo incalzante del dialogo.
È un finale di partita senza esito, destinato a perpetuarsi nella coscienza con un’eco sorda di rabbia e indignazione. Il professore dunque se ne va, le luci (curate da Fulvio Melli) si spengono, il negoziante chiude il negozio e poggia il braccio del giradischi su Mendelssohn. Bach, tedesco, viene rimpiazzato dal compositore ebreo, estromesso durante tutta la conversazione.
Il tema della memoria, del giudizio, dell’odio e dello smarrimento emotivo cadono così nel vuoto, risucchiati nel morbido buio della tabaccheria.
Il sentimento generale dello spettacolo si fonda sull’assenza di empatia dei personaggi: non c’è dolore condiviso, perché i personaggi restano barricati nel proprio mondo, nelle proprie visioni della vita, nel proprio ‘tipo’.
La regia enfatizza ulteriormente questa atmosfera che aleggia sulla vicenda chiudendo gli interpreti dentro un involucro recitativo da Kammerspiel che, pur coerente, finisce per apparire alla lunga artefatto, rendendo debole il legame con i temi affrontati.
Il dramma intimo non arriva quindi con la dovuta forza, con particolare riferimento ai salti emotivi della narrazione, che ci pare non vengano assecondati compiutamente, lasciando buchi inferenziali che impediscono una fruizione completamente emotivamente partecipe.
IL VENDITORE DI SIGARI
di Amos Kamil
produzione Manifatture Teatrali Milanesi
regia Alberto Oliva
traduzione Flavia Tolnay con la collaborazione di Alberto Oliva
con Gaetano Callegaro e Paolo Cosenza
scene e costumi Francesca Pedrotti
realizzazione scenografica Ahmad Shalabi
disegno luci Fulvio Melli
direzione di produzione Elisa Mondadori
2 febbraio 2023 | Teatro Litta, Milano
* PRIMAVERA PAC è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture in collaborazione con docenti e università italiane per permettere la formazione di nuove generazioni attive nella critica dei linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac accoglie sul sito le recensioni di questi giovani scrittori seguendone la formazione e il percorso di crescita nella pratica della scrittura critica.